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Sandro Spinsanti
L'OSPEDALE DEL FUTURO SARA' UN LUOGO ETICO?
in Salute e società, anno VI, 3/2007
pp. 17-30
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"Abbiamo un sogno: trasformare gli ospedali italiani in ospedali". Lo slogan a effetto, apparso tempo fa come inserzione pubblicitaria su diversi giornali a cura del Tribunale dei diritti del malato, mirava a ottenere un consenso e un sostegno economico da parte dei cittadini per il programma politico della nota associazione. La giustificazione razionale della necessità di modificare la realtà degli ospedali italiani veniva data con poche pennellate a tinte fosche ("Gli ospedali non saranno mai un luogo di villeggiatura, ma non possono neanche continuare ad essere, come spesso accade in Italia, un luogo da incubo"). L'abilità del messaggio consisteva nell'abbinare all'evocazione di scenari disumani l'utopia alata del periodo d'oro del movimento per i diritti civili (niente meno che il "sogno" con cui Martin Luther King ha rivendicato la parità dei diritti per i neri, considerati cittadini di seconda classe!). Lo slogan giocava anche sull'implicita assunzione che esista un consenso generalizzato su ciò che è necessario fare per. portare gli ospedali a essere quello che dovrebbero essere, e che non sono: come se il problema non fosse quello di stabilire che cosa costituisce un buon ospedale, ma solo di decidersi ma realizzarlo. La realtà, invece, non è così lineare come lo slogan pretende.
La sicurezza di conoscere la natura dell'ospedale è illusoria. È vero che l'ospedale è agevole identificarlo. La denotazione è facile: chiunque può indicarlo con un dito, anche perché nella città moderna tende ad assumere l'evidenza architettonica che in quella medievale spettava alle cattedrali. In senso denotativo, l'ospedale di una città è quello di cui possiamo domandare l'indirizzo, identificarlo sulla piantina, chiedere al tassista di portarci. La connotazione, invece, è molto complessa. Nella linguistica la connotazione di una parola riguarda i significati, compresi quelli simbolici, e le emozioni connesse con l'uso della parola. Numerosi significati sono depositati sull' ospedale come istituzione, sedimentandosi gli uni sugli altri. I più recenti non hanno sostituito quelli precedenti. In una stessa realtà convivono l'ospedale del passato e del presente, nonché quello che ― osiamo sperarlo ― sarà l'ospedale del futuro.
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1. Un luogo ospitale per le persone fragili
Nel corso della sua storia plurisecolare l'ospedale ha cambiato volto più e più volte. Uno dei cambiamenti più radicali implicava anche una modifica del nome. È quanto aveva progettato la rivoluzione francese, che voleva accentuare il passaggio all'epoca moderna in tutte le strutture della società. L'ospedale premoderno era un luogo indifferenziato in cui il bambino si poteva trovare accanto al vecchio, lo storpio accanto al demente, la puerpera accanto al morente. Era destinato infatti a raccogliere la "fragilità" in tutte le sue forme.
Non solo la realtà dell'ospedale non rispondeva alle più elementari condizioni igieniche, ma spesso era in contrasto con il rispetto dovuto alle persone. Un rapporto redatto a Parigi dall'accademia delle scienze nel 1787 descrive la situazione insostenibile in cui versavano gli ospedali di Parigi. Le condizioni peggiori erano quelle dell'Hôtel-Dieu, il celebre ospedale situato accanto alla cattedrale di Notre-Dame, nel quale ben un paziente su quattro decedeva in ospedale. Affermava la relazione: "Non esistono ospedali altrettanto mal situati, altrettanto chiusi, altrettanto irragionevolmente sovraffollati, altrettanto pericolosi, che riuniscono altrettante cause di insalubrità e di morte dell'Hôtel-Dieu: non esiste, no, non esiste nell'universo un rifugio per malati che, altrettanto importante per il suo fine, sia tuttavia con i suoi risultati altrettanto funesto per la società".
La critica della modernità all'ospedale dell'ancien régime fu così radicali; che il Direttorio cambiò persino il nome: invece di "hôpital", propose di chiamarlo "hospice". Nel corso del XIX secolo è avvenuta, in realtà, un'evoluzione che ha portato a differenziare due tipi di istituzioni: l'hospice è diventato il luogo deputato a raccogliere i derelitti ― vecchi, trovatelli, malati inguaribili e affetti da malattie contagiose ― mentre l'hôpital ha assunto la funzione di luogo dove si dispensano le cure finalizzate alla guarigione. La stessa evoluzione semantica è avvenuta anche in Italia.
