- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- La formazione del personale delle aziende sanitarie
- Trapianti ed equità nel ridisegno dello stato sociale
- Formarsi alla nuova sanità
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- La cultura del limite nell'agire medico: quando meno è meglio
- Is prevention an ethical problem?
- EBM e EBN: interrogativi etici
- Problemi etici in una sanità aziendalizzata
- Quale mediazione etica tra domanda e offerta nella sanità
- L'azienda sanitaria e i malati
- L'azienda sanitaria e i malati
- Leggi di mercato ed etica professionale
- Quaderni di sanità pubblica
- Rilancio della salute per tutti
- L'umanizzazione del servizio assistenziale
- L'umanizzazione dell'ospedale
- Il limite: economia, etica, ascetica
- Limiti e qualità in medicina
- L'ospedale è un luogo etico?
- Il processo di cambiamento nella sanità italiana
- Salute oggettiva, salute percepita e benessere
- Etica e management
- Problemi di giustizia in sanità nell'orizzonte della bioetica
- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- L'ospedale del futuro sarà un luogo etico?
- L'etica della prevenzione
- Etica della prevenzione tra diritto individuale e dovere collettivo
- Rapporto sanità '97
- Esperienza multicentrica di coinvolgimento degli operatori sanitari
- Il cittadino, il medico e l'Aids
- AIDS la sindrome misteriosa
- Il malato di tumore in Lombardia
- Questioni etiche in oncologia
- Miglioramento della qualità
Sandro Spinsanti
RAPPORTO SANITÀ ‘97 - Documento introduttivo
in Rapporto Sanità '97. I nodi del cambiamento, a cura di Marco Trabucchi, Fondazione Smith Kline
Società Editrice il Mulino, Bologna 1997
pp. 9-39
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1. Introduzione
Uno dei frutti meno discutibili del XX Secolo ― il «secolo breve», come lo ha chiamato lo storico inglese Hobsbawn nel libro in cui ha analizzato il nostro secolo nelle sue poche luci e tante ombre: Il secolo breve, Rizzoli, 1995 ― è quello di aver liberato tanta parte dell’umanità dal bisogno e di averla avviata verso il benessere. Il riconoscimento del diritto alla tutela della salute, indipendentemente dalla capacità delle persone di pagarsi i servizi sanitari di cui hanno bisogno, è stato progressivamente riconosciuto come un diritto ampio quanto il diritto stesso di cittadinanza. Anche le vicende della sanità italiana nell’arco temporale dell’ultimo mezzo secolo si iscrivono in un movimento che vede un impegno prioritario dello Stato a fornire a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria. Non per motivi di filantropia, ma di giustizia. L’assistenza sanitaria è diventato uno dei diritti civili e sociali esigibili da ogni cittadino.
Il movimento accelerato che ha portato prima all’istituzione del Servizio sanitario nazionale (legge 833, 1978) e poi al suo riordino (D.Lgs. 502/92 e 517/93) è stato interpretato come un passaggio dal welfare state alla welfare community, in una rapida evoluzione dei sistemi sanitari che porta il privato e il terzo settore (privato sociale) a integrarsi con il pubblico.
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Le innovazioni si sono estese anche al rapporto tra la finanza pubblica statale e quella locale.
Settori hard del cambiamento sono stati l’organizzazione aziendale (struttura gerarchica o funzionale, che determina il rapporto tra la fascia dei poteri decisionali, quella dei poteri direzionali e la fascia dei poteri esecutivi) e i sistemi di gestione. Ma non si devono dimenticare anche i settori soft, come la «mission» (ovvero i fini storico-istituzionali) delle istituzioni sanitarie e la cultura che le sostanzia: simboli, segni, linguaggi, comportamenti e norme.
