AIDS la sindrome misteriosa

Book Cover: AIDS la sindrome misteriosa
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

AIDS LA SINDRONE MISTERIOSA

in Jesus

anno X, giugno 1988, pp. 3-6

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Mai come oggi l’uomo si sente minacciato

da un morbo che rievoca medievali ecatombi

Secondo le fonti ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità, da 5 a 10 milioni di persone attualmente nel mondo hanno il virus della "peste del Duemila" e nei prossimi dieci anni salirà a 100 milioni il numero degli infetti. Nessuna precedente malattia dell’umanità ha mai suscitato tanti problemi etici, né ha in tale misura interpellato la Chiesa. Ecco perché, nelle pagine che seguono, anche Jesus si preoccupa di illustrare il problema e di offrire alcuni elementi di riflessione.

«Ancora uno scritto sull'Aids...!». Nonostante la comprensibile irritazione per l’abbondanza della pubblicistica sul tema e il senso di saturazione che ingenera nel lettore, non possiamo permetterci il lusso di girare pagina, ignorando l’argomento. I toni dell’allarmismo più isterico che ha caratterizzato le campagne di stampa alle prime notizie dell’epidemia sono scomparsi. Oggi la sindrome da immunodeficienza acquisita non è più una malattia misteriosa, di cui si ignorano la natura e la modalità di contagio: possiamo dire che, dal punto di vista biologico-medico e sanitario, la malattia non ha più segreti. Soltanto che non possiamo ancora guarirla. E non possiamo prevedere quale sarà lo scenario, a livello mondiale, della diffusione del contagio di qui a qualche anno. Si estenderà a macchia d’olio al di fuori delle categorie a rischio, oppure le misure profilattiche riusciranno a contenerlo? Quante delle persone attualmente portatrici del virus svilupperanno la malattia, e in quanto tempo? I Paesi africani, nei quali la diffusione è endemica e le campagne igieniche più difficili da condurre, crolleranno sotto i colpi di maglio di un flagello che spazza via prevalentemente le persone in età media, sulle quali riposa l'economia di una nazione? Secondo il microbiologo belga Peter Piot, in Africa — soprattutto in Uganda, Rwanda, Burundi, Tanzania, Zaire e Zambia ― dal 15 al 25 per cento della popolazione adulta sarebbe affetto dal virus. A queste e ad altre fondamentali domande non sappiamo rispondere.

Immagine di sintesi a tre dimensioni del virus dell'Aids, malattia che annulla gradatamente tutte le difese dell'organismo al punto che anche un semplice raffreddore può diventare mortale.

Dal punto di vista biologico e sanitario, il morbo non ha più segreti, ma non si sa come curarlo.

Ciò giustifica il senso di emergenza con cui dobbiamo ancora considerare l’Aids, con la consapevolezza che neppure la fantasia più pessimista può prevedere il peggio che può abbattersi sull'umanità (secondo le fonti ufficiali dell'Organizzazione mondiale della sanità, da 5 a 10 milioni di persone attualmente nel

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mondo hanno il virus dell’Aids e nei prossimi 10 anni salirà a 100 milioni il numero degli infetti).

Esiste inoltre un motivo particolare per occuparsene specificatamente in quanto cristiani. Nessuna precedente malattia dell’umanità ha mai suscitato tanti problemi etici, né ha in tale misura interpellato la Chiesa, in quanto annunciatrice di una verità sull’uomo e promotrice di comportamenti coerenti di risposta a problemi umani.

È la prima volta che la Chiesa ― anzi, le Chiese, nell’espressione più ampia ed ecumenica della realtà storica dei discepoli di Cristo ― si raduna intorno a un problema di salute in quanto tale. Di questa duplice dimensione dell’Aids, etica e pastorale, il presente dossier vuol stabilire un bilancio.

Non demonizziamo gli ammalati

La prima spinta a coniugare etica e Aids è venuta indiscutibilmente dal fatto che la malattia si è presentata fin dall'inizio collegata a comportamenti considerati moralmente e socialmente devianti: l'omosessualità e la tossicodipendenza. Esiste tuttavia una quantità di problemi riconducibili, più in generale, al comportamento che i sanitari devono tenere quando hanno a che fare con una malattia contagiosa. In tali casi devono ispirarsi, oltre che alle conoscenze tecniche dell’arte sanitaria, anche a delle regole che dipendono dai valori che sono parte essenziale della medicina: la filantropia, la rinuncia a discriminazioni nel servizio a ogni malato, il rispetto di regole di natura deontologica.

Si sono avute notizie sporadiche di comportamenti abnormi dal punto di vista di questi doveri professionali da parte di medici e infermieri, i quali, sotto la spinta emotiva delle “demonizzazioni” a cui i malati di Aids sono stati soggetti nell’opinione pubblica e delle inaccurate informazioni allarmistiche sui pericoli di contagio, si sono rifiutati di prestare le loro cure a persone affette dalla malattia. Ciò ha provocato risposte consapevoli da parte degli ordini professionali sui doveri morali dei sanitari. Nessuna innovazione, in sostanza: si tratta praticamente di attualizzare le regole a cui i sanitari devono attenersi di fronte a minacce di epidemia, regole tradizionali, che i medici hanno già stabilito quando la peste o il vaiolo facevano strage. Valga, a titolo di esempio, l’elencazione delle norme deontologiche ricordate dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei medici in Francia (marzo 1987).