Sia l'ospedale che l'ospizio contengono tuttavia, nella loro etimologia, l'"ospitalità", ovvero la caratteristica di luogo accogliente offerto a chi è sofferente, o a chi è andato a finire sotto le ruote del carro della vita. In tutte le trasformazioni l'ospedale non si è mai staccato dall'ideale di hospitium, pensato per la protezione dei più vulnerabili, istituzione dove si esercita la pietas verso le persone diseredate. Anche gli aspetti dell' ospedale più disturbanti per l'immaginazione, come le sue caratteristiche di luogo chiuso e quasi concentrazionario, possono in realtà svolgere una funzione benefica di protezione. Ne ha data una rappresentazione molto positiva lo scrittore americano William Styron nel libro autobiografico in cui descrive la grave crisi depressi va, con serie minacce di suicidio, che lo ha colpito a un certo punto della sua esistenza: «In realtà l'ospedale fu la mia salvezza e, per paradossale che sia, proprio in questo luogo austero,
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dalle porte esterne ermeticamente serrate e dai lunghi, desolati corridoi verdi, con le sirene delle ambulanze che echeggiavano giorno e notte dieci piani sotto di me, trovai finalmente quella pace, quel sollievo alla tempesta del mio cervello che non ero riuscito a trovare nella quiete della mia casa di campagna. In parte si deve proprio al fatto di essere segregati, al sicuro, trasferiti in un mondo nel quale l'impulso di prendere un coltello e piantarselo nel petto si vanifica allorché il depresso, per quanto ottenebrato, si accorge che il coltello con cui sta tagliando il suo orrendo hamburger è di plastica. Ma l'ospedale offre anche il trauma, mite e stranamente gratificante, di un'improvvisa stabilità, del trasferimento dall'ambiente troppo familiare di casa, dove tutto è angoscia e conflitto, a una sorta di carcere ordinato e benigno dove il tuo solo dovere è cercare di star bene» [Styron 1999: 80].
È molto interessante che ai nostri giorni ricompaia, in modo del tutto inatteso, il bisogno di "ospizio", inteso come luogo di accoglienza per quelli che non possono essere guariti. È quanto è avvenuto con il "movimento degli hospice", nato nei paesi anglosassoni una trentina d'anni fa. Noi abbiamo una difficoltà quasi insormontabile ad adottare questo termine, in quanto connota l'''ospizio'' nel suo significato più deteriore di emarginazione e discriminazione. Nel significato che ha assunto all'interno del movimento delle cure palliative, l'hospice è piuttosto il luogo in cui sono assistiti e curati i malati non possono più essere avviati per la via della guarigione. In particolare, ai malati in fase terminale viene offerto un ambiente dove è possibile esercitare la pietas e l'accoglienza, dove la palliazione e la cura dell'intero nucleo familiare hanno la precedenza sugli sforzi terapeutici. L'hospice è un luogo dove si cerca di rendere operativo il programma racchiuso nello slogan fatto proprio dall'Associazione italiana per le cure palliative: "curare anche quando non si può guarire".
Anche le RSA (le Residenze Sanitarie Assistenziali) per anziani sono una variante moderna del concetto originario di hospitium. Dobbiamo reinventarci oggi il luogo dell'accoglienza per i più fragili, proprio quando ci accorgiamo che l'ospedale non è fatto per i lungodegenti. Siamo assediati da una marea crescente di persone anziane che l'allungamento della vita ― felice, ma anche tremendo risultato della medicina moderna ― rende inadatte a vivere nella propria casa, mentre l'ospedale si rivela, a sua volta, inappropriato, per motivi economici e umani a ospitare un declino che diventa sempre più lungo. Questi anziani e malati cronici, bisognosi di assistenza ma per i quali il ricovero ospedaliero non è appropriato, ci pongono una sfida: dobbiamo trovare varianti moderne dell'ospedale nella sua accezione originaria, quale luogo accogliente per l'uomo fragile, un luogo dove sta di casa la pietas.
Parallelamente, le esigenze degli utenti abituali degli ospedali nei confronti del confort alberghiero sono notevolmente accresciute. Il senso comune
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riconosce facilmente che "gli ospedali non saranno mai un luogo di villeggiatura", come dice lo slogan proposto dal Tribunale per i diritti del malato; tuttavia non ci rassegniamo facilmente a uno standard che si discosti troppo dal livello di vita a cui siamo abituati nelle nostre abitazioni: qualità del cibo e pulizia degli ambienti, accessibilità dei familiari e riservatezza ― le camere singole o a due letti al posto delle corsie affollate dei vecchi reparti ― fanno parte ormai della qualità minima che il cittadino si attende dall'ospedale.
2. "Umanizzare gli ospedali?": una formulazione infelice...
