Questioni etiche in oncologia

Book Cover: Questioni etiche in oncologia
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

INTERVENTO

in Questioni etiche in oncologia

Atti Review Meeting

pp. 84-87

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Per introdurre gli aspetti più propriamente etici della ricerca in oncologia, vorrei riferire in che modo mi capita di incontrare questi problemi: non soltanto in quanto studioso e cultore di bioetica nella letteratura attinente, ma come mi capita di incontrarli in concreto. Lavorando in ospedale, con la responsabilità di dirigere un Dipartimento di scienze umane, ho delle sollecitazioni da parte di medici che mi dicono: «Qui abbiamo una difficoltà. Stiamo facendo uno studio multicentrico, nel quale una clausola precisa prevede che per fare ricerca con i soggetti umani ci vuole il consenso informato. Senza questo, non accettano la nostra partecipazione. Quindi facciamo un comitato di etica anche nel nostro ospedale».

Più di una volta mi è capitato di incontrare la richiesta di etica in questa formula molto precisa. Non voglio squalificare la richiesta, ma intendo dire con tutta chiarezza che la richiesta di un comitato di etica che proceda in questo modo, procedendo da simili situazioni, ha un carattere apertamente strumentale. In fondo, il comitato di etica è quell’organismo che deve mettere il timbro necessario perché la ricerca sia approvata. Non ho niente in contrario, in linea di principio, contro questa utilizzazione. Devo però anche esprimere il sospetto che un’etica non sia una modificazione sostanziale dei comportamenti, un’etica in particolare non porti a rivedere i presupposti culturali che soggiacciono alla ricerca, può facilmente ridursi a una griglia di regole deontologiche che galleggiano su un vuoto. Temo fortemente che tale etica possa avere una funzione di alibi. Questo uso perverso dell’etica (cioè: sono eticamente ineccepibile perché osservo una procedura, che a livello internazionale è stata qualificata come etica) mi fa venire inevitabilmente in mente la frase ironica di Mark Twain quando parla di «un uomo buono nel senso peggiore della parola». Potremmo avere anche un ricercatore etico «nel senso peggiore della parola...».

Ci troviamo così a interrogarci, in tutta serietà, su che cosa vuol dire seguire una procedura etica nella ricerca, o invocare l’etica in questo ambito.

Per anticipare già la conclusione a cui intendo arrivare, dirò che sono perfettamente in consonanza con quanto emerso dai ricercatori che hanno parlato prima: è necessario giungere a un confronto sulla cultura; non basta stabilire delle regole: bisogna esplicitare i valori che le sorreggono. Su questo confronto che esprime l’etica nel suo profilo più alto, si è espressa in questa giornata una sostanziale convergenza nella riflessione umanistica e bioetica. Come punto di partenza dobbiamo assumere la consapevolezza che un grande cambiamento è in corso negli standard della ricerca biomedica ritenuti eticamente accettabili. Il punto dove possiamo individuare con maggior chiarezza l’innovazione in corso è quello del consenso.

Nella nostra tradizione culturale il consenso era considerato importante nel settore della ricerca, al fine di prevenire abusi, mentre nella terapia tendeva ad essere ritenuto poco più di un optional: auspicabile, ma non strettamente necessario. Le regole dell’etica medica si sono per lo più attestate su un doppio standard: uno relativo all’intervento curativo (o all’eventuale sperimentazione terapeutica) e uno riferito alla ricerca non terapeutica, o ricerca "pura".

Nel primo caso non ci si è ispirati ai valori impliciti nella tradizione ippocratica, che è sostanzialmente autoritaria e beneficialista (nel senso che si regola secondo il "principio di beneficità"). Essa riserva al medico la tutela del migliore interesse del paziente e lo autorizza

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ad agire For the patient’s good (è il titolo di un libro in cui Pellegrino e Thomasma analizzano la tradizione del paternalismo medico, cercando di salvare il contenuto autentico di questa modalità di rapporto medico-paziente dal discredito in cui sono cadute tutte le forme di paternalismo). Questo rapporto di potere è per lo più implicitamente acconsentito dal paziente, nel quadro di quella relazione fiduciale che possiamo chiamare "alleanza terapeutica": il malato delega il medico a intraprendere qualsiasi cosa egli ritenga possa risolversi in un vantaggio per la propria salute (nei casi estremi, anche tentare il tutto per tutto, sperimentando per il malato, la cui vita sia minacciata, un trattamento che abbia carattere sperimentale).

Un altro standard, invece, si è venuto evidenziando quando l’intervento medico ha valore di sperimentazione non terapeutica (non intesa, cioè, a portare beneficio al singolo individuo che è oggetto della sperimentazione). In questi casi si è sempre più evidenziata la priorità della tutela del paziente, il rispetto della sua autonomia, la richiesta di un consenso informato. Il paziente deve essere messo in grado, tramite un’informazione appropriata, di decidere se partecipare o no alla ricerca.

