Salute oggettiva, salute percepita e benessere

Book Cover: Salute oggettiva, salute percepita e benessere
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

SALUTE OGGETTIVA, SALUTE PERCEPITA E BENESSERE

in Prospettive Sociali e Sanitarie

anno XXV, 9/95, 15 maggio 1995, pp. 1-4

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Nei giorni 21-22 marzo 1995 si è tenuto a Roma il convegno nazionale “La salute degli anziani in Italia". Il Convegno, nato da un’iniziativa congiunta dell’ISTAT e del CNR, Progetto Finalizzato Invecchiamento e Istituto di Ricerche sulla Popolazione, ha confrontato i dati sulla “salute oggettiva” degli anziani raccolti da varie équipes mediche nell’ambito del Progetto Finalizzato Invecchiamento (studio epidemiologico longitudinale ILSA), e dati sulla “salute soggettiva e salute percepita”, raccolti con le ricorrenti indagini ISTAT. In apertura di convegno il prof. Sandro Spinsanti ha svolto delle considerazioni metodologiche su “Salute oggettiva, salute percepita e benessere”. Riproduciamo la relazione, che sarà successivamente pubblicata negli atti ufficiali del convegno.

Un convegno dedicato a misurare la salute degli anziani in Italia: potrebbe sembrare un’impresa che nasce sotto il segno della dismisura e della presunzione, quel peccato dello spirito che gli antichi greci chiamavano hybris. Possiamo invece affrontare con la relativa serenità d’animo questi temi, perché abbiamo alle spalle l’epidemiologia, una disciplina consolidata e con tutte le carte in regola nei confronti dell’epistemologia. Sappiamo che quanto siamo in grado di dire sulla salute degli anziani è un sapere certo e abbiamo la capacita di difenderne la fondatezza.

Lo storico della medicina Mirko Grmek ha ricostruito in modo esemplare il percorso che ha portato l’epidemiologia nel corso del XX° secolo a mutare radicalmente, ampliando il suo campo d’azione e ridefinendo i suoi compiti. “Essa è passata dall’ambito delle epidemie in senso stretto, cioè delle malattie infettive che colpiscono nello stesso tempo e nella stessa località un numero rilevante di soggetti, a quello delle malattie non contagiose, per interessarsi sempre più degli stati al confine fra normalità e patologia. Attualmente il suo scopo è quello di registrare e sottoporre ad analisi statistiche tutti i fenomeni di morbilità che si manifestano in una popolazione. Oggi quindi gli epidemiologi si sforzano di misurare nel modo più preciso possibile la morbilità in tutti i suoi aspetti”.

Proprio perché può appoggiarsi sulla epidemiologia più sofisticata, il Progetto Finalizzato Invecchiamento è in grado di presentare alla discussione risultati di ricerche che presumono di sapere non solo “come si sentono” gli anziani in Italia, ma, in senso oggettivo, “come stanno”. Per giungere a questi risultati l’epidemiologia ha dovuto affrontare e risolvere problemi concettuali e metodologici di grande peso, che sarebbe fuori luogo ripercorrere qui. Mi limiterò a due flash, quasi in senso letterale, in quanto consistono in due grafici che visualizzano alcuni nodi teorici.

Jénicek e Cléroux (Epidémiologie. Principes, techniques, applications, 1982) hanno proposto un grafico che illustra la variabilità del profilo sanitario in funzione dei diversi modi di percepire la morbilità (Fig. 1). Quando l’epidemiologia ha assunto la morbilità, piuttosto che la mortalità, come indice dello stato sanitario di una popolazione, ha operato un cambiamento decisivo per la disciplina. Ma allo stesso tempo si è molto complicato il suo lavoro. Il decesso è un avvenimento che si verifica, salvo rare eccezioni, in modo indiscutibile, limitato nel tempo e, dal punto di vista della statistica, senza equivoci. La malattia, invece, è un fenomeno biologico molto complesso, che resiste a una chiara concettualizzazione, univoca e costante, e a una registrazione esauriente. I tassi di morbilità non sono gli stessi se ci si occupa della malattia come viene vissuta dai malati o come viene considerata da chi assiste il malato, oppure della malattia quale viene effettivamente diagnosticata dai medici sui pazienti, dalle équipes di ricerca su campioni di popolazione (come hanno fatto i ricercatori dello studio ILSA sui 5.623 anziani della ricerca promossa dal CNR), o dai patologi sui cadaveri.