L’evoluzione della «mission» dell’ospedale può fornirci una concreta illustrazione del modo in cui innovazione e continuità si integrano nell’ambito sanitario. Per secoli l’ospedale si è identificato con l'hospitium per eccellenza, vale a dire con il luogo dell’ospitalità, spazio per l’uomo fragile, casa per l’accoglienza di diseredati di ogni genere. L’obiettivo di questa istituzione era di esercitare la «pietas» verso i bisognosi (malati e minorati in primo luogo; ma anche nei confronti di persone variamente incapaci di affrontare in modo autonomo il proprio inserimento nella vita sociale). Questo modello di ospedale è stato sostituito nel XIX secolo dall’ospedale come cittadella della scienza medica, il luogo dove si svolge la lotta organizzata ed efficace contro le varie forme di patologia e dove si concentra la più alta potenzialità di tecnologia, di competenza professionale e di impegno della società a sconfiggere le malattie. Senza, tuttavia, che le nuove attese della popolazione nei confronti dell’ospedale abbiano abolito quelle che si sono tradizionalmente cristallizzate attorno all’idea di ospedale come luogo ospitale. Anzi, la richiesta di cure efficaci va oggi di pari passo con esigenze accresciute di «ospitalità» da parte delle istituzioni nosocomiali. Il movimento di «umanizzazione» degli ospedali, sviluppatosi da una trentina d’anni a questa parte, è inteso a promuovere nuovi rapporti tra sanitari e pazienti, più rispettosi dei valori della persona e dei diritti del cittadino, ma anche maggiore attenzione al comfort e alla privacy, nonché al bisogno di nuove forme di «ospitalità» per quei malati che non corrispondono alle forme acute per le quali l’ospedale moderno è pensato (vecchie e nuove forme di cronicità, lungodegenti, malati nelle
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fasi terminali della vita). L’ospedale che eroga cure efficaci e quello che accoglie e assiste secondo le esigenze dell’umanizzazione delle cure non sono in alternativa: tra i due modelli si dovrà cercare una necessaria integrazione.
Con lo sviluppo dello Stato sociale e la creazione di un Servizio sanitario nazionale l’ospedale si è visto investire di un nuovo ruolo: esso è il luogo in cui a tutti i cittadini viene resa disponibile quell’offerta di servizi sanitari ai quali hanno diritto.
L’ospedale diventa così il principale presidio dello Stato sociale, che risponde ai bisogni dei cittadini indipendentemente dalle loro capacità economiche di pagare i servizi che ricevono. L’accessibilità di tutti i cittadini alle cure ospedaliere equivale alla nuova frontiera dei diritti sociali.
La tappa più recente del cambiamento è legata a quel modello di ospedale che nasce dalla aziendalizzazione delle strutture che erogano servizi sanitari. Il riordino del nostro sistema sanitario identifica una diversa «mission» dell’ospedale quando lo chiama «Azienda». D’ora in poi coloro che lavorano nel presidio ospedaliero non potranno accontentarsi di tendere a una qualità dei servizi offerti valutata esclusivamente secondo gli standard della scienza medica, lasciando ad altri ― amministratori, figure politiche ― di occuparsi delle risorse necessarie per il funzionamento degli ospedali. La «produttività» ― termine bandito dall’orizzonte delle preoccupazioni dei sanitari ― dovrà entrare nel linguaggio quotidiano di chi lavora in sanità.
L’aziendalizzazione richiede una nuova cultura organizzativa, che sappia coniugare efficienza e qualità, economia ed etica. Non da ultimo, infine, l’ospedale-azienda non si potrà realizzare senza che tra tutti coloro che vi operano si sviluppi un senso di appartenenza e la condivisione di obiettivi comuni, all’interno di un piano strategico che per realizzarsi ha bisogno della collaborazione di tutti.
Ancora una volta dobbiamo rivendicare l’armonizzazione dei nuovi modelli di ospedale con quelli già recepiti dalla cultura civile e sanitaria, non la sostituzione di uno mediante un altro. Il discorso vale in particolare per il frutto più recente dell’innovazione: l’ospedale-azienda. Anche questo va pensato
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in una prospettiva di medicina sociale e di risposte solidaristiche ai bisogni, nel quadro di una società che ha fatto della tutela della salute dei più deboli un’acquisizione irrinunciabile. L’ospedale del futuro dovrà essere contemporaneamente presidio dello Stato sociale e istituzione che eroga servizi adottando lo stile di un’azienda, e quindi dando il giusto peso alla qualità percepita dal «cliente».
Un elemento centrale del cambiamento culturale è la crescita di una concezione attiva e partecipativa della salute, quale bisogno personale che non si presta a essere soddisfatto con servizi anonimi, erogati in forma burocratica e massificata, prescindendo dalla qualità del rapporto tra professionisti sanitari e paziente. La nuova cultura del rapporto terapeutico spinge verso una partecipazione consapevole del paziente-cliente-utente a tutte le fasi del trattamento diagnostico, terapeutico e riabilitativo.
Pensare la sanità nell’orizzonte dei limiti, ― non solo di quelli economici, anche se questi appaiono al momento attuale come i più impellenti, ma anche dei limiti di altro genere: delle risorse umane e delle stesse risorse naturali, compresa quella limitatezza antropologica che costringe l’uomo a pensare se stesso in un quadro temporale che non può essere esteso in maniera indefinita ― implica cambiamenti profondi nei modelli che abbiamo finora conosciuto. Secondo l’indicazione contenuta nel Piano sanitario nazionale 1994-96, questa situazione può essere vista anche come una opportunità: «La pressione della scarsità delle risorse orienta a immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione». Perché ciò avvenga, bisogna che il cambiamento si estenda fino alla revisione di alcuni «miti» impliciti nella nostra cultura.
