- Grazia e grinta
- Morte cerebrale, donazione e prelievo di organi
- La donazione d'organo: attualità e prospettive
- Per i trapianti di organo, un circuito di solidarietà
- Donazione di organi e tessuti
- Donazione di organi e tessuti: l'opinione dei medici di famiglia
- Trapianti ed equità nel ridisegno dello stato sociale
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Sandro Spinsanti
Per i trapianti di organo, un circuito della solidarietà
vol. 5, n. 2, dicembre 1994, pp. 73-76
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PER I TRAPIANTI DI ORGANO, UN CIRCUITO DELLA SOLIDARIETÀ
I trapianti di organo soffrono di mancanza di misura. Prima un entusiasmo acritico: non abbiamo dimenticato gli anni in cui Barnard, dopo aver eseguito il primo trapianto di cuore, è diventato dall’oggi al domani una celebrità, idolatrata come uno dei grandi pionieri del progresso medico. Oggi, al contrario, un’ondata di condanne senza appello. L’inversione di segno nell’opinione pubblica è stata influenzata soprattutto dalle notizie relative a comportamenti condannabili dal punto di vista morale: commercio di organi, prelievi non autorizzati, addirittura omicidi perpetrati per avere "‘pezzi d’uomo” di ricambio.
Quante di queste notizie sono fondate e attendibili? Quanto va, invece, addebitato alla fiorente fabbrica delle “leggende metropolitane”, quelle storie false ma verosimili che si diffondono a macchia d’olio tra la gente, senza possibilità di esercitare su di esse un controllo?
Coloro che per mestiere devono fornire le informazioni, nei giornali o alla televisione, molto spesso non sono d’aiuto per rispondere a queste domande. I trapianti hanno cattiva stampa, nel duplice significato dell’espressione: se ne parla male, e se ne parla in modo incompetente. Giornalisti e conduttori televisivi non si impegnano a riportare il discorso sulla terra ferma dei fatti e della ragione. Rimestando nelle emozioni, aggiungendo tocchi di colore. Si diffonde così presso il pubblico ― che in Italia non ha mai brillato per il grado di informazione scientifica ― un’immagine grossolana delle pratiche dei trapianti. Il coma viene confuso con la morte cerebrale. Si accredita la fantasia di pratiche di prelievo di organi fatte artigianalmente nelle camere mortuarie, quando invece proprio la tecnologia richiesta impedisce la clandestinità.
Cresce così la diffidenza verso ogni forma di trapianto. I medici che li eseguono sentono aumentare il malessere attorno a sé, quasi fossero dediti a un’attività riprovevole. La disponibilità a donare organi decresce. Siamo già in Europa il Paese con minor numero di donazioni, seguiti solo dalla Grecia. Il futuro è ancora più nero, in quanto non si avverte una inversione di tendenza e i Paesi europei ai quali eravamo soliti rivolgerci per i trapianti hanno dichiarato che non sono più disponibili a fornirci organi, in assenza di un impegno da parte nostra a favore delle donazioni. Dovremo, dunque, dichiarare conclusa l’epoca dei trapianti?
Non si tratta semplicemente di mettersi alla ricerca dei responsabili, puntando il dito sull’uno o sull’altro. Le cause del malessere che accompagna la medicina dei trapianti sono molteplici e differenziate, spesso non evidenti al primo sguardo. Possiamo rendercene conto analizzando il quadro legislativo che regola i trapianti di organo. Nella lunga e intricata “telenovela” della legge italiana sui trapianti di organo possiamo isolare un episodio, di per sé marginale, ma che offre l’opportunità di alcune riflessioni sui problemi di fondo che frenano il diffondersi della auspicata “cultura delle donazioni”. Ancor più: la riflessione sul trapianto degli organi ― e sulla loro donazione, che ne è il presupposto ― ci permette di cogliere alcuni importanti elementi del funzionamento di ogni comunità umana.
L’episodio a cui ci riferiamo riguarda la legge n° 301 relativa ai trapianti di cornea. Si tratta di un testo breve ― riducibile a quattro articoli, di neppure quaranta righe in tutto ―, scorporato dalla legge generale
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sui trapianti. Il motivo addotto per lo scorporo è quello della relativa aproblematicità dei trapianti di cornea, trattandosi di un tessuto e non di un organo, tanto meno di un organo vitale.
