Trapianti ed equità nel ridisegno dello stato sociale

Book Cover: Trapianti ed equità nel ridisegno dello stato sociale
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

TRAPIANTI ED EQUITÀ NEL RIDISEGNO DELLO STATO SOCIALE

in Medical Bioethics applied to Biotechnologies

Atti del Convegno dell'Accademia Nazionale di Medicina

Santa Margherita di Pula, 27-28 giugno 1997

pp. 1-11

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I trapianti d'organo sono una delle pratiche della nuova medicina che più ci danno la misura della rapidità del cambiamento. Nel giro di pochissimi anni ― stiamo appena festeggiando il decennale del primo trapianto di cuore effettuato in Italia ― un intervento di natura tanto audace da meritare di essere catalogato tra i "miracoli" laici della moderna tecnologia biomedica ha perso il carattere di sperimentazione ed è diventato routine. Dai fasti della cronaca i trapianti di organo sono passati rapidamente a costituire un capitolo della storia della medicina.

Abbiamo già una proposta di suddividere tale capitolo in ere. Il suggerimento autorevole viene da J. Hors, segretario nazionale di France Transplant (Hors, 1995). Egli osserva che, se consideriamo il rapporto che i trapianti di organo hanno con la società, si può rilevare uno svolgimento ciclico ricorrente, qualunque sia l'organo o il paese. In una prima fase ― che potremmo chiamare l'èra dei pionieri ― l'immagine dei trapianti che si riflette attraverso i media e i sondaggi d'opinione è esaltante; l'opinione pubblica risponde con la meraviglia per la padronanza della tecnica e ricolma di lodi i medici che si dedicano ai trapianti. Dal punto di vista organizzativo, la priorità assoluta va ad assicurare la diagnosi di morte cerebrale 24 ore su 24. In questo stadio le regole per la ripartizione degli organi sono rudimentali.

La fase successiva è l'èra dei coordinatori. Dopo che il trapianto di organi è diventato un intervento terapeutico di routine, la preoccupazione si sposta sull'organizzazione. Là dove questa ha successo, la pratica dei trapianti conosce uno sviluppo esponenziale. È quanto avviene negli anni '80, fino ai primi anni '90. Un ruolo centrale spetta al coordinatore: sia nell'informazione

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rivolta al grande pubblico e ai medici, sia nella verifica dei dispositivi di prelievo nei centri autorizzati, sia infine nella preparazione di nuovi centri. In questa fase dello sviluppo le legislazioni europee cominciano a dare risposte normative, pur divergendo nelle condizioni poste per autorizzare i prelievi e nel ruolo da attribuire alla famiglia e al consenso al trapianto.

La terza èra ― sempre seguendo la periodizzazione proposta da J. Hors ― è quella del cittadino. L'atteggiamento del grande pubblico ha cominciato a modificarsi. Oltre a un bisogno di sicurezza, che si traduce nella richiesta di conoscere i rischi di contrarre malattie infettive con il trapianto d'organo o di un tessuto, due altri bisogni si impongono in questa fase: quello della trasparenza e il bisogno di un'etica universale. La trasparenza è richiesta soprattutto nei criteri di allocazione degli organi. La disperazione dei malati posti in lunghe liste d'attesa ― anche più di 10 anni per avere il trapianto di un rene ― nutre il sospetto circa la scelta dei donatori. L'euforia filantropica propria dell'èra dei pionieri cede il posto ad atteggiamenti di esplicita xenofobia: non si vogliono privilegiare i non residenti o, per quanto riguarda l'Italia, i cittadini di quelle regioni che si dimostrano totalmente insensibili al reperimento degli organi.

Un altro punto caldo del dibattito è diventato quello dell'etica sottostante alla pratica dei trapianti. Mentre le associazioni dei donatori continuano a proporre l'ideale di un dono gratuito, anonimo e liberamente consentito, la società deve affrontare il pratico diffondersi di un mercantismo che si affianca al modello della gratuità: gli organi vengono venduti e comprati, in transazioni che superano i confini nazionali e coinvolgono donatori viventi spinti dalla miseria a vendere un organo per sopravvivere. Nello stesso tempo si fanno sentire voci di protesta di cittadini che giudicano la pratica dei trapianti inaccettabile da un punto di vista sia antropologico (dissenso sul

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criterio cerebrale nel riconoscimento della morte), sia etico. Si veda in Italia, in tal senso, la "Lega contro la predazione degli organi".