La morbilità registrata, così come compare nelle statistiche, è solo una frazione della morbilità reale: la si può paragonare alla parte visibile di un iceberg. Oppure a una cipolla (Fig.2). Non oserei ricorrere a un’immagine così scanzonata se non fosse già stata proposta da seri studiosi (Imhof e Larsen, Sozialgeschichte der Medizin, 1976). L’immagine mostra la diminuzione del numero reale di malati quando si passa dalla semplice indisposizione alla consultazione medica, all’ospedalizzazione e infine alla morte. Quando si valutano i dati in cifre della morbilità, bisogna considerare quale strato di questa “cipolla” viene preso in esame.

Come regola generale sono registrati con approssimazione soddisfacente soltanto i due strati interni. Una malattia cronica, che indebolisce senza uccidere, può rappresentare un problema medico e sociale più importante di una malattia acuta, di breve durata e quasi sempre fatale; ma la statistica della morbilità darà più peso a quest’ultima, che è più “visibile” attraverso la documentazione di base. Esiste ovviamente una morbilità “oggettiva”, senza sintomi clinici, la cui ampiezza supera quella della morbilità dovuta a malattie sentite come disturbo funzionale dalle persone colpite. La statistica generale della morbilità non la tiene in considerazione, ma essa può diventare oggetto di speciali inchieste epidemiologiche, realizzate

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attraverso il dépistage sistematico all’interno di una collettività. È quanto si è proposto e ha realizzato il Progetto Finalizzato Invecchiamento, i cui risultati saranno presentati in esteso in questo convegno. Lo studio si è proposto, con un impegno fuori dell’ordinario, di misurare correttamente la faccia nascosta della morbilità totale della fascia anziana della popolazione, andando a scovare sistematicamente i disturbi che non vengono portati se non sporadicamente all’attenzione del medico. Possiamo salutarlo, senza retorica, come un punto d’arrivo dell’epidemiologia contemporanea. Di questo studio, e dell’epidemiologia che esso presuppone, possiamo a giusta ragione essere fieri.

La salute oggettiva: un “trionfo della medicina”?

Studi longitudinali come l’ILSA ci pongono su un piano di indagine in cui i fatti patologici sono rilevati in modo oggettivo, misurati con apparecchiature, quantificati e comparati. Dobbiamo riconoscervi un “trionfo della medicina”? Mettiamo tra virgolette questa espressione perché intendiamo riferirci all’uso che ne è stato fatto da uno scrittore francese, già molti decenni fa. Il riferimento è ovviamente a Jules Romanis e alla sua commedia Knock, o il trionfo della medicina. Andata in scena per la prima volta nel 1923, non ha cessato di godere un successo di cartellone ininterrotto (almeno in Francia). Ne è stata fatta anche una riuscita versione cinematografica, con Jouvet nel ruolo del protagonista. La pièce descrive il “trionfo della medicina”, ad opera del dottor Knock, in un paese di provincia, Saint-Maurice. Knock è guidato da un’idea, quella che aveva sostenuto come tesi di dottorato in medicina: “Sì, trentadue pagine in ottavo: Sui pretesi stati di salute, con questa epigrafe, che ho attribuito a Claude Bernard: I sani sono dei malati che si ignorano”.