Le riforme, anche quelle legittimamente ispirate alle concezioni più pragmatiche di politica sanitaria, non possono non tener presente l’orizzonte più vasto, costituito dalle rappresentazioni collettive dei fini dell’azione sanitaria. Tramontato il mito di una medicina immaginata come una impresa militare di conquista territoriale del patologico, dobbiamo dichiarare decadute anche le concezioni più ingenue dello Stato sociale (come quella che vede lo Stato coinvolto nella
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tutela della salute dei cittadini «dalla culla alla tomba»). Anche la sanità aziendalizzata non deve essere tributaria di un modello di sviluppo indefinito, che rifiuti di confrontarsi con la necessità di considerare dei limiti, secondo una concezione naturale ed ecologica dell’essere umano.
2. La storia recente del Servizio sanitario nazionale
Il complesso di provvedimenti attraverso il quale lo Stato ha cercato di assicurare la tutela della salute dei suoi cittadini, in adempimento del diritto alla salute garantito dalla Costituzione, dal dopoguerra in avanti appare soggetto ad un processo evolutivo collegato più a fattori riconducibili alla sfera politica, sociale ed economico-finanziaria, che non a fenomeni demografici ed epidemiologici, pur importanti e significativi, verificatisi in questi anni. Occorre osservare, infatti, come le modifiche strutturali intervenute nella organizzazione della sanità (le riforme) si siano succedute con una cadenza decennale, in coincidenza con i profondi cambiamenti nella vita del Paese.
Non è un caso che la prima riforma, quella ospedaliera del 1968, sia il frutto del programma di governo del centro-sinistra, nato nel 1963 con la associazione del Psi alle tradizionali forze di centro. Così pure avvenne nel 1979, con la approvazione della legge 833, figlia ― da una parte ― della politica di unità nazionale, imposta al Paese dalla necessità di affrontare i gravi eventi provocati dal terrorismo, mentre ― dall’altra ― vi era la necessità di definire un provvedimento-quadro, contestuale alla entrata in funzione delle Regioni a statuto ordinario, alle quali la Costituzione attribuisce la titolarità dell’assistenza sanitaria.
L’ultima «riforma» nasce nel 1991/93, nel contesto di una più generale crisi, segnata dalla consapevolezza della insostenibilità delle politiche sociali fino ad allora praticate, ormai incompatibili con l’equilibrio finanziario di un Paese caricato da un debito pubblico esorbitante. Vi contribuisce anche una revisione della cultura del «welfare state», messa sotto accusa in tutti i Paesi occidentali come fattore di grave
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deresponsabilizzazione dei cittadini verso la comunità e comunque incapace di dare risposte efficaci ai bisogni delle fasce più deboli della popolazione. Se le precedenti «riforme» nascono sotto il segno innovatore dell’ingresso nell’area del potere di nuovi soggetti politici, quest’ultima recupera disegni di razionalizzazione del servizio sanitario già oggetto di dibattito politico e riesce a tradurli in un organico corpo normativo solo nel momento in cui si apprestano a lasciare la scena i tradizionali soggetti politici.
I vincoli strutturali del Sistema sanitario italiano non hanno consentito finora la necessaria flessibilità nell’utilizzo delle risorse disponibili, finalizzate non alla erogazione delle prestazioni richieste, ma al mantenimento delle strutture. Solo nella riforma del 1991/93 si opera il salto di qualità, passando dal riconoscimento a pié di lista dei fattori produttivi alla remunerazione delle prestazioni erogate sulla base di tariffe predeterminate. Sebbene il concetto sia ormai patrimonio comune, affiorano qua e là resistenze contro un criterio considerato «cinico» se applicato alla salute delle persone, dimenticando la dispersione di risorse connaturata alla precedente modalità gestionale.
Quanto detto non affatto gli influssi che le dinamiche demografiche (peraltro in qualche modo sottese anche agli accennati eventi politico-economici) hanno prodotto sulla evoluzione del sistema; avverte solo di una certa problematicità a mettere in diretta relazione i due fattori.