Secondo tali norme, in caso di Aids i medici sono tenuti a: «curare anche quando i pericoli del contagio non possono essere evitati; curare con la stessa coscienziosità e lo stesso rispetto ogni malato, qualunque siano la sua condizione, la sua reputazione e i sentimenti che ispira: la quantità delle cure non può dipendere dall’umore del medico e dalle sue simpatie; rispettare e far rispettare le misure igieniche e profilattiche attualmente stabilite per il personale curante: questo non deve, a causa di negligenze, correre un rischio aggravato di contagio; rispettare il segreto professionale e vigilare affinché sia rispettato dai collaboratori, specialmente per una malattia le cui particolarità suscitano delle emozioni che non devono obnubilare lo spirito; proibirsi ogni certificato menzognero, anche se lo scopo è quello di facilitare la permanenza del malato nel suo ambiente naturale».

La norma del segreto professionale può porre a più di un medico dei delicati problemi di coscienza. È chiaro che, da un punto di vista puramente medico-legale, il suo dovere si limita a segnalare alle autorità competenti i casi di Aids di cui è a conoscenza (in Italia l’Aids è stata annoverata, con decreto ministeriale del 28 novembre 1986, tra le malattie infettive e diffusive soggette a segnalazione obbligatoria; la dichiarazione riguarda la sindrome di Aids, non la sieropositività in quanto tale).

La divulgazione della diagnosi, peraltro, deve restare soggetta alle regole del segreto medico: nessuna informazione può essere data, neppure a congiunti, genitori, amici e datori di lavoro, senza l'autorizzazione esplicita della persona colpita. Come deve comportarsi il medico,

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quando il malato di Aids gli domanda espressamente di conservare il segreto professionale e di non rivelare la malattia o la sieropositività al coniuge o partner sessuale, con il rischio di infettarlo? Esaurito ogni mezzo persuasivo, il medico non potrà che tacere, per salvaguardare il bene prezioso della confidenzialità. Tuttavia il rispetto di un diritto inalienabile della persona, utilizzato questa volta in funzione di un interesse egoistico, metterà sicuramente il medico di fronte a un conflitto morale, rispetto alla sua volontà di soccorrere con l’informazione le vittime inconsapevoli.

Un altro capitolo del problema etico dell'informazione riguarda la ricerca sistematica della presenza nel sangue di anticorpi provocati dal virus. La persona venuta a contatto con il virus non è, di per sé, malata di Aids; ma dalla sieropositività può svilupparsi in qualsiasi momento l’Aids o sindromi correlate (Arc). Quando l’esame risultasse positivo, bisogna informare la persona interessata? La mancanza di informazione impedirebbe alle persone sieropositive di adottare le misure preventive per impedire la propagazione dell’infezione all’ambiente, in particolare al coniuge. Sollecitato di un parere in merito, il Comitato nazionale di etica stabilito in Francia si è espresso in senso positivo: «Davanti alla costatazione di sieropositività, e tenuto conto della possibilità di una grave evoluzione dell’infezione e dei rischi di diffusione della malattia, il Comitato ritiene che il medico del Centro trasfusionale deve tenere un atteggiamento di totale franchezza nei confronti dell’interessato, e lo informerà delle sue responsabilità personali, familiari e relazionali» (parere del 13 maggio 1985).

La carica emotiva legata a una tale notizia esige che si ponga particolare attenzione alla modalità stessa in cui l'informazione viene trasmessa. È necessario che ciò avvenga nel contesto di un colloquio medico, non con una semplice comunicazione epistolare dei risultati del test.

Il momento di maggiore emergenza della dimensione etica inerente all’Aids è quello relativo alle misure di politica sanitaria da prendere, in vista di un contenimento dell’epidemia. Può qui presentarsi un conflitto frontale tra l'interesse pubblico alla tutela della salute e la doverosa salvaguardia dei diritti di ogni cittadino alla libertà, alla riservatezza e alla dignità. In questo ambito, chi rappresenta il punto di vista dell’etica può facilmente sentirsi indotto a schierarsi esplicitamente dalla parte dei valori inalienabili della persona. Moralisti e giuristi mettono in guardia i pubblici poteri: «Il virus dell'Aids, che è già costato la vita di 15.000 americani, rischia di distruggere le libertà di un numero ancora più grande», dichiarava D.J. Merritt nel dicembre 1986 dalla tribuna dell'Hastings Center Report, la rivista di uno dei più autorevoli centri di bioetica americani.