Nel nostro Paese l'èra del cittadino è particolarmente turbolenta. Ciò spiega in buona parte la difficoltà a raggiungere un consenso sulle modifiche da apportare alla legge del 1975, ritenuta unanimemente superata. L'opinione pubblica sembra aver abbandonato l'entusiasmo degli inizi ed esprimere sempre maggiori riserve. L'inversione di segno nell'opinione pubblica è stata influenzata soprattutto dalle notizie relative a comportamenti condannabili dal punto di vista morale: commercio di organi, prelievi non autorizzati, addirittura omicidi perpetrati per avere "pezzi d'uomo di ricambio".

Quante di queste notizie sono fondate e attendibili? Quanto va, invece, addebitato alla fiorente fabbrica delle "leggende metropolitane", quelle storie false ma verosimili che si diffondono a macchia d'olio tra la gente, senza possibilità di esercitare su di esse un controllo? Coloro che per mestiere devono fornire le informazioni, nei giornali o alla televisione, molto spesso non sono d'aiuto per rispondere a queste domande. I trapianti hanno cattiva stampa, nel duplice significato dell'espressione: se ne parla male, se ne parla in modo incompetente. Giornalisti e conduttori televisivi non si impegnano a riportare il discorso sulla terra ferma dei fatti e della ragione. Rimestano nelle emozioni, aggiungendo tocchi di colore. Si diffonde così presso il pubblico ― che in Italia non ha mai brillato per il grado d'informazione scientifica ― un'immagine grossolana delle pratiche dei trapianti. Il coma viene confuso con la morte cerebrale. Si accredita la fantasia di pratiche di prelievo di organi fatte artigianalmente nelle camere mortuarie, quando invece proprio la tecnologia richiesta impedisce la clandestinità.

Cresce così la diffidenza verso ogni forma di trapianto. I medici che li eseguono sentono aumentare il malessere attorno a sé, quasi fossero dediti a un'attività riprovevole. Non li circonda più l'aureola dei tempi dei pionieri. La

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disponibilità a donare organi decresce. Siamo già in Europa il Paese con minor numero di donazioni, seguiti solo dalla Grecia. Il futuro è ancor più nero, in quanto non si avverte una inversione di tendenza e i Paesi europei ai quali eravamo soliti rivolgerci per i trapianti hanno dichiarato che non sono più disponibili a fornirci organi, in assenza di un impegno da parte nostra a favore delle donazioni. Dovremmo, dunque, dichiarare conclusa l'epoca dei trapianti?

Non si tratta semplicemente di mettersi alla ricerca dei responsabili dell'impasse, puntando il dito sull'uno o sull'altro. Le cause del malessere che accompagna la medicina dei trapianti sono molteplici e differenziate, spesso non evidenti al primo sguardo. Possiamo rendercene conto analizzando il quadro legislativo che regola i trapianti di organo. Nella lunga e intricata "telenovela" della legge italiana sui trapianti di organo possiamo isolare un episodio, di per sé marginale, ma che offre l'opportunità di alcune riflessioni sui problemi di fondo che ostacolano il diffondersi dell' auspicata "cultura delle donazioni". Ancor più: la riflessione sul trapianto degli organi ― e sulla loro donazione, che ne è il presupposto ― ci permette di cogliere alcuni importanti elementi del funzionamento di ogni comunità umana.

L'episodio a cui ci riferiamo riguarda la legge n° 311 relativa ai trapianti di cornea. Si tratta di un testo breve ― riducibile a quattro articoli, di neppure quaranta righe in tutto ―, scorporato dalla legge generale sui trapianti. Il motivo addotto per lo scorporo è quello della relativa aproblematicità dei trapianti di cornea, trattandosi di un tessuto e non di un organo, tanto meno di un organo vitale.