All’inizio della pièce il dott. Knock rileva la condotta medica dal vecchio dott. Parpalaid, che la lascia ben volentieri per andare ad aprire uno studio in città. Il dott. Knock fa, informalmente, un’inchiesta epidemiologica presso il collega. Lo interroga sulla morbilità e mortalità della regione, e sulle possibilità di farsi una buona clientela. Il paese è pieno di “reumatizzanti”, ma il dott. Knock non deve farsi illusioni. Gli spiega il dott. Parpalaid: “Alla gente di qui non verrebbe in mente di andare da un medico per un reumatismo, così come voi non andreste dal parroco per far piovere”. Quanto alle polmoniti e alle pleuriti ― prosegue il vecchio medico ― sono rare: “Il clima è rude. Tutti i neonati cagionevoli muoiono nei primi sei mesi, senza che il medico debba intervenire, beninteso. Quelli che sopravvivono sono dei fusti robustissimi. Tuttavia abbiamo degli apoplettici e dei cardiaci. Ma non ne hanno il minimo sospetto e muoiono d’un colpo verso la cinquantina”.

Potremmo dire che il problema della salute a Saint-Maurice non si pone neppure sotto forma di preoccupazione per lo stato di salute soggettivo. I contadini in questione non sono inclini a osservare i sintomi, a interrogarsi su come si sentono. Ma ci penserà il dott. Knock a produrre quel cambiamento culturale, di costumi, idee, credenze che porterà “l’età medica” a Saint-Maurice. La pièce presenta nel secondo atto l’esecuzione del programma. L’avanzata della medicina avviene anzitutto sul piano delle idee. Per esempio, mediante la ridefinizione dei concetti di salute e malattia: “La salute non è che una parola e non ci sarebbe nessun inconveniente a cancellarla dal nostro vocabolario. Da parte mia, non conosco che persone più o meno colpite da malattie più o meno numerose, a evoluzione più o meno rapida. Naturalmente, se voi andate a dire loro che stanno bene, non domandano altro che di credervi. Ma voi li ingannate". Ma soprattutto l’età medica si afferma sul piano dei comportamenti. Con una strategia da marketing, il dott. Knock manda il banditore pubblico ad annunciare: “Il dott. Knock, successore del dott. Parpalaid, presenta le sue felicitazioni alla popolazione della città e del cantone di Saint-Maurice, e ha l’onore di farle sapere che, in uno spirito filantropico, e per arginare il progresso inquietante di malattie d’ogni genere che invadono da qualche anno le nostre regioni una volta così salubri, farà tutti i lunedì mattina, dalle nove e trenta alle undici e trenta, una visita interamente gratuita, riservata agli abitanti del cantone”.

Quale sia il risultato di quest’abile promozione di un nuovo stile di cura della salute, lo scoprirà tre mesi dopo il dott. Parpalaid, quando torna a Saint-Maurice per riscuotere la sua rata per la cessione della condotta al giovane collega. Siamo al terzo atto. La locanda si è trasformata in ospedale, e non si trova un posto. “Bisogna credere che ai miei tempi la gente stesse meglio”, fa notare velenosamente il vecchio dottore alla proprietaria della locanda. “Non dite questo, signor Parpalaid. La gente non aveva l’idea di curarsi: è tutta un’altra cosa”.

E il dott. Knock celebra il trionfo della medicina che ha avuto luogo a Saint-Maurice, difendendo il cambiamento di fronte agli scrupoli del dott. Parpalaid: “Voi mi date un cantone popolato di qualche migliaio di individui neutri, indeterminati. Il mio ruolo è quello di determinarli, di condurli all’esistenza medica. Io li metto a letto e guardo ciò che ne potrà venir fuori: un tubercoloso, un nevropatico, un arteriosclerotico, ciò che si vorrà, ma qualcuno, buon Dio!, qualcuno! Niente mi irrita come quell’essere né carne né pesce che voi chiamate essere sano”.

La popolazione di Saint-Maurice, iniziata all’“esistenza medica” dal dott.

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Knock, ha imparato ad attribuire la massima importanza alla questione del “come si sente”. Ne è pienamente soddisfatta: l’ingresso nell’era della medicina è vista come un salto di qualità. È superfluo sottolineare con quali riserve Jules Romains accolga, da parte sua, questo apparente “trionfo della medicina”.