La legge è stata approvata il 12 agosto 1993 (già la data merita di essere un’attenta considerazione: il periodo intorno a ferragosto non è certo l’epoca dell’anno in cui gli spiriti sono più vigili, pronti a cogliere la portata di un intervento legislativo...). In accordo con l’intenzione della legge, che era quella di facilitare i trapianti di cornea, la facoltà di eseguire i trapianti veniva estesa anche a strutture private non autorizzate o convenzionate. La pericolosità di questa innovazione sarebbe risultata solo pochi mesi dopo, quando scoppiò lo scandalo per denunce di prelievi abusivi di cornee, provenienti dall’estero, in altre città italiane. Si può facilmente immaginare qualche forma di “deregulation” potesse nascere dalla rinuncia delle strutture pubbliche a controllare tutto il processo dell’espianto e trapianto.
Ma gli aspetti più innovativi della legge sono quelli che riguardano il consenso come condizione per il prelievo di cornea. Se il defunto ha manifestato in vita il rifiuto della donazione, la legge impedisce di procedere al prelievo. Se invece ha manifestato la volontà di donarla, è necessario l’assenso del coniuge, oppure dei figli maggiorenni o, in assenza di questi, dei genitori. La famiglia, insomma, deve autorizzare esplicitamente il prelievo presso il proprio congiunto che in vita ha espresso la volontà di donare il tessuto corneale. La norma si presenta come una innovazione sostanziale rispetto alla legge 844 del 1975, ancora in vigore per l’insieme delle pratiche dei trapianti di organi, finche non si arriverà a un nuovo dettato normativo. Questa, infatti, prevede l’opposizione dei parenti, fino al secondo grado, attribuendo loro la facoltà di annullare la volontà del defunto espressa in vita.
Il passaggio dalla facoltà di opporsi (opposizione da esprimere per iscritto, per di più!) alla richiesta rivolta esplicitamente alla famiglia affinché dia il suo assenso è un vero e proprio stravolgimento dell’impianto legislativo che regola i trapianti di organo. Alla volontà del defunto, concepita come imperativo a cui orientarsi, viene sostituita la famiglia, cui si attribuisce implicitamente qualcosa che può assomigliare a un “diritto di proprietà” sul cadavere. Le perplessità non sono dirette in primo luogo verso le tentazioni mercantilistiche, che così possono attecchire più facilmente sulla pratica dei trapianti (la famiglia potrebbe essere più incline a vendere quella proprietà, piuttosto che a donarla). Più grave ancora è l’ostacolo che l’assenso dei parenti pone al diffondersi della cultura della disponibilità del cadavere, quale forma moderna di solidarietà.
Non sappiamo se siano state perplessità concettuali di questo genere o problemi di ordine pratico che hanno indotto l’attuale ministro della sanità, ad appena un anno dalla legge, ad annunciare un nuovo disegno di legge, approvato dal consiglio del ministri nel settembre 1994. Nella nuova regolamentazione il prelievo e innesto delle cornee non saranno più sottoposti al consenso dei parenti. Verranno ritenuti vincolanti il consenso espresso o il diniego del donatore, indipendentemente dalla famiglia. Il nuovo sarà, dunque, un ritorno all’antico.
Leggere in questo processo altalenante solo l’inconsistenza e l’improvvisazione dei nostri legislatori è riduttivo. In filigrana possiamo intravvedere anche problemi di maggior spessore, soprattutto di natura antropologica.
Nel dono si riflettono alcuni tratti di quella complessa rete di rapporti che costituisce la società. È quanto osservò l’antropologo culturale e sociologo Marcel Mauss in un celebre scritto apparso nel 1923: “Saggio sul dono: forma e motivi dello scambio nelle società arcaiche”. Il contributo di Mauss ha una forma che è sembrata quasi definitiva, tanto che pochi studiosi hanno ripreso l’argomento. Più di recente ha rivisitato il tema del dono il sociologo francese Jacques Godbout, in un’opera imponente: Lo spirito del dono (tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1993).