È indispensabile il confronto con l’etica

Anche i politici più consapevoli si rendono conto che il confronto con l'etica è indispensabile, affinché la battaglia contro l’Aids non debba enumerare i diritti dell’uomo tra le sue vittime più illustri. Ne ha fornito l’esempio più vistoso il presidente della Repubblica francese con la sua proposta di creazione di un Comitato internazionale di etica che si occupi della lotta contro l’Aids. Il Comitato è stato decretato il 10 giugno 1987 a Venezia, in occasione di un incontro tra i capi di Stato e di governo dei sette Paesi più industrializzati. Questa istanza internazionale permetterà, secondo Mitterrand, di vigilare per la salvaguardia dei valori umanistici, che potrebbero essere messi in pericolo da certe decisioni prese per controllare l’epidemia. Alcuni governi inclinano, infatti, verso misure coercitive o mettono in atto campagne lesive dei diritti umani.

Riconoscere un posto all’etica nel concetto di salute pubblica è sicuramente una novità di grande significato. Anche il ministero della Sanità in Italia, nel costituire la sua Commissione nazionale di lotta contro l'Aids, ha deliberato che fosse rappresentato anche il punto di vista dell’etica.

Libertà individuale e sicurezza collettiva entrano in rotta di collisione in alcuni punti specifici di politica sanitaria. In primo luogo, bisogna organizzare un "depistaggio sistematico” di tutta la popolazione o di una parte di essa (come ad esempio, i gruppi a rischio)? Alle posizioni più rigide vengono contrapposte varie argomentazioni. Misure coattive di questo genere provocherebbero il tentativo da parte degli individui più implicati di sottrarsi

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ai controlli, per paura di essere emarginati. Per quanti test si facciano, il numero delle persone infettate senza saperlo è sempre maggiore di quello degli individui inventariati. Il solo modo disponibile di interrompere la catena del contagio consiste nell’agire non sugli individui, ma sulla modalità di trasmissione della malattia. E necessario perciò che ogni individuo sia informato e che il pubblico venga educato alla prevenzione. Assumendo questa prospettiva, la ricerca dell'efficacia si unisce al rispetto dei diritti della persona nello sconsigliare il ricorso al test sistematico.

Una seconda questione riguarda le misure di isolamento a cui sottoporre le persone infette dal virus. Le cronache ci hanno riferito della discriminazione feroce di cui malati e sieropositivi sono stati vittime nei periodi di maggiore isterismo pubblico. Oggi si sa con certezza che la malattia è contagiosa solo per contatti sessuali e sanguigni. È facile, quindi, proteggersi con i modi appropriati, senza esporre i colpiti a misure di isolamento che non risolvono il problema dell’epidemia e aggravano solo i pesanti problemi psicologici di cui soffrono i malati.

Misure coercitive molto più gravi sono state prese o proposte da alcuni Paesi. Per esempio, un controllo alle frontiere per individuare le persone portatrici del virus.

Il Belgio e l'India hanno preso queste misure nei confronti degli studenti africani (le disposizioni sono state prese in Belgio con l’appoggio di argomentazioni ineccepibili dal punto di vista economico: dato l’impiego di pubbliche risorse necessario per dare una formazione professionale ai giovani, è bene premunirsi dallo spreco di tali risorse che avverrebbe qualora si dessero borse di studio a studenti portatori di virus, destinati probabilmente a morire in giovane età. Ma sarebbe ancora umana la società che valutasse tutte le sue scelte col metro dei costi-benefici?).

Salvaguardiamo i diritti della persona

Il Giappone sta studiando un progetto di test obbligatorio per gli stranieri e gli Stati Uniti hanno annunciato misure equivalenti per tutti coloro che intendono stabilirsi sul territorio americano e il depistaggio sistematico presso l’insieme dei prigionieri incarcerati nelle prigioni federali. In Germania la Baviera ha proposto la registrazione a livello federale dei portatori di virus e ha instaurato l’obbligo di test per le persone "sospette di contagio”, anche contro la loro volontà, l’obbligo per i sieropositivi di informare i loro "partner intimi”, nonché il test obbligatorio per gli stranieri che domandano un permesso di soggiorno in Baviera, per i detenuti e per i candidati a un impiego pubblico.

L’opposizione alle misure coercitive con cui si vorrebbe procedere a un controllo sistematico dei portatori dei virus si basa non solo sulla difesa dei diritti della persona, ma anche su argomentazioni inerenti ai fini della politica sanitaria. Siccome nessuna terapia è attualmente efficace, il riconoscimento della sieropositività condurrà solo all’esclusione sociale e a forme di reclusione. Anche la Comunità europea si è schierata, nel maggio 1987, contro le misure repressive, adducendo come motivo l’«inefficacia, in termini di prevenzione, del ricorso alle politiche di depistaggio sistematico e obbligatorio, in particolare in occasione di controlli sanitari alle frontiere».

Così il virus in Italia

Sin dal 1984 la Lombardia è nettamente la regione più colpita dall'Aids. La ragione principale, stando alle osservazioni epidemiologiche, risiede nell'elevata concentrazione di tossicodipendenti nell'area metropolitana di Milano.