Un significativo fenomeno si manifesta nell’ultimo decennio allorquando, a fronte della caduta del tasso di natalità, si sono affacciate consistenti coorti di popolazioni anziane con bisogni sanitari qualitativamente diversi (patologie croniche o invalidanti), cui il servizio sanitario strutturato per il trattamento degli stati di acuzie non era in grado di dare risposte adeguate. Per quantificare il progressivo e rapido fenomeno dell’invecchiamento basta citare alcuni dati: il livello di fecondità in Italia nel 1970 era ancora superiore a quello che assicura la sostituzione dei due genitori (2,4 figli in media per donna); oggi è, tra quelli della Comunità europea, il più basso in assoluto (1,25 figli per donna). Il cospicuo e rapido abbassamento del livello della fecondità è stato accompagnato
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da un continuo aumento della speranza di vita, che è di 74,2 anni per gli uomini e di 80, 3 per le donne. Quello che ne deriva è un rapporto giovani/anziani (< = 14 anni / = > 65 anni) che nel 1950 era di 3 a 1, che oggi è di 1 a 1 e nel 2020 sarà di 1 a 2.
Questa transizione demografica ha comportato una conseguente transizione epidemiologica, caratterizzata da un aumento considerevole della morbilità e della mortalità per malattie croniche, soprattutto nella popolazione anziana. Circa la metà di tutti i contatti medico/paziente, infatti, sono attualmente con pazienti ultra 65enni. La maggiore sfida per il Sistema sanitario è rappresentata quindi da patologie croniche invalidanti, quali l’artrosi, presente in circa il 60% della popolazione anziana, la broncopneumopatia cronica, in circa il 21%, la demenza nel 7%, lo scompenso cardiaco nell’8%, il diabete nel 13%. Una corretta politica di programmazione sanitaria non può prescindere dalla valutazione dei dati epidemiologici sulle maggiori patologie invalidanti e sulla conseguente disabilità, che colpisce circa il 30% delle persone anziane e che comporta una crescente domanda di assistenza continuativa.
Inoltre, fenomeni patologici nuovi, come la sindrome da Hiv e la tubercolosi, costituiscono un’ulteriore sfida al Sistema sanitario, che da una parte non si è ancora adeguato al rapido e cospicuo incremento delle patologie croniche e, dall’altra, si trova di fronte a patologie infettive gravi e pure in rapido aumento. Un esempio rilevante è rappresentato dalla tubercolosi, la cui incidenza annua in Italia è intorno al 25/100.000 ed è tra le più alte dei paesi industrializzati, inferiore solo a quella del Portogallo, Spagna e Giappone. Anche la prevalenza di Aids (circa 22/100.000) è inferiore solo a Stati Uniti, Francia e Grecia.
Significativo il caso delle malattie infettive: in un primo arco di tempo sono state in forte diminuzione e successivamente ricomparse; il sistema ha reagito, in questa come in altre circostanze (vedasi la drastica riduzione della natalità), come un ammortizzatore, diluendo molto nel tempo gli effetti della caduta di domanda delle prestazioni obsolete e rallentando i tempi di risposta alle nuove esigenze.
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Esistono alcuni indicatori epidemiologici sull’adeguatezza delle strutture sanitarie di un paese, quali per esempio l’analisi delle morti evitabili e i cosiddetti «eventi sentinella», che suggeriscono potenziali problemi nella sanità pubblica e carenze nella medicina preventiva e curativa. L’Italia, nonostante tutto, ha ottenuto importanti risultati dal punto di vista della sanità pubblica negli ultimi anni. Per esempio, basta ricordare il radicale miglioramento nel tasso di mortalità infantile, che nel 1970 era il più alto tra i paesi industrializzati, con 30 morti/1000 nati vivi, che oggi è di 8/1000 nati vivi e si attesta quindi nella media degli altri paesi. Tuttavia, continuano ad esservi profonde differenze regionali in alcuni indicatori, che evidenziano realtà altamente disomogenee nella disponibilità e nell’accesso alle strutture sanitarie. Per esempio, i tassi di mortalità perinatale e per il cancro della cervice sono significativamente più elevati nelle regioni del Sud.
Uno dei problemi principali in Italia è la mancanza di informazioni epidemiologiche che permettano il monitoraggio delle attività delle strutture sanitarie. Mentre la maggioranza degli ospedali può fornire informazioni minime sui pazienti ospedalizzati, le altre strutture sanitarie (ambulatori, case di riposo, ecc.) non hanno alcun sistema di raccolta di dati sui pazienti e sui servizi esercitati. Se, da una parte, si riconosce che questa è una necessità impellente nel nuovo sistema del pagamento per prestazione, anche per monitorare lo stato di salute della popolazione dimessa dagli ospedali, dall’altra l’implementazione di un sistema di raccolta delle informazioni sanitarie richiede un cospicuo investimento finanziario a breve termine. Tuttavia, tale sistema, oltre ad essere necessario per seguire le transazioni finanziarie nel nuovo sistema sanitario, permetterebbe di produrre indicatori per quantificare e dettagliare la richiesta assistenziale continuativa e per monitorare la qualità.