A suo avviso, il dono è una categoria che ci permette di capire il funzionamento non solo delle società arcaiche, ma anche di quella contemporanea. Il punto di partenza di questa riflessione è fornito dalle conclusioni di Mauss, secondo il quale nelle società arcaiche il dono ha la funzione di “fatto sociale totale”: esso mette in moto la totalità della società e delle sue istituzioni. Il dono è espressione dello scambio sociale e costituisce la precondizione perché una società sia possibile.
La fenomenologia delle nostre società è ovviamente diversa. La solidarietà allargata si esprime in altre forme rispetto a quelle riscontrabili nei raggruppamenti sociali arcaici; le moderne democrazie, ad esempio, hanno risposto ai bisogni di salute, sicurezza e assistenza attraverso la creazione del welfare state. Tuttavia il dono ― inteso in senso ampio, non solo come regalo, ma includendo anche ogni bene e servizio ― continua a rimanere centrale anche nell’organizzazione della società.
La principale differenza tra il dono arcaico e quello che esprime il principio della ridistribuzione universalistica dei beni nelle nostre società è che il nostro è un dono senza destinatario. Lo stato sociale non distribuisce i beni nel modo in cui essi circolano nelle società primarie (di cui la famiglia è l’istituzione centrale). La solidarietà moderna accentua la separatezza, l’indipendenza degli attori sociali. Nella ridistribuzione dei beni promossa dallo Stato, gli individui sono sottratti dal sistema di interdipendenza che vige nelle reti che nascono dai legami primari: la solidarietà che lega i cittadini nello Stato sociale è diversa da quella che vige all’interno di una tribù o di
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una famiglia; essa presuppone tra loro una “estraneità” analoga a quella che regola i rapporti tra sconosciuti.
Tenendo presente lo scenario dello Stato sociale, che costituisce una novità nell'organizzazione della convivenza, possiamo affermare che la circolazione di beni e servizi contribuisce al legame in tre modi diversi e inconfondibili. C’è la modalità del sistema reciprocità-dono, che vediamo realizzato nelle società arcaiche e permane sempre attuale nella famiglia. Esso si fonda sul principio che il dono crea il debito in colui che lo riceve; beni e servizi nella loro circolazione legano le persone direttamente le une alle altre. All'estremo opposto troviamo il mercato, in cui i beni circolano indipendentemente dal legame tra le persone: la transazione si conclude con lo scambio tra merci e denaro, senza alcuno strascico di rapporti interpersonali. In posizione intermedia si situa la modalità di circolazione dei beni che ha lo Stato come promotore. In questa dimensione i soggetti, liberati dai legami interpersonali diretti, sono trattati secondo il principio dell’uguaglianza e ricevono in base ai loro bisogni, senza tuttavia che si crei il debito e l’obbligo della riconoscenza che si ha quando il dono ha un destinatario diretto.
Mercato, stato e sfera della reciprocità sono retti da principi diversi, non riconducibili l’uno all’altro e non interscambiabili. Proprio la situazione del bene costituito dagli organi per i trapianti può illustrare le tre diverse modalità. In condizione di mercato, l’organo è considerato un bene oggetto di transazione economica: colui che offre e colui che acquista sono in contatto solo in vista del passaggio della merce dall’uno all’altro. Onorato il contratto, non c’è debito e non c’è riconoscenza. Nel caso invece di una donazione di organo all’interno della famiglia (rene da vivente, trapianto di midollo...), il legame rinforza quello esistente, col risultato di portare l’interdipendenza a punte parossistiche (complicate talvolta da ricatti morali, colpevolizzazioni del familiare renitente al dono, senso esasperato di debito in colui che accetta il sacrificio o il rischio del familiare donante...).
