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- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
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Sandro Spinsanti
LEGGI DI MERCATO ED ETICA PROFESSIONALE
in SIFO bollettino
maggio-giugno 2010, pp. 84-85
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Reagiamo con disagio alla notizia del ritiro dal mercato greco, da parte della Novo, di alcune insuline. Per alcuni il disagio può lasciare il posto all’indignazione morale. Anche senza voler demonizzare il mercato ― con tutti i suoi limiti e difetti, resta una delle forme migliori per far circolare nella società beni e servizi ― non possiamo esimerci dal mettergli dei limiti. In un saggio di qualche tempo fa, dedicato al trapianto di organi, Giovanni Berlinguer osservava che anche le persone più favorevoli al mercato tendono a sottrarre alcune realtà a questo regime economico: come i voti politici e la compravendita di parti del corpo umano (G. Berlinguer: La merce finale, Baldini Castoldi, 1996). Al polo opposto, tra le merci delle quali non abbiamo dubbi che sia lecito fare mercato, possiamo collocare il pane e la birra: secondo la celebre affermazione di Adam Smith, il cibo non ce lo aspettiamo dalla benevolenza del negoziante, ma dal suo interesse commerciale. Tra l’uno e l’altro estremo si colloca il farmaco. È un bene commerciabile, ma tendiamo a sentirlo non riducibile alle regole del mercato. Almeno in modo relativo, se non assoluto.
Consideriamo le diverse organizzazioni di sanità pubblica e socializzata come la felice realizzazione di una utopia: il sogno di non far dipendere la possibilità di curarsi dalle possibilità economiche del malato. Da poco più di trent’anni i cittadini italiani dispongono di un servizio sanitario nazionale che ha radicalizzato le pur notevoli possibilità di protezione sociale che esistevano nel sistema delle casse mutue. L’utopia realizzata dal SSN concede ai cittadini italiani il privilegio di potersi curare con i farmaci di cui hanno bisogno senza prima controllare nel portafoglio se hanno i soldi per pagarseli. Il film di Michael Moore Sicko ha illustrato, con una vena polemica molto eloquente, come vanno le cose in un grande paese che dispone di una medicina avanzatissima, ma pensata in chiave liberistica estrema: per un’ampia fascia della popolazione degli Stati Uniti ogni trattamento medico deve essere preceduto da una realistica considerazione su chi paga e su che cosa viene garantito. Siamo fieri di un sistema sanitario che àncora l’erogazione dei servizi ― in primis i farmaci necessari ― al diritto della persona, sottraendola alla precarietà del mercato. È una conquista di civiltà alla quale nessuno propone di rinunciare. Il malessere legato alla notizia dei pazienti diabetici privati di un farmaco efficace per calcoli economici dell’azienda farmaceutica produttrice è frutto di una sensibilità etica prodotta dai sistemi sanitari universalistici.
Ma c’è anche altro. Il problema dell’accesso ai farmaci necessari in base al bisogno e non alle capacità economiche dei singoli ci interessa non solo in nome di quell’etica sociale che ha ispirato la creazione del welfare state. Interessa i
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professionisti sanitari sulla base della loro etica professionale. L’etica medica ha registrato di recente un ampliamento sul piano sociale, acquisendo una dimensione che era estranea all’etica ippocratica tradizionale. Questa vincolava il medico alla promozione del bene del paziente: il sanitario doveva fare ciò che, “in scienza e coscienza”, riteneva benefico per la persona che aveva in trattamento. L’eventuale bilanciamento tra coloro che potevano permettersi farmaci e trattamenti e i malati che per condizioni economiche erano esclusi veniva lasciato alla sensibilità individuale del medico. Venivano additati a modello i medici che, ispirati da motivi religiosi o da sensibilità sociale, si facevano pagare dai ricchi e curavano gratuitamente i poveri (magari regalando loro le medicine...).
Rispetto a questo modello è una novità dirompente quella introdotta dal Codice deontologico dei medici italiani nella sua ultima revisione del 2006. La risposta alla domanda: «Quando un medico può essere detto un buon medico?» è fornita dall’art. 6, dedicato alla qualità professionale del medico. Ed è una risposta complessa. Non basta più orientarsi al bene del paziente, mediante un intervento diagnostico-terapeutico corretto; secondo il Codice, «Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona, tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse». In altre parole: si può chiamare “buon medico” solo il professionista che: 1) prescrive le cose giuste; 2) nel modo giusto; 3) a tutti quelli che hanno diritto e bisogno.
Questa terza dimensione è particolarmente sottolineata nel paragrafo successivo: «Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure». Ciò significa che la qualità professionale si misura con tre parametri e deve confrontarsi con tre valori ideali: il bene del paziente, il rispetto della sua autonomia, l’equità. Questa tridimensionalità vale per il sistema sanitario nel suo insieme, e per l’uso dei farmaci in particolare. È necessario che siano prescritti i farmaci giusti (che abbiano cioè dato prova di efficacia), nel modo giusto (ovvero con “rispetto dell’autonomia della persona” richiesto dal Codice deontologico), a tutti coloro che hanno realmente bisogno, superando quelle discriminazioni che il mercato porta inevitabilmente con sé.
Queste esigenze etiche plurali, che creano uno scenario di complessità impensabile per la medicina del passato, andranno perseguite con gli strumenti adeguati. Mentre l’efficacia dimostrata di un farmaco ha bisogno di ricerche e verifiche evidence-based, il rispetto dell’autonomia della persona richiede un orientamento alla decisione condivisa basato su un uso corretto del consenso informato. Per quanto riguarda la promozione della giustizia, gli strumenti eccedono le possibilità del professionista in quanto singola persona: sono necessarie procedure aziendali, valutazioni complesse di rapporti costi-benefici e prontuari farmacologici; senza dimenticare le opportune strategie negoziali afferenti al mercato.