Il ricorso alla categoria di "umanizzazione", come correttivo proposto per riportare la pratica medica alla sua ispirazione originaria, si rivela una scelta infelice. Chi la usa ha per lo più intenzioni lodevoli: vuol conferire alla medicina un profilo di alta idealità. Ma l'esito tradisce le intenzioni. Quando i sanitari si sentono oggetto di campagne di "umanizzazione" o "riumanizzazione" della medicina (o espressioni equivalenti, come l'auspicio di avere "ospedali più umani"... ), non possono che sentir aleggiare l'accusa implicita di disumanità. La risposta, psicologicamente comprensibile, non può essere altro che di ostilità e chiusura a simili progetti, che assumono così un alone moralistico.
L'esortazione a "umanizzare" le cure rivolte ai malati viene intesa per lo più come un invito ai sanitari a considerare i malati nella loro condizione di fragilità. Il movimento di "umanizzazione" della medicina si è fatto portavoce in Italia soprattutto di iniziative provenienti dall'ambito religioso. Ordini ospedalieri ― come i Fatebenefratelli, i Camilliani ― hanno assunto un ruolo da protagonisti nel denunciare una perdita di anima da parte dei professionisti nella pratica quotidiana della medicina. L'attenzione a eliminare i comportamenti dei sanitari che violano i diritti e la dignità delle persone e sono incompatibili con il rispetto del malato quale cittadino è solo il presupposto di quanto è richiesto dal programma di "umanizzazione". L'intenzione di chi propone simili programmi può essere definita con una formula che risale al medico-filosofo tedesco Viktor von Weizsäcker: "reintrodurre il soggetto in medicina". L'analisi dei mali della medicina, vista dalla realtà europea, è sovrapponibile a quella che aveva indotto negli anni '60 il gruppo di ecclesiastici e cappellani universitari americani a fondare la "Society for Health and Human Values", che ha svolto un ruolo così importante per la diffusione delle medical humanities in America. Ma la terapia proposta dal movimento italiano per l'umanizzazione della medicina ha preso la china della "predicazione" piuttosto che quello della cultura, traducendo si in un invito rivolto ai sanitari a riscoprire motivazioni e orientamenti interiori di natura oblativa e filantropica.
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L'appello alla "umanizzazione" della pratica medica, tanto che provenga da ambienti religiosi, tantio sostenuto da motivazioni secolari, ha un valore riconducibile alla moral suasion. Si rivolge al cuore degli operatori sanitari, vuol modificare i comportamenti con la forza dell'empatia. Più che un'affinità con l'etica, vi ravvisiamo una somiglianza con la "parenetica", che per gli stoici costituiva la parte della filosofia morale rivolta a fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze. Questa concettualizzazione non ha valore svalutativo: di calde esortazioni abbiamo e avremo sempre tutti bisogno! Ma la prevedibile reazione negativa dei professionisti che si sentono invitati a "umanizzarsi" ci induce a evitare questa terminologia.
Un percorso molto più proficuo è quello che, invece di accentuare la condizione di fragilità del malato, ne mette in evidenza i diritti che derivano dall'essere cittadino. Questo approccio non è improvvisato: in Italia ha già una trentina d'anni. Nel periodo in cui in Italia l'organizzazione sanitaria stava facendo quel passo decisivo che avrebbe portato alla creazione del Servizio Sanitario Nazionale (23 dicembre 1978), un progressivo degrado dei rapporti tra operatori sanitari e malati affliggeva la pratica quotidiana della medicina. Si tratta di problemi che non emergono finché non si descrive il vissuto della malattia dal punto di vista del malato stesso.
Un forte impatto sull'opinione pubblica ha esercitato il giornalista Gigi Ghirotti, che con interventi televisivi prima e con un libro poi (Il lungo viaggio nel tunnel della malattia), ruppe la consegna del silenzio che gravava sul malato per descrivere la spersonalizzazione operata dal modo abituale di erogare le cure negli ospedali. Ghirotti è deceduto nel 1974, ma la sua voce non si è spenta: nel 1975, alcuni mesi dopo la morte del giornalista, si costituiva l'Associazione Gigi Ghirotti, con lo scopo di continuare a mantenere vivo l'impegno a favore del miglioramento della qualità di vita dei malati. L'Associazione, diffusa attualmente in diverse città italiane, ha portato un contributo decisivo nel modificare la pratica dell'assistenza ai malati bisognosi di cure palliative, nella fase della malattia che va verso la morte.
La causa perorata da Gigi Ghiotti e da altri cittadini afflitti dal degrado dei l'apporti tra coloro che erogano le cure nelle istituzioni pubbliche e i malati che le ricevono continua a essere tenuta viva anche dai medici stessi, quando capiti loro l'esperienza di passare "dall'altra parte", ovvero di essere a loro volta oggetto di cure (cfr. S. Bartoccioni, G. Bonadonna, F. Sartori: Dall'altra parte, Rizzoli 2006). Anche se decidiamo di evitare l'espressione "umanizzare gli ospedali", per il rifiuto che suscita negli operatori sanitari, non possiamo non sottolineare le perenne attualità di ciò che intende promuovere: prendere in seria considerazione il punto di vista di coloro che negli ospedali sono gli ospiti, e non solo dei professionisti che in queste istituzioni sono di casa.