La donazione di organi come pratica inserita nella cura della salute offerta dallo Stato, pur nelle diverse organizzazioni del servizio sanitario, garantisce il criterio universalistico di accesso alle risorse, senza tuttavia creare dei legami. Il destinatario di un organo donato, infatti, abitualmente non sa da dove proviene il dono, né è tenuto a contraccambiare, come sempre avviene quando si crea un senso di debito. La stessa organizzazione di strutture che gestiscono il dono degli organi mira a evitare le personalizzazioni del dono stesso e a impedire che questa pratica graviti entro il sistema reciprocità-dono che è proprio dei legami interpersonali.
Malgrado la persistenza del dono nelle forme di convivenza sociale moderne e post-moderne in cui si concretizza il bisogno primario insuperabile di legami basati sulla interdipendenza, per noi oggi ha un valore centrale il meccanismo di solidarietà allargata e istituzionalizzata gestito dallo Stato. Solo questa modalità di “dono” può garantire, nella moderna società complessa, i livelli minimi di uguaglianza e correggere le disparità più stridenti legate al censo e ai privilegi. È necessario continuare a coltivare forme di reciprocità, modernizzando le loro espressioni (il volontariato e le associazioni di mutuo aiuto sono, da questo punto di vista, eccellenti realizzazioni che attualizzano i sistemi di reciprocità-dono). Tuttavia la reciprocità non può sostituire quel sistema universalistico di distribuzione di beni e servizi che offre oggi lo Stato mediante la sua organizzazione pubblica del servizio sanitario.
Questa prospettiva ci offre una diversa chiave di lettura di quell’episodio legislativo da cui abbiamo preso le mosse per la nostra riflessione. L’oscillazione tra possibile opposizione della famiglia ed esplicito consenso di questa al prelievo delle cornee può essere vista anche come una esitazione tra diverse modalità di circolazione dei beni e concezioni alternative del ruolo della famiglia. Concedere alla famiglia di mantenere il controllo sul cadavere del congiunto significa privilegiare un disegno dei rapporti sociali in cui la reciprocità e il dono vigenti nelle società arcaiche prevalgono sulle forme moderne di redistribuzione dei beni che fanno perno nello Stato. Ci si può chiedere se la resistenza massiccia al diffondersi di una cultura del dono di organi che registriamo in Italia non sia riconducibile a una fondamentale diffidenza nei confronti dello Stato, a beneficio di quelle modalità di circolazione dei beni che privilegiano la reciprocità, come appunto avviene nella famiglia. L’ostilità alla donazione potrebbe così essere interpretata come un segno ulteriore di quel ritardo nella maturazione di un senso civico dello Stato, che caratterizza la cultura italiana.
Un’ultima considerazione, infine, merita la proposta di sostenere il passaggio verso la concezione solidaristica che presuppone lo Stato sociale ricorrendo a forme di incentivazione.
Una di queste può essere costituita dalla creazione di un particolare “circuito della solidarietà”, nel quale condividere oneri e vantaggi. Ciò presuppone, in pratica, la possibilità di escludersi dal circuito di coloro che sono disponibili per ricevere e donare gli organi. Questa possibilità negativa diventa sempre più urgente nella società multietnica e pluriculturale nella quale viviamo. Nello stesso tessuto sociale convivono degli “stranieri morali”, vale a dire persone che non condividono le stesse convinzioni e non si orientano secondo gli stessi ideali di “buona vita”. Per alcuni ricevere o dare organi è un tabù o una via impraticabile dal punto di vista morale. Una società pluralistica deve trovare il modo di rispettare queste scelte.
In senso positivo, la richiesta di essere inclusi nel circuito della solidarietà,
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per quanto riguarda la circolazione di quel bene raro che sono organi c tessuti del corpo umano, comporta la scelta di rendersi disponibili al prelievo, per poter beneficiare del dono. Lo strumento del circuito privilegiato per la donazione e il trapianto si situa a metà strada tra lo strumento pedagogico e la misura amministrativa per ottimizzare l’uso di risorse scarse. Se si vuol evitare di creare due classi di cittadini, è necessario però che la scelta di appartenere all’uno o all’altro circuito sia pienamente informata e consapevole. Non possiamo evitare, perciò, di passare attraverso un dibattito che coinvolga tutta la società, e giunga capillarmente a ogni cittadino, permettendogli di decidere con piena consapevolezza a quale circuito iscriversi.