Lasciamoci per un momento contagiare dallo spirito iconoclasta di Jules Romanis e immaginiamo che il “trionfo della medicina” non sia ancora completo. Manca un passaggio: quello dalla salute soggettiva alla salute oggettiva. Potremmo ipotizzare che, accanto alle otto città coinvolte nel Progetto Finalizzato Invecchiamento, anche Saint-Maurice sia inclusa nella ricerca.

Settant’anni dopo l’inaugurazione dell’era medica da parte del dott. Knock, a Saint-Maurice arrivano i ricercatori per reclutare il campione dei 704 anziani che farà parte della popolazione globale di 5632 individui, trai 65 e gli 84 anni, dei quali si vuol misurare la salute oggettiva. Non è difficile arruolare le centinaia di anziani necessari: a Saint-Maurice da tempo non si muore più a cinquant’ anni, di colpo apoplettico. Anche qui è avvenuta la “transizione epidemiologica”, che si registra nell’area dello sviluppo economico e industriale: da un regime di alta mortalità si è passati a uno di alta morbilità (questa transizione è così rilevante che all’inizio degli anni ’ 80 è stata creata una Health Transition Review per studiarla!). Anche nell’ipotetico Saint-Maurice, quindi, si muore di meno, ma la gente è sempre più malata. I ricercatori sanno ― lo hanno imparato dall’indagine multiscopo dell’ISTAT sulle famiglie: Condizione di salute e ricorso

ai servizi sanitari ― che alla domanda “Come va in generale la sua salute?” il 28,91% degi uomini di 75 anni e il 32,0% delle donne della stessa età dichiarano di star male o molto male (solo l’8,3% dichiara di stare bene). Ma i ricercatori sono venuti appunto per scoprire come stanno questi vecchi, non come si sentono! Per tutti i 704 anziani di Saint-Maurice sarà eseguita la procedura prevista dallo studio ILSA: intervista personale sui sintomi e sulla storia medica, visita domiciliare dell’infermiera, valutazione clinica accurata con una batteria di test per misurare tutto: dalla depressione geriatrica alle performance fisiche, esame dello specialista ― geriatra o neurologo ― per coloro che allo screening fossero risultati portatori di qualche patologia. Il tutto ― intervista personale, esame fisico, test diagnostico ― sarà ripetuto dopo tre anni dall’inizio dello studio.

Torna la domanda che ci ponevamo sopra: possiamo dire che, nell’ipotetico Saint-Maurice come nelle realissime 8 città coinvolte, nella ricerca, si è assistito a un “trionfo della medicina”? Anche senza far nostra la vis polemica di Jules Romains contro quella medicalizzazione che sfocia alla fine in una “espropriazione della salute” (Ivan Illich), non possiamo sottrarci a seri interrogativi sull’ambivalenza che accompagna ogni nuova fase di conoscenze circa la morbilità di una popolazione. Nessuno può mettere in dubbio che questo sapere epidemiologico sia oggettivo, più affidabile, più comunicabile di quanto abbiamo mai saputo in passato sullo stato di salute degli anziani. Possiamo anche respingere in modo risoluto insinuazioni senza fondamento che volessero vedere in queste più accurate indagini sulla morbilità una strategia promozionale “alla dott. Knock”: andare a cercare quale malattia soffre un anziano, anche se lo ignora, non significa voler fare di lui artificialmente un malato, per scopi mercantili. Queste ricerche sulla morbilità danno piuttosto una base conoscitiva scientifica a quanto finora faceva parte del patrimonio sapienziale, espresso nell’adagio latino: “Senectus ipsa morbus”. E tuttavia, dopo aver difeso la solidità di questo sapere epidemiologico e giustificato in modo non refutabile la validità di queste ricerche, rimane la necessità di collocarle in un preciso orizzonte finalistico: che cosa vogliamo fare con quanto sappiamo oggi sullo stato di salute della popolazione anziana?