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3. Favorire l'empowerment del cittadino malato
Un efficace contributo a modificare la cultura su cui sono costruiti i rapporti all'interno degli ospedali è venuto dalla creazione dei Tribunali per i diritti del malato. Anche in questo caso un libro ha avuto la capacità di coagulare l'attenzione sulla condizione concreta del malato. Pubblicato per la prima volta nel 1978, L'uomo negato di Giancarlo Quaranta analizzava come le procedure terapeutiche alle quali viene sottoposto il malato si risolvono in un'opera di devastazione dell'identità del malato. Questi, inspiegabilmente, da soggetto diventa oggetto:
«Dal momento in cui una struttura sanitaria mi accoglie tra le sue braccia, certamente per tentare di guarirmi, succede che, senza che nessuno lo voglia, senza che ci siano cattive volontà, il mio lavoro, la mia cultura, il mio stesso corpo, per quello che la malattia me ne lascia, i miei desideri, le mie idee, i miei diritti, i miei affetti non contano più e svaniscono nel nulla. Mi è difficile anche tenermi legato ad alcune piccole cose alle quali attribuisco un valore particolare per mantenere la mia identità. Se sto in corsia, i pochi oggetti che posso tenere mi danno la misura di quello che mi è rimasto» [Quaranta 1978: 49].
L'analisi che L'uomo negato fa della condizione del malato prende in considerazione le innumerevoli piccole vessazioni che il malato deve subire durante il ricovero ospedaliero: gli orari della vita in ospedale, l'uso del "tu" al posto della forma di cortesia, le difficoltà a incontrare i familiari, di poter mangiare cibo caldo, di accedere alla cartella clinica e quindi di poter conoscere le proprie reali condizioni. In breve, tutto ciò a cui in una condizione abituale di degenza il personale sanitario non presta attenzione, nella convinzione che "importante è guarire, tutto il resto non conta"; per il malato, invece, anche il resto conta! Le varie tappe del processo che porta a negare il malato in quanto cittadino vengono considerate analiticamente: l'ospedale è un carcere; ogni procedimento terapeutico contiene tratti di spersonalizzazione; i malati sono una casta; il malato diviene una malattia.
Il libro-denuncia di G. Quaranta non si limitava ad analizzare abusi che vengono quotidianamente esercitati sul malato, ma intendeva smontare il meccanismo che fabbrica l"'uomo negato". Mutuava soprattutto dal sociologo americano Talcott Parson gli strumenti per comprendere come il sistema sociale dominante instauri un controllo della malattia, prescrivendo al malato un ruolo che neutralizza le spinte verso la devianza. Un potere tra i più rilevanti nella nostra società consiste nell'attribuire o nel negare a un soggetto il ruolo di malato, con i comportamenti connessi a questo ruolo. L'analisi si traduceva in una tesi, annunciata a chiare lettere dalla copertina dell'edizione del 1980: "La malattia ripara dalle regole del gioco sociale: l'ospedale annulla l'uomo per affermare la sua subordinazione politica".
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Gli spunti critici contenuti nel pamphlet venivano assunti dal Movimento Federativo Democratico, con l'idea che, coniugando diversamente la politica con la sofferenza, si sarebbero potuti creare cambiamenti vistosi nella vita dei malati. L'intento era quello di dare centralità al ruolo di cittadini, quali garante dell'attuazione di un diritto costituzionale, fortemente condiviso, ma misconosciuto e negato nella vita concreta. Ai cittadini veniva attribuita una funzione di governo insostituibile all'interno del Servizio sanitario nazionale, diventando protagonisti della gestione della malattia e della guarigione, della vita in ospedale e dell'organizzazione dei servizi. Lo strumento di cui il movimento si dotò furono i Tribunali per i diritti del malato.
Lo scopo dei Tribunali, costituiti a partire dal 1980, non era quello di affermare diritti umani in senso astratto e generale, come quelli alla libertà e alla dignità, quanto piuttosto concrete rivendicazioni relative alle condizioni di vita in ospedale. L'idea stessa di tribunale evocava una esplicita conflittualità con chi, nell'uso del potere, era individuato come controparte. Era questa una richiesta esplicita contenuta ne L'uomo negato: «Si apra con la classe medica e con i suoi collaboratori una vera e propria controversia di massa, diretta a far maturare, ma anche a imporre, un consenso, perché il quadro socio-culturale della malattia venga radicalmente cambiato» [Quaranta 1978: 78].