La legge è stata approvata il 12 agosto 1993 (già la data merita un'attenta considerazione: il periodo intorno a ferragosto non è certo l'epoca dell'anno in cui gli spiriti sono più vigili, pronti a cogliere la portata di un intervento legislativo...). In accordo con l'intenzione della legge, che era quella di facilitare i trapianti di cornea, la facoltà di eseguire i trapianti veniva estesa

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anche a strutture private non autorizzate o convenzionate. La pericolosità di questa innovazione sarebbe risultata solo pochi mesi dopo, quando scoppiò lo scandalo per denunce di prelievi abusivi di cornee, provenienti dall'estero, a Roma e in altre città italiane. Si può facilmente immaginare quale forma di "deregulation" potesse nascere dalla rinuncia delle strutture pubbliche a controllare tutto il processo dell'espianto e trapianto.

Ma gli aspetti più innovativi della legge sono quelli che riguardano il consenso come condizione per il prelievo della cornea. Se il defunto ha manifestato in vita il rifiuto della donazione, la legge impedisce di procedere al prelievo. Se invece ha manifestato la volontà di donarla, è necessario l'assenso del coniuge, oppure dei figli maggiorenni o, in assenza di questi, dei genitori. La famiglia, insomma, deve autorizzare esplicitamente il prelievo presso il proprio congiunto che in vita ha espresso la volontà di donare il tessuto corneale. La norma si presenta come una innovazione sostanziale rispetto alla legge 844 del 1975, ancora in vigore per l'insieme delle pratiche dei trapianti di organi, finché non si arriverà a un nuovo dettato normativo. Questa, infatti, prevede l'opposizione dei parenti, fino al secondo grado, attribuendo loro la facoltà di annullare la volontà del defunto espressa in vita.

Il passaggio della facoltà di opporsi (opposizione da esprimere per iscritto, per di più!) alla richiesta rivolta esplicitamente alla famiglia affinché dia il suo assenso è un vero e proprio stravolgimento dell'impianto legislativo che regola i trapianti d'organo. Alla volontà del defunto, concepita come imperativo a cui orientarsi, viene sostituita la famiglia, cui si attribuisce implicitamente qualcosa che può assomigliare a un "diritto di proprietà" sul cadavere. Le perplessità non sono dirette in primo luogo verso le tentazioni mercantilistiche, che così possono attecchire più facilmente sulla pratica dei trapianti (la famiglia potrebbe essere più incline a vendere quella proprietà, piuttosto che a donarla). Più grave ancora è l'ostacolo che l'assenso dei parenti

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pone al diffondersi della cultura della disponibilità del cadavere, quale forma moderna di solidarietà.

Non sappiamo se siano state perplessità concettuali di questo genere o problemi di ordine pratico che hanno indotto il ministro della sanità, ad appena un anno dalla legge, ad annunciare un nuovo disegno di legge, approvato dal consiglio dei ministri nel settembre 1994. Nella nuova regolamentazione il prelievo e innesto delle cornee non saranno più sottoposti al consenso dei parenti. Verranno ritenuti vincolanti il consenso espresso o il diniego del donatore, indipendentemente dalla famiglia. Il nuovo sarà, dunque, un ritorno all'antico.

Leggere in questo processo altalenante solo l'inconsistenza e l’improvvisazione dei nostri legislatori è riduttivo. In filigrana possiamo intravvedere anche problemi di maggiore spessore, soprattutto di natura antropologica, posti da una pratica che rivendica per gli organi che passano da un soggetto umano all'altro il carattere di dono.

Nel dono si riflettono alcuni tratti di quella complessa rete di rapporti che costituisce la società. È quanto osservò l'antropologo culturale e sociologo Marcel Mauss in un celebre scritto apparso nel 1923: "Saggio sul dono: forma e motivi dello scambio nelle società arcaiche". Il contributo di Mauss ha una forma che sembrata quasi definitiva, tanto che pochi studiosi hanno ripreso l'argomento. C'è da segnalare, all'inizio degli anni 70, la riflessione di Titmus, riferita soprattutto al dono del sangue (Titmus, 1971). Più di recente ha rivisitato il tema del dono il sociologo francese Jacques Godbout, in un'opera imponente: Lo spirito del dono (Godbout, 1993).

A suo avviso, il dono è una categoria che ci permette di capire il funzionamento non solo delle società arcaiche, ma anche di quella contemporanea. Il punto di partenza di questa riflessione è fornito dalle conclusioni di Mauss, secondo il quale nelle società arcaiche il dono ha la

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funzione di "fatto sociale totale": esso mette in moto la totalità delle società e delle sue istituzioni. Il dono è espressione dello scambio sociale e costituisce la precondizione perché una società sia possibile.