2.1. Le prestazioni assicurate ai cittadini dal dopoguerra
Il complesso dell’attività sanitarie in regime pubblicistico accessibili ai cittadini italiani fino al 1968 era costituito da
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prestazioni:
a) di base e specialistiche, erogate da una pluralità di soggetti mutualistici, aventi natura pubblicistica, espressione di categorie professionali di lavoratori dipendenti o autonomi;
b) ospedaliere, assicurate dal sistema mutualistico mediante convenzioni con Ipab o case di cura;
c) erogate dalla assistenza pubblica ai cittadini riconosciuti in stato di povertà.
Con la legge n. 132 del 1968, lo Stato interviene e riorganizza il comparto ospedaliero, definendone concetti e compiti fondamentali, tra i quali l’obbligo di prestare assistenza a tutti coloro che la richiedono in stato di acuzie, e stabilendo:
a) criteri di classificazione per la qualificazione regionale, provinciale e zonale della Ipab che intendono essere riconosciute come strutture ospedaliere;
b) i requisiti e standards assistenziali per le divisioni ed i servizi di diagnosi e cura;
c) i modelli organizzativi per le attività sanitarie e amministrative;
d) uno stato giuridico pubblicistico per il personale dipendente.
Gli effetti sulla qualità delle prestazioni ospedaliere furono indubbiamente positivi, poiché si istituti una organica rete di presidi dotati, secondo il loro livello, di servizi diagnostici e curativi completi. I cittadini italiani poterono fruire di una maggiore assistenza e di migliore qualità. Il risvolto negativo fu rappresentato dall’incremento esponenziale dei costi a carico del sistema mutualistico al punto che, verso la metà degli anni ‘70, lo Stato dovette intervenire per ripianare i disavanzi, prefigurando contestualmente modifiche al sistema.
Queste avvennero nel 1979 con una riforma radicale che, in un sol colpo, cancellò sia la riforma ospedaliera nei suoi aspetti politico-istituzionali, sia il comparto mutualistico, per dare vita alle Unità sanitarie locali, intese come unico soggetto titolato a governare le attività sanitarie, nell’ambito di indirizzi programmatori regionali, insistenti su un determinato territorio. La gestione venne attribuita a organi rappresentativi di secondo grado, espressione degli Enti locali.
Bastarono pochi anni per far registrare trend di spesa in
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ulteriore espansione. La crisi istituzionale sopra ricordata accelerò il processo di ristrutturazione del Servizio sanitario nazionale, oggetto, assieme agli altri comparti dello stato sociale, del riordino approvato con la legge delega n.421 del 1991.
I criteri alla base del nuovo assetto organizzato sono i seguenti:
a) conferma dei principi sanciti dalla legge 833;
b) esaltazione del ruolo delle Regioni nella gestione della sanità, accompagnata dalla assunzione di responsabilità sotto il profilo assistenziale e finanziario;
c) qualificazione delle Usl quali aziende pubbliche gestite con criteri manageriali e dirette da un organo monocratico (il Direttore generale);
d) adozione del finanziamento per quota capitaria delle Aziende Usl e della remunerazione a tariffa predeterminata delle prestazioni erogate dai soggetti pubblici e privati accreditati presso il servizio sanitario;
e) separazione netta tra finanziamento delle attività sanitarie, a carico del fondo sanitario, e delle attività socio-assistenziali, a carico dei Comuni;
f) riconoscimento di azienda autonoma ai complessi ospedalieri la cui attività è considerata di rilievo nazionale.
La attuazione della delega avvenne con i decreti legislativi n. 502 del 1992 e n. 517 del 1993, con i quali si è disegnato un corpo organico di norme intese a mandare a regime in tempi rapidi il nuovo ordinamento, il cui fulcro, al di là degli aspetti organizzativi, si può individuare nella correlazione tra i livelli di assistenza assicurati a tutti e le risorse finanziarie rese disponibili a tal fine. Per la prima volta nel nostro Paese, lo Stato ha stipulato una sorta di patto con i cittadini, indicando loro con precisione quali sono, per ogni livello di assistenza, le prestazioni cui hanno diritto e le risorse statali sulle quali le Regioni possono contare per garantirne l’effettivo conseguimento.
L'ampia delegificazione prevista dai decreti di riordino per un insieme di materie quali la pianificazione, i requisiti strutturali minimi, le tariffe delle prestazioni, la determinazione della quota capitaria ha consentito di dare sostanza al
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corpo normativo in particolare con la approvazione del primo piano sanitario nazionale definito nel 1993.