La prima sessione del Tribunale di Roma, tenutasi il 29 giugno 1980 in Campidoglio (con il titolo programmatico: "Da malato a cittadino: contro l'emarginazione, per la gestione popolare delle strutture sanitarie"), culminava con la presentazione dei 33 diritti del cittadino. È interessante notare che nel lungo elenco di diritti rivendicati (diritto a essere assistiti da personale sanitario identificabile, munito di cartellino leggibile, a usufruire durante la degenza di lenzuola, cuscini, posate, di disporre di servizi igienici puliti, di vivere la giornata di degenza secondo gli orari medi della vita civile...) un'attenzione relativamente modesta viene riservata alla partecipazione attiva del paziente alle decisioni cliniche (l'art. 28 parla di un diritto ad avere inserita nella cartella clinica «una scheda dove siano illustrate in termini chiari e comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in corso, nonché le previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di guarigione»).
Il confronto con movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni fa emergere che altrove veniva messa a fuoco la centralità dell'informazione per promuovere l'empowerment del cittadino malato. Ad esempio, l'Associazione dei pazienti della Svizzera italiana presentava la propria attività non sotto l'immagine di un tribunale che tutela chi è costretto a subire maltrattamenti, ma come una struttura che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali: "Ho diritto di vedere la mia cartella medica? A che appartengono i risultati delle analisi e le radiografie? Quali informazioni devono essere date al paziente sul suo stato di salute
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e sulla cura che deve seguire? E ai suoi familiari? C'è libertà di scelta della terapia?".
L'iniziativa del Movimento Federativo Democratico, anche se non perfettamente sintonizzata sui temi che, negli anni seguenti, sarebbero diventati la struttura portante del movimento della bioetica, ha avuto grandi meriti per la promozione di una nuova cultura sanitaria e per la trasformazione degli ospedali per accogliere le istanze della modernità. I Tribunali per i diritti del malato si sono diffusi in buona parte delle realtà locali; la Giornata nazionale dei diritti del malato e dei diritti sociali è diventata, a partire dal 1980, un appuntamento annuale; in alcune Regioni sono state promulgate specifiche normative rivolte a disciplinare le condizioni di utilizzo dei servizi sanitari e a tutelare i diritti dei cittadini malati (la Regione Toscana, ad esempio, nel 1999 ha approvato un "Decalogo dei diritti e dei doveri", in tema di informazione sanitaria, quale strumento di sensibilizzazione e informazione per i cittadini). Più di recente il Tribunale ha lanciato una vasta campagna per promuovere tra i cittadini la cultura del consenso informato ai trattamenti sanitari.
4. L'ospedale come cittadella della scienza
Oltre che come luogo deputato ad accogliere l'uomo nella condizione di fragilità causata dalla malattia, l'ospedale si è qualificato come cittadella della scienza medica. Questo passaggio è avvenuto nel corso del XIX secolo. L'opera di Michel Foucault ― La nascita della clinica ― l'ha spiegato in modo ineccepibile. Diventando scienza, la medicina acquista la capacità di modificare il corso naturale della malattia; parallelamente, l'ospedale diventa il luogo dove la medicina come scienza è concentrata al massimo grado.
Il modello dell'ospedale come cittadella fortificata della salute, dove si svolge la lotta organizzata ed efficace contro tutte le forme della malattia, continua a essere più che mai attuale. Non potremo mai considerare "ospitali" gli ospedali che fossero al di sotto dello standard di cure efficaci che la medicina oggi è in grado di fornire (quand'anche fossero eccellenti dal punto di vista alberghiero e del confort offerto ai degenti). Qualunque sia il livello di gradevolezza dell' ambiente e di attenzione alla persona, se l'infarto, ad esempio, non viene curato in modo efficace secondo quanto le acquisizioni consolidate della scienza medica internazionale danno per acquisito, non potremmo dare a quell'ospedale la qualifica di "umano".
In questo modello di ospedale come cittadella della scienza l'umanizzazione viene a coincidere sostanzialmente con una richiesta di cure efficaci, abbinate alla sicurezza. L'attualità di questa problematica può essere collegata al dibattito relativo alla permanenza di piccoli ospedali decentrati.
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Il piccolo ospedale di pochi letti è magari ideale dal punto di vista dell'ospitalità: i malati possono essere trattati in modo non impersonale e burocratico, i medici e gli infermieri stabiliscono rapporti molto familiari tra di loro e con i malati. Ma dal punto di vista dell'efficacia il piccolo ospedale può costituire un vero e proprio pericolo per la salute e per la vita stessa.