La fenomenologia delle nostre società è ovviamente diversa. La solidarietà allargata si esprime in altre forme rispetto a quelle riscontrabili nei raggruppamenti sociali arcaici; le moderne democrazie, ad esempio, hanno risposto ai bisogni di salute, sicurezza e assistenza attraverso la creazione del welfare state. Tuttavia il dono ― inteso in senso ampio, non solo come regalo, ma includendo anche ogni bene e servizio ― continua a rimanere centrale anche nell'organizzazione della società.

La principale differenza tra il dono arcaico e quello che esprime il principio della ridistribuzione universalistica dei beni nelle nostre società è che il nostro è un dono senza destinatario. Lo stato sociale non distribuisce i beni nel modo in cui essi circolano nelle società primarie (di cui la famiglia è l'istituzione centrale). La solidarietà moderna accentua la separatezza, l'indipendenza degli attori sociali. Nella ridistribuzione dei beni promossa dallo Stato, gli individui sono sottratti dal sistema di interdipendenza che vige nelle reti che nascono dai legami primari: la solidarietà che lega i cittadini nello stato sociale è diversa da quella che vige all'interno di una tribù o di una famiglia;essa presuppone tra loro una "estraneità" analoga a quella che regola i rapporti tra sconosciuti.

Tenendo presente lo scenario dello stato sociale, che costituisce una novità nell'organizzazione della convivenza, possiamo affermare che la circolazione dei beni e servizi contribuisce al legame tra gli individui nella società in tre modi diversi e inconfondibili (cfr Di Nicola, 1994). C'è la modalità del sistema reciprocità-dono, che vediamo realizzato nelle società arcaiche e permane sempre attuale nella famiglia. Esso si fonda sul principio che il dono crea il debito in colui che lo riceve; beni e servizi nella loro

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circolazione legano le persone direttamente le une alle altre. All'estremo opposto troviamo il mercato, in cui i beni circolano indipendentemente dal legame tra le persone: la transazione si conclude con lo scambio tra merci e denaro, senza alcuno strascico di rapporti interpersonali. In posizione intermedia si situa la modalità di circolazione dei beni che ha lo Stato come promotore. In questa dimensione i soggetti, liberati dai legami interpersonali diretti, sono trattati secondo il principio dell'uguaglianza e ricevono in base ai loro bisogni, senza tuttavia che si crei il debito e l'obbligo della riconoscenza che si ha quando il dono ha un destinatario diretto.

Mercato, Stato e sfera della reciprocità sono retti da principi diversi, non riconducibili l'uno all'altro e non interscambiabili. Proprio la situazione del bene costituito dagli organi per i trapianti può illustrare le tre diverse modalità. In condizione di mercato, l'organo è considerato un bene oggetto di transazione economica: colui che offre a colui che acquista sono in contatto solo in vista del passaggio della merce dall'uno all'altro. Onorato il contratto, non c'è debito e non c'è riconoscenza. Nel caso invece di una donazione di organo all'interno della famiglia (rene da vivente, trapianto di midollo...), il legame rinforza quello esistente, col risultato di portare l'interdipendenza a punte parossistiche (complicate talvolta da ricatti morali, colpevolizzazioni del familiare renitente al dono, senso esasperato di debito in colui che accetta il sacrificio o il rischio di familiare donante...).

La donazione di organi come pratica inserita nella cura della salute offerta dallo Stato, pur nelle diverse organizzazioni del servizio sanitario, garantisce il criterio universalistico di accesso alle risorse, senza tuttavia creare dei legami. Il destinatario di un organo donato, infatti, abitualmente non sa da dove proviene il dono, né è tenuto a contraccambiare, come sempre avviene quando si crea un senso di debito. La stessa organizzazione di strutture che gestiscono il dono degli organi mira a evitare le personalizzazioni del dono

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stesso e a impedire che questa pratica graviti entro il sistema reciprocità-dono che è proprio dei legami interpersonali.