In esso vengono indicati:
a) le coordinate culturali entro cui si iscrive la prospettiva di «civiltà sanitaria», posta quale obiettivo da perseguire nel quadro delle politiche indicate per i paesi europei dall’Organizzazione mondiale della Sanità;
b) la declaratoria dei livelli di assistenza da assicurare a tutti i cittadini;
c) le azioni di riorganizzazione delle attività sanitarie, di eliminazione degli sprechi e di razionale utilizzo delle risorse;
d) i progetti obiettivo e le azioni programmate nell’arco del triennio;
e) le tematiche e le evidenze da affrontare prioritariamente;
f) i criteri di finanziamento e di accreditamento delle istituzioni sanitarie.
Il complesso dei provvedimenti conseguenti ai «decreti di riordino» adottati dal ministero Garavaglia, e confermati dai successori, tende a delineare un sistema entro il quale il cittadino esercita il proprio diritto di scelta tra soggetti erogatori pubblici e privati accreditati all’esercizio delle attività sanitarie e remunerati sulla base di tariffe predeterminate, in competizione governata tra di loro. I primi dati disponibili sembrano indicare una inversione di tendenza della spesa sanitaria, pur in presenza di un incremento numerico delle prestazioni. Ancora largamente insufficiente appare invece la messa a regime di un sistema di controlli e verifiche, capace di monitorare i soggetti erogatori, sulla base degli indicatori per rilevare la qualità delle prestazioni effettuate e la loro efficacia.
La messa a regime della riforma richiede la adozione di ulteriori atti normativi a completamento di quelli già adottati. Ciò suppone una coerente espressione di volontà politica del Parlamento ed una forte capacità di governo del sistema anche per evitare, come più volte è accaduto, che le forze politiche cerchino di esorcizzare le quotidiane fatiche della messa in opera della riforma a tutti livelli, proponendone il superamento.
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2.2. La spesa storica
Nel valutare i dati relativi alla spesa storica destinata alla sanità si deve necessariamente premettere che questi rappresentano aggregati finanziari utili a rappresentare i trend in correlazione alla evoluzione istituzionale del sistema ed agli atti di governo della finanza pubblica assunti annualmente.
Un’analisi del rapporto tra spesa sopportata dallo Stato e prodotto interno lordo consente di rilevare come le escursioni siano poco significative nell’arco di un ventennio. Detto rapporto si presenta progressivamente crescente fino al 1991 (6,58%), aumentando di un punto percentuale dal 1980 (5,44%) per poi decrescere dal 1992 (6,39%) al 1995 (5,56%) fino a tornare ai valori del 1980. Dati stimati da più fonti correlano a questi andamenti il trasferimento di quote di domanda dal settore pubblico a quello privato (quest’ultimo difficile da valutare in modo esatto). Se ne ricava la convinzione che la spesa non sia correlata ad eventi demografici, epidemiologici o istituzionali, ma funzione diretta dei provvedimenti di politica finanziaria adottati dal Governo in sede di bilancio dello Stato od espressione di eventi quali i rinnovi contrattuali del comparto. È evidente come un sistema ordinato per finanziare i costi delle strutture e non le prestazioni non possa che segnare rapporti spesa/prodotto interno loro sostanzialmente costanti.
Anche i dati del 1995, primo anno di introduzione del nuovo criterio di finanziamento delle aziende sanitarie e degli altri soggetti erogatori, non possono essere considerati diversamente da quelli dei precedenti, poiché quasi tutte le Regioni hanno utilizzato le tariffe solo per remunerare le prestazioni delle strutture private, mentre quelle pubbliche hanno continuato ad esporre il costo dei fattori produttivi. Peraltro anche sui disavanzi rilevati dalle diverse agenzie sarebbero alcune considerazioni in ordine alla attendibilità della consistenza, compresi quelli del 1995. Basterebbe verificare i titoli di debito a sostegno delle cifre esposte, per assistere ad un molto probabile ridimensionamento, in attesa che la introduzione della contabilità economico-finanziaria consenta di rilevare con la necessaria precisione gli
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effettivi costi del sistema.
Dalla relazione annuale della Corte dei Conti al Parlamento e dai Consigli regionali, dai dati forniti dal ministero della Sanità, nonché dalla relazione nella situazione economica del Paese 1995 emergono le seguenti considerazioni: dal 1979, anno di entrata in vigore del Servizio sanitario nazionale, al 1994, ultimo anno che precede il nuovo assetto del Ssn conseguente all’applicazione del D.Lgs. 502/92, è stato maturato un fortissimo disavanzo.