Che cosa fare dei presidi ospedalieri di piccole dimensioni è attualmente un argomento di politica sanitaria molto scottante in Italia. La popolazione di cittadine di provincia in cui, secondo le indicazioni del governo centrale in accordo con la programmazione regionale, è stata deliberata la chiusura del piccolo ospedale scendono in piazza, operatori sanitari in testa: "Il nostro piccolo ospedale, così umano, non si tocca!". La popolazione sostiene queste rivendicazioni. Ma di fronte alla patologia seria, la preferenza va naturalmente all'ospedale che garantisca sicurezza ed efficacia. È un'esigenza imprescindibile di ciò che ci aspettiamo oggi da un buon ospedale: deve avere le conoscenze e le tecnologie per dare una risposta efficace alla patologia. La qualità medica che l'ospedale deve garantire comprende essenzialmente l'efficacia delle cure. Il cittadino, dovendo scegliere tra un ospedale dove lo trattano bene ma non lo sanno curare e uno dove invece gli viene garantita una cura efficace, sceglierebbe sicuramente il secondo, anche se in questo il confort e l'attenzione alla persona lasciassero a desiderare. È una contrapposizione retorica di questo genere che garantisce ai nostri giorni il successo del serial televisivo che ha come protagonista il dottor House, prototipo del medico scostante ma capace.
Il modello dell' ospedale come luogo della scienza medica continua ad essere quanto mai attuale. La scienza in ospedale non sarà mai troppa. Semmai il problema oggi è quello di una scienza troppo sbilanciata sul versante delle scienze naturali, che non sa integrare il sapere che deriva dalle scienze dell'uomo. La medicina tratta le patologie come se queste riguardassero solo il corpo, e non l'insieme della persona. Anche se, per ipotesi, la pratica di questa medicina fosse ineccepibile dal punto di vista filantropico, del rispetto dei diritti umani e della correttezza gestionale, sarebbe pur sempre carente, se non tiene conto di quanto dell'uomo malato ci dicono la psicologia, la sociologia, l'antropologia culturale.
Le patologie più diffuse nella nostra società non riescono a essere curate efficacemente con una medicina che ignora sistematicamente queste dimensioni dell'essere umano. Per fare solo qualche esempio, pensiamo al problema della cura delle tossicodipendenze; oppure al crescente diffondersi di disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia e l'anoressia: l'incapacità della medicina di trattare queste patologie, galoppanti nella nostra società, illustra le carenze intrinseche di risultati efficaci di una scienza medica che ignora le componenti psicologiche, relazionali, antropologiche e simboliche dei fatti patologici. Pensiamo anche al dolore
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cronico: i fallimenti medici nel tenerlo sotto controllo, malgrado il sofisticato arsenale terapeutico a disposizione della medicina contemporanea, dipendono dalla negligenza nel considerare il ruolo che esso gioca nella rete dei rapporti che lega il malato alla famiglia e alla società. È la prospettiva che ha indotto Arthur Kleinman antropologo medico di Harvard, a parlare di malattie "sociosomatiche" [Kleinman 1993].
La carenza dell'ospedale concepito come cittadella del sapere medico è che questo sapere è un sapere dimidiato: conosce solo una parte dell'uomo. Un ospedale "umano" è quello che sa integrare questo sapere completo sull'uomo non solo in modo teorico, ma pratico. Ciò implica il ricorso a professioni che si basano appunto su queste conoscenze umanistiche ― come lo psicologo, l'assistente sociale, il cappellano o assistente spirituale, il mediatore culturale ― non visti come professionisti di secondo livello, che si occupano delle piccole cose, ma come parte integrante di un unico progetto terapeutico. L'ospedale umano, secondo questo modello, è quello che sa dare risposte efficaci alle patologie. A tutte, comprese quelle tipiche della società moderna, che non possono essere modificate senza un ricorso sistematico alle scienze dell'uomo, oltre che a quelle della natura.
5. Presidio dello stato sociale
Un terzo modello di ospedale è quello pensato in funzione del welfare state. Dagli anni '40 del XX secolo in poi, molti paesi dell'area occidentale, a cominciare dall'Inghilterra, hanno socializzato la medicina, come pilone portante del welfare state. Uno dei frutti meno discutibili del XX secolo è quello di aver liberato tanta parte dell'umanità dal bisogno e averla avviata al benessere. Il riconoscimento del diritto alla tutela della salute, indipendentemente dalla capacità delle persone di pagarsi i servizi sanitari di cui hanno bisogno, è riconosciuto come un diritto ampio quanto il diritto stesso di cittadinanza.
In questo quadro generale l'ospedale diventa il luogo dove si concentra l'impegno dello stato a fornire a tutti i cittadini l'assistenza sanitaria. Non per motivi di filantropia, ma di giustizia. L'assistenza sanitaria diventa uno dei diritti civili e sociali esigibili da ogni cittadino. Assicurare a tutti l'assistenza sanitaria in caso di malattia, indipendentemente dalla capacità economica di pagarsela, diventa l'impegno prioritario dello stato sociale.