Malgrado la persistenza del dono nelle forme di convivenza sociale moderne e post-moderne in cui si concretizza il bisogno primario insuperabile di legami basati sulla interdipendenza, per noi oggi ha un valore centrale il meccanismo di solidarietà allargata istituzionalizzata gestita dallo Stato. Solo questa modalità di "dono" può garantire, nella moderna società complessa, i modelli minimi di uguaglianza e correggere le disparità più stridenti legate al censo e ai privilegi. È necessario continuare a coltivare forme di reciprocità, modernizzando le loro espressioni (il volontariato e le associazioni di mutuo aiuto sono, da questo punto di vista, eccellenti realizzazioni che attualizzano i sistemi di reciprocità-dono). Tuttavia la reciprocità non può sostituire quel sistema universalistico di distribuzione di beni e servizi che offre oggi lo Stato mediante la sua organizzazione pubblica del servizio sanitario.

Questa prospettiva ci offre una diversa chiave di lettura di quell'episodio legislativo da cui abbiamo preso le mosse per la nostra riflessione. L'oscillazione tra possibile opposizione della famiglia ed esplicito consenso di questa al prelievo delle cornee può essere vista anche come un'esitazione tra diverse modalità di circolazione dei beni e concezioni alternative del ruolo della famiglia. Concedere alla famiglia di mantenere il controllo sul cadavere del congiunto significa privilegiare un disegno dei rapporti sociali in cui la reciprocità e il dono vigenti nelle società arcaiche prevalgono sulle forme moderne di redistribuzione dei beni che fanno perno sullo Stato.

Ci si può chiedere se la resistenza massiccia al diffondersi di una cultura del dono di organi che registriamo in Italia non sia riconducibile a una fondamentale diffidenza nei confronti dello Stato, a beneficio di quelle modalità di circolazione dei beni che privilegiano la reciprocità, come appunto

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avviene nella famiglia. L'ostilità alla donazione potrebbe così essere interpretata come un segno ulteriore di quel ritardo nella maturazione di un senso civico dello Stato, che caratterizza la cultura italiana.

Un'ultima considerazione, infine, merita la proposta di sostenere il passaggio verso la concezione solidaristica che presuppone lo Stato sociale ricorrendo a forme di incentivazione. Una di queste può essere costituita dalla creazione di un particolare "circuito della solidarietà", nel quale condividere onori e vantaggi. Ciò presuppone, in pratica, la possibilità per coloro che sono disponibili per ricevere e donare gli organi di escludersi dal circuito. Questa possibilità negativa diventa sempre più urgente nella società multietnica e pluriculturale nella quale viviamo. Nello stesso tessuto sociale convivono degli "stranieri morali", vale a dire persone che non condividono le stesse convinzioni e non si orientano secondo gli stessi ideali di "buona vita". Per alcuni ricevere e dare organi è un tabù o una via impraticabile dal punto di vista morale. Una società pluralistica deve trovare il modo di rispettare queste scelte.

In senso positivo, la richiesta di essere inclusi nel circuito della solidarietà, per quanto riguarda la circolazione di quel bene raro che sono organi e tessuti del corpo umano, comporta la scelta di rendersi disponibili al prelievo, per poter beneficiare del dono. Lo strumento del circuito privilegiato per la donazione e il trapianto si situa a metà strada tra lo strumento pedagogico e la misura amministrativa per ottimizzare l'uso di risorse scarse. Tuttavia, se si vuol evitare di creare due classi di cittadini, è necessario che la scelta di appartenere a l'uno o all'altro circuito sia pienamente informata e consapevole. Non possiamo evitare, perciò, di passare attraverso un dibattito che coinvolga tutta la società e giunga capillarmente a ogni cittadino, permettendogli di decidere con piena consapevolezza a quale circuito iscriversi.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Di Nicola P., Equivalenza, uguaglianza, debito: tre forme di circolazione di beni e servizi nella società moderna", in L'Arco di Giano 1994, n. 6, pp. 179-184.

Godbout J.T., Lo spirito del dono, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1993.

Hors J., Les trois temps de la transplantation d'organes, in Journal International de bioéthique, 6, 1995, n. 2, pp. 103-105.

Mauss M., Essai sur le don, forme et raison de l'échange dans les societés archaïques, in Année sociologique, serie II, 1923-24; tr. it. Saggio sul dono. Forma e motivo delloscambio nelle società arcaiche, in Mauss M., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965.

Titmus R.M., The gift relationship. From human blood to social policy, Pantheon Books, New York 1971.