Queste restrizioni hanno reso evidente che la ricerca non è contenuta "implicitamente" nella richiesta con cui il malato si rivolge al medico e ripone in lui la sua fiducia. Egli vede nel medico un soccorritore, non un ricercatore (nel secolo passato, secondo la ricostruzione storica della Nascita della clinica moderna fatta da Michel Foucault, la ricerca era invece tacitamente implicita nella istituzione stessa dell’ospedale: in essa le classi meno abbienti potevano beneficiare dei progressi della medicina, ma vi contribuivano anche offrendosi come oggetti di ricerca nelle istituzioni cliniche).

Le esigenze deontologiche relative al consenso informato indicano una riformulazione del patto terapeutico, grazie alla quale il "consenso sociale" sulla legittimità e sull’attività della ricerca trapassi in un "consenso individuale". Le motivazioni con cui i medici tendono a sottrarre ai pazienti le informazioni relative ai trattamenti terapeutici («I pazienti ― i miei pazienti, i pazienti italiani... ― non vogliono sapere; «L’informazione sconvolgerebbe troppo il paziente con diagnosi di cancro») nel caso della ricerca non terapeutica non possono essere fatti valere. Il consenso unanime che s’è stabilito in questo ambito della ricerca, e che ora sta mettendo in discussione molte pratiche consolidate di casa nostra, è che il ricercatore non possa procede correttamente senza informare il paziente del trattamento sperimentale e avere ottenuto il suo consenso. («La società non può permettere ― stabilì una commissione americana, dopo aver analizzato la criticatissima ricerca sulla sifilide fatta sugli inconsapevoli negri di Tuskegee, negli Stati Uniti ― che l’equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla comunità scientifica»).

Il criterio del doppio standard per la richiesta del consenso riposava su una diversa accentuazione di valori nell’insieme delle pratiche bio-mediche: il valore della "beneficità" (opheleîn è mè blàptein, secondo la dizione originaria del celeberrimo precetto ippocratico ― "favorire, o almeno non pregiudicare" ―, diventato in seguito: primum non nocere) nel caso dell’intervento terapeutico; il valore dell’autonomia, invece, che implica la libera partecipazione del soggetto, quando si tratta di ricerca. Il doppio standard ha indubbiamente svolto un ruolo positivo nella regolazione di conflitti di natura etica; tuttavia bisogna riconoscere che attualmente non corrisponde più alla complessità della situazione e ha bisogno di una profonda revisione.

Anche nell’ambito terapeutico sta crescendo, infatti, il bisogno di sottoporre le procedure sanitarie al criterio del’autonomia. Il medico deve avere di mira non solo il bene del paziente

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(o quello che egli ritiene tale), ma anche l’autodeterminazione del paziente stesso. Ciò implica la richiesta del consenso informato del paziente anche per le procedure terapeutiche. Quando non sia possibile, per incapacità del paziente, ottenere l’espressione della sua volontà, si possono avere conflitti drammatici di interpretazione e di responsabilità (il recente caso di Nancy Cruzan, la ragazza in coma vegetativo permanente, i cui genitori hanno ottenuto, con una lunga battaglia legale, la cessazione della nutrizione artificiale, può essere ritenuto come emblematico di questo genere di situazioni).

L’informazione del paziente, anche nell’ambito di interventi terapeutici, non può più essere considerata un gesto magnanimo o benevolo del medico: è un preciso diritto della persona malata. Questo cambiamento di prospettiva ci risulta più chiaro se consideriamo che, in tedesco, l’informazione al paziente si chiama Aufklärung, e che questo è storicamente il termine che designa l’illuminismo (Kant ha definito, in uno scritto celebre, l’illuminismo come "l’uscita degli uomini dallo stato di minorità a loro stessi dovuto"; per minorità egli intendeva l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro). La medicina è l’ultimo ambito della nostra cultura in cui è caduta la struttura autoritaria, secondo l’audace invito di Kant all’individuo dei tempi moderni "Sapere aude! abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto". Possiamo forse dire, pagando un certo tributo alla retorica, che ogni volta che un medico dà un’informazione al paziente, come atto a lui dovuto, l’illuminismo fa un piccolo passo avanti!

Il paradigma autonomista non cancella, tuttavia, il paradigma paternalista che si ispira al principio di beneficità e si iscrive entro l’alleanza terapeutica. L’autonomia dell’individuo, infatti, non è un dato semplicemente esistente, che bisogna tutelare: è piuttosto un valore che è necessario promuovere. L’impegno benefico del medico è finalizzato a promuovere il bene del paziente, nel cui ambito va inclusa anche la capacità di prendere decisioni autonome sulla propria salute. Perché sia benefica l’amministrazione delle informazioni richiede gradualità e senso pedagogico.