Per analizzare l’entità del disavanzo maturato per anno e per cercare di comprenderne le motivazioni è opportuno suddividere il periodo considerato (1979-1994) negli intervalli sottoindicati:
● Primo intervallo 1979-1984: in assenza del Piano sanitario nazionale non è possibile quantificare le risorse necessarie per far fronte agli obiettivi di assistenza sanitaria. I criteri di ripartizioni del Fondo sanitario nazionale (Fsn) tra le Regioni vengono modificati tre volte per tener conto sia della imperfetta conoscenza della spesa storica, sia dei vincoli strutturali che a tutti gli effetti bloccano i nuovi meccanismi di ripartizione; inoltre, i disavanzi sono totalmente a carico dello Stato (Tab. 1).
● Secondo intervallo 1985-1989: vengono fissati tetti per il finanziamento del Ssn all’interno della legge finanziaria; peraltro questi sono costantemente sottostimati, dando così origine ad ulteriori disavanzi gestionali, che a loro volta causano indebitamento a carico dello Stato.
Tab. 1. Disavanzo del Fondo sanitario nazionale nel periodo 1979-1984
Anni |
Fsn |
Disavanzo |
% dis/Fns |
1978-81 1982 1983 1984 |
51.707 25.710 28.500 34.000 |
1.450 1.707 3.844 2.26 |
2,8 6,6 13,5 36,6 |
TOTALE |
139.917 |
9.264 |
6,6 |
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Tab. 2. Disavanzo del Fondo sanitario nazionale nel periodo 1985-1989, secondo il ministero della Sanità e la Corte dei Conti
Anni |
Fsn |
Disavanzo Min. Sanità
|
Disavanzo Corte dei Conti
|
1985 1986 |
39.200 40.857 |
2.847 5.818 |
8.663 |
1987 1988 |
47.265 52.650 |
6.276 8.214 |
15.886 |
1989 |
57.711 |
7.737 |
7.757 |
TOTALE |
239.683 |
30.889 |
32.302 |
Il disavanzo medio nel periodo è pari al 12,9% per il ministero della Sanità, ed al 13,5% per la Corte dei Conti (Tab. 2).
La politica di contenimento basata sulla fissazione dei tetti posti alla spesa sanitaria (legge Finanziaria) dimostra una totale incapacità di perseguire l’obiettivo prefissato: in questo periodo la percentuale di disavanzo rispetto all’entità del Fsn risulta raddoppiata rispetto al periodo precedente. Si passa infatti dal 6,6% degli anni ‘79-‘84 al 13% circa degli anni ‘85-‘89. Si chiude con il 1989 il lungo periodo del ripiano dei disavanzi a pié di lista da parte dello Stato.
● Terzo intervallo 1990-1992: il disavanzo viene distinto in due parti: una corrispondente alla sottostima da parte dello Stato delle risorse finanziarie necessarie al Ssn (sottostima del Fsn) e pertanto a carico dello Stato stesso; l’altra parte imputabile alla non corretta gestione delle risorse da parte della Usl e quindi a carico delle Regioni (Tab. 3).
● Quarto intervallo 1993-1994: la differenza tra contributi sanitari stimati ed effettivi, ad integrazione del Fsn, rappresenta una nuova componente nell’analisi del disavanzo (Tab. 4). Indipendentemente dalle entità e dalle modalità di finanziamento,
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Tab. 3. Disavanzo del Fondo sanitario nazionale nel periodo 1990-1992, a carico dello Stato e delle Regioni, come rilevato da diverse fonti.
Anni |
Fsn |
Disavanzo |
||||||||||
|
|
Min.Sanit. |
Corte dei Conti |
Rel.Sit.Ec.1995 |
||||||||
|
|
|
Totale |
a carico Stato |
a carico Regioni |
Totale |
a carico Stato |
a carico Regioni |
||||
1990 |
64.716 |
13.002 |
16.234 |
13.436 |
2.807 |
- |
- |
- |
||||
1991 |
84.440 |
5.696 |
11.413 |
9.476 |
1.938 |
5.696 |
3.797 |
1.899 |
||||
1992 |
88.797 * |
3.33 |
9.068 |
6.130 |
2.938 |
3.033 |
|
3.033 |
||||
TOTALE |
237.953 |
21.731 |
36.724 |
29.042 |
7.683 |
|
|
|
* Nella relazione sulla situazione economica del Paese l'importo è pari a L. 88.959.
l’andamento della spesa (complessiva e ripartita per funzioni) è stata come riportato in Tab. 5.