Nell'ospedale tutti i cittadini hanno uguale diritto di accesso, tutti possono pretendere considerazione e rispetto, e soprattutto una cura adeguata alle loro necessità. La cura della salute promossa dallo stato sociale si è tradotto in una modalità che, di per sé, avrebbe dovuto essere evitata: l'ospedale ha preso il posto centrale e quasi unico di tutto il sistema delle cure. In quel progetto generoso, con venature di utopia, in cui lo stato si
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impegnava a promuovere il benessere di tutti i cittadini occupandosi di loro dalla "culla alla tomba", l'ospedale era il luogo deputato a questa assistenza totale.
Attualmente ci troviamo nella necessità di ridisegnare lo stato sociale. Sappiamo che le risorse di cui disponiamo non sono sufficienti ― e mai lo saranno, per quanto ampia sia la misura delle risorse che allochiamo a favore della sanità ― per dare tutto a tutti. Siamo perciò costretti a stabile una scala di priorità: a chi dare, cosa dare, con quali criteri. In questa fase di transizione l'ospedale è sottoposto a un forte cambiamento, che rimette in discussione l'ospedalocentrismo a cui siamo abituati.
In questo nuovo stato sociale, verso il quale ci stiamo incamminando, la priorità numero uno è l'efficienza. Mentre nell'ospedale come cittadella della scienza l'imperativo dominante era ed è l'efficacia (all'ospedale chiediamo che guarisca le malattie, facendo ricorso a quanto di più aggiornato può offrire il progresso tecnologico e scientifico), nel nuovo stato sociale l'ospedale deve mirare a distribuire le risorse scarse in modo che con esse si ottenga il più e il meglio. In altre parole, l'ospedale deve essere efficiente, per poter rispondere ai bisogni sanitari non solo di qualcuno, ma di tutti.
o L'efficienza è importante come valore economico, ma esprime anche un'esigenza etica. Possiamo illustrare l'assunto con un esempio. Se l'imperatore del Giappone si ammala ― come è successo con il vecchio imperatore Hirohito ― per curarlo si può spostare un ospedale nel suo palazzo, compresa la Tac e tutta la tecnologia più sofisticata. L'efficacia sarà la stessa, ma non si può dire che questa organizzazione delle risorse sia efficiente. Possiamo dare tutto a una persona e ottenere risultati brillanti in termini di efficacia, mandando però deluse le legittime aspettative di tanti altri che avevano diritto di contare su quelle stesse risorse. Come corollario del nuovo stato sociale, dobbiamo esigere che l'organizzazione delle cure in ospedale tenga in debita considerazione il criterio dell'efficienza. Se manca, l'ospedale non può qualificarsi come un buon ospedale, per quanto elevato sia, dal punto di vista della scienza medica, il livello delle prestazioni che fornisce.
Curare i malati e fare quanto è possibile allo stato attuale del sapere me-dico, per restituire loro la salute non può più essere l'unico obiettivo di una buona medicina: mentre cercano di curare e guarire, i sanitari devono anche fare il miglior uso delle risorse. È l'impostazione dei doveri medici che troviamo nella più recente versione del Codice deontologico (dicembre 20=6): "Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell'autonomia della persona tenendo conto dell'uso appropriato delle risorse. Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e
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qualità delle cure" (art. 6). Ciò implica anche una limitazione nell'uso stesso dell'ospedale. Se viene utilizzato per motivi impropri, facendo in ospedale trattamenti che possono essere fatti altrove o in regime di Day hospital, si realizza uno spreco di risorse, e quindi una medicina inefficiente (oltre che, molto spesso, una medicina che calpesta le attese di chi vorrebbe che l'ospedale fosse anche "ospitale").
Questa preoccupazione si traduce in progetti molto concreti. Uno di questi può essere la promozione del Day hospital o della Day surgery. Organizzare gli interventi diagnostici e terapeutici in un giorno solo, evitando il ricovero, porta al risparmio su tutti i piani: da quello economico a quello del disagio inflitto ai malati. Anche molte operazioni chirurgiche possono essere fatte in ciclo giornaliero, se ben programmate e organizzate. Le stesse cure domiciliari diventano un programma essenziale di un ospedale che mira all'efficienza. Naturalmente queste vanno programmate: non sono tali quelle improvvisate, magari perché i sanitari, diventati sensibili ai costi, decidono a un certo punto di mettere i malato con la sua valigetta degli effetti personali fuori dalla porta dell' ospedale, quasi che, una volta concluso il compito istituzionale dell'ospedale, la sorte del paziente non riguardi più gli operatori ospedalieri. Anche la continuità delle cure e il legame organico con la medicina del territorio fa parte integrante di un ospedale concepito come presidio dello stato sociale.