È giusto accogliere le riserve di coloro che vedono con apprensione diffondersi una cultura del "consenso informato" che sembra aver perso ogni legame organico con i valori contenuti nella tradizione beneficiale-paternalista, che domandava al medico un totale impegno per la ricerca del miglior interesse per il paziente. Se questo cambiamento del rapporto medico-paziente avviene sotto la spinta di conseguenze giudiziarie e porta a ripudiare quanto di valido pur esisteva nella tradizione paternalista, è lecito temere che il consenso informato possa diventare un espediente per trasferire sul paziente una responsabilità che deve essere del medico.

Se poi il consenso informato diventa semplicemente un foglio da far firmare, in funzione di assicurazione legale per il medico, non si può escludere che in tal modo si possa fare una raffinata violenza al paziente, forse peggiore della violenza che consiste nel non informarlo affatto. Il consenso informato potrebbe risolversi in una beffa: mentre apparentemente sembra destinato a tutelare il paziente, rischia di diventare una formula mistica con cui il medico si mette al riparo da eventuali richieste di risarcimento di danno in sede giudiziaria. Non possiamo purtroppo escludere un uso perverso dell’etica.

Nell’altro versante, anche gli aspetti etici della ricerca si stanno modificando. Dopo aver tutelato, in tutti i modi possibili, il diritto della persona umana a decidere qualsiasi tipo di interventi fatti su di lui, ci rendiamo conto che una prospettiva di utilitarismo individualista non è in grado di fornire una giustificazione sufficiente per la ricerca. Il paradigma

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dell’autonomia può essere sufficientemente illustrato dalle parole con cui il giudice americano Benjamin Cardozo stabilì, in un processo celebratosi nel 1914, una delle prime formulazioni del principio del consenso informato: «Ogni essere umano adulto e capace di intendere e di volere ha il diritto di decidere che cosa si può fare al suo corpo».

Pur difendendo l’inviolabilità di tale diritto, dobbiamo trovare per la ricerca una base più ampia, che includa il ricorso al principio della giustizia (distribuzione equa dei pesi e dei rischi) e al principio della beneficità, inteso in senso non individuale. È ovvio, infatti, che se abbiamo oggi una buona medicina, lo dobbiamo in parte alla ricerca che è stata fatta sulle generazioni precedenti; allo stesso modo, una migliore medicina per le generazioni future deve essere pagata con la ricerca fatta sui soggetti sperimentali di oggi.

Il medico-ricercatore sente spesso l’ambivalenza strutturale della sua posizione: le cure prodigate ai pazienti, nella preoccupazione esclusiva del loro maggior vantaggio, e le responsabilità della ricerca non si accordano sempre perfettamente; talvolta possono opporsi apertamente. Non è sempre agevole coniugare una duplice fedeltà: al singolo paziente che gli si affida e ai futuri, possibili pazienti, che trarrebbero beneficio dalla ricerca.

La medicina ha il compito di mediare, grazie al credito di istituzione finalizzata a obiettivi di beneficità, tra il bene individuale e quello sociale. Per questo il consenso informato, anche nel caso della ricerca non terapeutica, non può avere una trascrizione solo giuridica, ma è necessario che conservi quelle valenze etiche che sono correlate con la ricerca del miglior bene per l’umanità.

Una ricerca eticamente giustificabile non potrà limitarsi alla correttezza del rispetto delle regole deontologiche. Essa dovrà fondarsi su atteggiamenti di fondo virtuosi. Ciò comporta per il medico-ricercatore la fedeltà al singolo paziente, che si traduce nell’impegno a evitargli ogni danno ― primum non nocere! ― e a ridurgli il rischio; ma anche nella fedeltà all’umanità futura, per il cui beneficio si fa oggi ricerca. Ma anche per cittadino, malato o no, che collabora con la ricerca prendendo su di sé un rischio calcolato, è necessario un atteggiamento virtuoso di orientamento alla solidarietà verso i potenziali malati futuri destinati a trarre benefici terapeutici dalla ricerca.

La ricerca non potrà mai avere un ampio respiro, se avrà come interlocutori cittadini intenti solo a difendere la propria autonomia, in uno stato di perenne diffidenza nei confronti dei medici-ricercatori. La disponibilità dei cittadini a offrire una quota personale di rischio e la volontà di tutti di contribuire al progresso di una scienza per l’uomo sono prerequisiti indispensabili per la ricerca.

La formazione, in tal modo, dei cittadini ai valori altruistici è uno dei benefici non marginali della ricerca.