Malessere e “mal d’essere”, benessere e “essere-bene”

Nell’abbozzare una risposta a questo interrogativo mi lascerò guidare dalle riflessioni che il filosofo americano Daniel Callahan ha dedicato al senso antropologico ed etico inerente alla medicina che si occupa della vecchiaia. Ha sviluppato il suo pensiero in tre libri successivi che hanno suscitato un acceso dibattito: Setting limits: medical goals in an aging society (1987), What kind of life: the limits of medical progress (1990), e The troubled dream of life: living with mortality (1993). Una sintesi molto efficace del suo pensiero è contenuta nel suo articolo pubblicato su L’Arco di Giano n. 4: “Porre dei limiti: problemi etici e antropologici”.

Il punto di partenza di Callahan è costituito dai cambiamenti che la medicina introduce nella società, nel nostro modo di considerare la vita, nella cultura di cui facciamo parte. Una di tali trasformazioni critiche è la conquista della vecchiaia da parte della medicina, a partire dalla acquisita capacita di prolungare la vita umana. Tentare di procurare cure sanitarie sempre più efficaci per gli anziani è diventata la più estesa delle frontiere della medicina. Resistere alla morte, estendere il più possibile la vita degli anziani, curare tutte le malattie indipendentemente dall’età di coloro che le contraggono è l’ideale di questa medicina. Un ideale anche di natura morale: si rifiuta come una discriminazione indegna della medicina l’idea che l’età del paziente possa essere una variabile da prendere in considerazione, qualora ci siano i mezzi tecnici di potergli portare dei benefici (gli standard di trattamento vogliono essere programmaticamente ciechi nei confronti dell’età). Callahan mette in discussione gli assunti fondamentali di tale concezione. La versione semplificata della sua tesi, messa in circolazione dai media, è stata identificata

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con la proposta di sottrarre le cure mediche alle persone anziane, dopo una certa età: intanto perché è dubbio che queste cure diano agli estremi anni strappati alla morte una qualità tollerabile; e poi perché, anche se lo volessimo, ben presto non ce lo potremmo più permettere, per l’aumento delle spese per la sanità e la modifica della curva demografica. Ma il progetto di Callahan ha maggior spessore di quello che la divulgazione semplificata del suo pensiero, che lo riduce a una questione di razionamento delle risorse, lascia indovinare. La crisi dell’allocazione delle risorse è solo il punto di partenza per interrogativi più fondamentali: se dobbiamo cominciare a fare delle scelte e stabilire delle priorità nella distribuzione delle risorse, diventa prioritario stabilire che cosa vogliamo che la medicina nel suo insieme faccia per noi. In altri termini, la crisi finanziaria della sanità ci offre una preziosa occasione, anche se dolorosa, di sollevare degli interrogativi di fondo sulla salute e sulla vita umana, sugli obiettivi della medicina e della sanità contemporanea. Le poste in gioco sono quindi sostanzialmente le questioni antropologiche.

In questo quadro vanno lette le considerazioni di Callahan sulla necessità di “porre dei limiti”. La sua proposta non si riduce a un razionamento delle scarse risorse sanitarie, ma fondamentalmente richiede di considerare la vita umana come limitata. Callahan parla di “natural life span”: la vita si sviluppa naturalmente entro un arco temporale, che comprende un inizio, una crescita, una decadenza e una fine, con la morte come suo correlato naturale. Siamo incapaci, e lo saremo inevitabilmente anche in futuro, di fare felici gli anziani spendendo sempre di più per le loro cure sanitarie. L’incapacità è connaturata a una cultura che non sa pensare la vita umana nell’orizzonte del limite. Anche se, per ipotesi le risorse ci permettessero sforzi sempre maggiori per curare le malattie ed estendere i limiti cronologici delle nostre vite ― aiutando sempre più persone a vivere sempre più a lungo ―, non andrebbe a nostro beneficio seguire questa strada.