6. L'ospedale "azienda"
I tre modelli di ospedale che abbiamo analizzato, presenti sotto forma di eredità del passato, devono essere completati da un quarto: l'ospedale del futuro. Il quale non è solo un pio desiderio; in qualche modo è già presente come esigenza e potenzialità che domanda di essere realizzata: è, o sarà, l'ospedale-azienda, così come è disegnato dai decreti legislativi che disegnano il profilo della nuova sanità italiana.
Qualcuno paventa in questo modello di ospedale un tradimento della sua natura e vocazione originaria. Bisogna anzitutto chiarire un equivoco: non si tratta solo di trasporre nell'ospedale che cura le malattie la filosofia dell' azienda nata per produrre e commercializzare beni e servizi, obbedendo a una logica di profitto. Così inteso, l'ospedale azienda sarebbe davvero un tradimento. Il riferimento invece è a quella filosofia dell'azienda che è stata sviluppata in questi ultimi anni a partire dal concetto di "qualità totale". Le aziende, se vogliono sopravvivere e non essere escluse dalla competizione, sono costrette ad abbandonare la vecchia mentalità aziendalistica e ad adottare la filosofia della "qualità totale". In questa prospettiva l'obiettivo prioritario non è quello di aumentare il fatturato, ma di avere "clienti consolidati", perché soddisfatti. Questa filosofia
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è risultata vincente nella produzione di beni e servizi in generale; tanto più, quindi, se si tratta di un servizio personalizzato come la cura della salute.
Un cambiamento di questo genere, destinato a orientare le aziende verso il modello della qualità "eccellente", richiede più di un "lifting" superficiale implica un ripensamento totale, che si traduce in un atteggiamento diverso di coloro che producono beni o servizi nei confronti del cliente. Applicato all'ospedale, il modello richiede di mettere al proprio centro il paziente-cliente, imparando un modo diverso di lavorare. La centralità del paziente, un tema caro a coloro che hanno a cuore l"'umanizzazione" dell'ospedale, cambia di segno: non è più soltanto una esortazione morale a comportarsi bene con il malato ― riconducibile, più o meno direttamente, a una concezione deontologica che richiede a chi lavora in sanità un atteggiamento carico di umanità e di valori etici ― ma diventa una strategia di gestione manageriale del nuovo ospedale. Perché l'ospedale possa essere giudicato un buon ospedale, bisognerà guardare alla qualità dei servizi che fornisce. Un indicatore di buon servizio è la giusta soddisfazione di che ne usufruisce. Il paziente-cliente dovrà uscire dalla struttura ospedaliera non solo curato ― e curato bene, secondo i più alti standard della scienza medica ― ma anche soddisfatto. Altrimenti preferirà, nel regime concorrenziale che si andrà stabilendo, un'altra struttura fornitrice di servizi sanitari. Fornire servizi di qualità, valutati come tali da coloro che ne usufruiscono, equivale a mettere in atto misure strategiche necessarie perché l'ospedale-azienda possa sopravvivere.
È una rivoluzione che non produce soltanto migliori servizi, ma fa sì che gli operatori siano più soddisfatti del loro lavoro. Nella filosofia della "qualità totale" non si può fornire un prodotto eccellente se coloro che lo producono non sono attivamente coinvolti: non come piccole ruote di un ingranaggio, ma come protagonisti attivi che pensano le soluzioni e le propongono, fanno progetti e li realizzano, ottengono piccoli miglioramenti costanti. Il cliente soddisfatto presuppone un fornitore di servizi soddisfatto. Con delle persone frustrate e demotivate non si può fare un'azienda che abbia l'"eccellenza" come obiettivo.
Nell'ospedale azienda il criterio di valutazione non è più solo l'efficacia o l'efficienza, ma diventa l'eccellenza. La scommessa per il futuro è il passaggio a quell'ospedale azienda che realizzi le potenzialità di umanizzazione che ha in sé, quasi una sintesi delle esigenze implicite nei modelli di ospedale "hospitium", ospedale-cittadella della scienza e ospedale-presidio del welfare state. Dovrà essere, contemporaneamente, un luogo ospitale dove le malattie vengono curate in modo efficace, con l'efficienza che permette di rispondere con risorse limitate ai bisogni di tutti i cittadini, puntando insieme ― erogatori dei servizi e cittadini ― alla qualità eccellente.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Foucault M. (1969), La nascita della clinica, Einaudi, Torino
Ghirotti G. (2002), Il lungo viaggio nel tunnel della malattia, FrancoAngeli, Milano
Kleinman A. (1993), Il contesto umano nel dolore: un approccio antropologico: "L'arco di Giano", 3, pp. 19-32
Quaranta G. (1978), L'uomo negato, Effedierre, Roma (successivamente ripubblicato con lo stesso titolo da Nuova Guaraldi, Firenze, 1980 e da FrancoAngeli, Milano, 1982, con una seconda parte dedicata ai Tribunali per i diritti del malato)
Styron W. (1999), Un'oscurità trasparente, Mondadori, Milano