Anche quanto Callahan ha scritto sull’allocazione delle risorse, più che come un intervento di economia e programmazione sanitaria, va inteso come una riflessione sui limiti del progresso medico. Il problema della sanità non è quello che appare in superficie, cioè una questione di maggiori finanziamenti, di efficienza e di giustizia nell’ accesso alle cure. È piuttosto una crisi circa il significato e la cura della salute, circa il posto che la ricerca della salute deve avere nella nostra vita; in definitiva, riguarda il “tipo di vita” (What kind of life) ― la “buona vita” ― da condurre. Per questo la soluzione della crisi non sarà offerta dal ricorso a terapie meno costose o a nuove e più efficienti strategie di servizio sanitario. Bisogna imparare a “vivere con la mortalità” (Living with mortality).

A questo punto, dopo questo ampliamento dell’orizzonte problematico con considerazioni di natura propriamente antropologica, possiamo ritornare alla nostra questione: che cosa dobbiamo fare perché questa nostra conoscenza dello stato di salute degli anziani non diventi un “trionfo della medicina” nel senso di una colonizzazione indebita della loro vita con interventi che non sono appropriati? La risposta mi sembra rimandare a una problematizzazione del senso e fine della medicina. Credo che non sia difficile raggiungere il consenso almeno su alcune indicazioni generali:

― l’anziano ha bisogno di una medicina che sia a servizio della sua salute, non di un’idea di salute che faccia astrazione dall’età. La medicina per l’anziano non può essere l’estensione alla vecchiaia del modello della “medicina riparatoria”, che pur è perfettamente adeguata per altre fasi della vita. Un vecchio può essere “sano” anche se ha l’artrite al ginocchio ed è duro d’orecchio (per non parlare dei valori del colesterolo nel sangue...!). Le procedure diagnostiche e terapeutiche non devono essere cieche rispetto al fattore età;

― dobbiamo essere sempre più consapevoli che i malesseri che affliggono la tarda età sono molte volte espressione del “mal-d’essere”. Mi riferisco con questa espressione a patologia che si può diagnosticare con strumenti diversi da quelli che ha a disposizione la medicina di laboratorio. L’aver escluso sistematicamente la dimensione “patica” che ha origine da una vita come intrinsecamente limitata ha prodotto una distorsione, che si esprime in un “mal-d’essere”. Le più sofisticate apparecchiature diagnostiche non sanno distinguere i malesseri somatici dal “mal-d’essere”; invece il medico come persona ― qualora decida di far ricorso alla propria umanità come fondamentale strumento diagnostico ― può operare tale discernimento;

― se ciò è vero, ne consegue che il benessere presuppone l’“essere-bene”. Non possiamo immaginare un vero benessere umano che sia privo di dimensioni essenzialmente etiche, capaci di dare una direzione al nostro modo di comprendere la salute e la malattia, la vita e la morte. Non sto proponendo una fuga nello spiritualismo; ma non nascondo la mia convinzione che una risposta ai problemi anche medici che pone la vecchiaia non possa prescindere dalle risorse interiori dell’ uomo, di cui da sempre si è fatta portavoce la philosophia perennis. Forse non è inopportuno ripercorrere, seguendo una traccia letteraria ― La coscienza di Zeno ― lo sviluppo di un personaggio di Italo Svevo, alla conquista di un diverso atteggiamento nei confronti della salute. La parte essenziale del cammino è tutta interiore: “La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi”, sentenzia Zeno Cosini. Dopo aver tentato tutte le analisi e tutte le risorse terapeutiche, il punto di pacificazione è solo quella crescita in saggezza che è la suprema terapia dei mali dell’uomo: “Io soffro bensì di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Dolore e amore, poi, la vita, insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole”.

BIBLIOGRAFIA

Callahan D., Porre dei limiti: problemi etici e antropologici, in L'Arco di Giano, 4, 1994, pp. 75-86.

Grmek M.D., Morbilità, in Enciclopedia Europea, Garzanti.

Imhof A.E.,-Larsen O., Sozialgeschichte der Medizin, Stuttgart-Oslo, 1976.

Jénicek M.,-Cléroux P.D., Epidemiologie. Principes, techniques, applicationes, St. Hyacinthe, Québec, 1982.

Romains J., Knock ou le triomphe de la médecine, Gallimard, Paris, 1989.

Svevo I., La coscienza di Zeno, Roma, Frassinella 1995.