Dai dati emergono le seguenti considerazioni:
― il contenimento della spesa è stato attuato con efficacia solo nei riguardi delle voci «Spesa farmaceutica convenzionata» e «Specialistica esterna convenzionata». In entrambi i casi la spesa è stata prevalentemente spostata sui cittadini e quindi trasferita all’esterno del finanziamento del Ssn;
― non vi è stato alcun contenimento della spesa sulle voci associate alle politiche di gestione (personale, beni e servizi, ecc.) che vengono attuate a livello locale.
2.3. Analisi del disavanzo a livello regionale
Un aspetto importante è l’analisi del comportamento delle diverse regioni rispetto alla spesa sanitaria. Questi dati infatti possono rappresentare un utile strumento per eventuali interventi programmatori. Secondo la Corte dei Conti nel periodo ‘90-‘94 il disavanzo complessivo maturato dalle regioni è di L. 51.192,3 miliardi. Nell’anno 1990 il disavanzo è pari a
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Tab. 4. Fondo sanitario nazionale e disavanzo negli anni 1993 e 1994 secondo diverse fonti
25
Tab. 5. Andamento della spesa sanitaria ripartita per funzioni nel periodo 1991-1994
(Vedi relazione sulla situazione economica del Paese 1995)
16.243 miliardi:
― 4 regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Campania) presentano disavanzi compresi tra 1.700 e 1.800 miliardi;
― 5 regioni (Veneto, Toscana, Puglia, Calabria, Sicilia) presentano disavanzi compresi tra 1.000 e 1.350 miliardi;
― le altre 12 regioni/prov. autonome presentano disavanzi al di sotto dei 600 miliardi.
Nell’anno 1994 il disavanzo complessivo viene sensibilmente ridotto a 7.745 miliardi:
― 1 regione (Lazio) presenta un disavanzo superiore a 1.000 miliardi;
― 3 regioni (Lombardia, Emilia Romagna, Sicilia) presentano disavanzi compresi tra 700 e 900 miliardi;
― 5 regioni (Veneto, Liguria, Toscana, Campania, Sardegna) presentano disavanzi compresi tra 400 e 700 miliardi;
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― le altre 12 regioni/prov. autonome presentano disavanzi inferiori ai 300 miliardi.
Appare evidente lo sforzo compiuto per comprimere il disavanzo, anche se tale impegno non è ripartito uniformemente ripartito (Tab. .6).
La Fig. 1 riporta una ripartizione delle regioni in gruppi, in funzione delle entità del disavanzo e della velocità di rientro, del disavanzo stesso.
Tab. 6. Disavanzi regionali negli anni 1990 e 1994 (in miliardi di lire)
1990 |
1994 |
Λ |
||
Piemonte |
606,0 |
297,0 |
-51% |
|
Valle d'Aosta |
53,0 |
22,0 |
-58% |
|
Lombardia |
1.802,0 |
744,0 |
-59% |
|
Bolzano |
73,0 |
157,0 |
+115% |
|
Trento |
76,0 |
129,0 |
+70% |
|
Veneto |
1.171,0 |
600,0 |
-49% |
|
Friuli Venezia Giulia |
148,0 |
220,0 |
+48% |
|
Liguria |
552,0 |
443,0 |
-20% |
|
Emilia Romagna |
1.705,0 |
880,0 |
-48% |
|
Toscana |
1.337,0 |
474,0 |
-65% |
|
Umbria |
235,0 |
112,0 |
-52% |
|
Marche |
580,0 |
370,0 |
-36% |
|
Lazio |
1.726,0 |
1.193,0 |
-31% |
|
Abruzzo |
307,0 |
43,0 |
-86% |
|
Molise |
45,0 |
25,0 |
-44% |
|
Campania |
1.770,0 |
452,0 |
-74% |
|
Puglia |
1.294,0 |
261,0 |
-80% |
|
Basilicata |
72,0 |
0 |
-100% |
|
Calabria |
1.070,0 |
130,0 |
-88% |
|
Sicilia |
1.60,0 |
854,0 |
-37% |
|
Sardegna |
270,0 |
407,0 |
+51% |
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Fig. 1. Ripartizione delle regioni italiane in gruppi in funzione dell'entità del disavanzo e della velocità di rientro dello stesso
N.B. i due numeri indicati sotto il nome della regione indicano:
● il primo, il disavanzo 1990 in miliardi
●il secondo, la riduzione %
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Gruppo A
Tre regioni, in presenza di un alto disavanzo iniziale, sono riuscite a conseguire una forte velocità di rientro: Campania, Puglia, Calabria.
Gruppo B
Due regioni presentano la stessa velocità di rientro anche se in presenza di un disavanzo più modesto in valore assoluto: Abruzzo, Basilicata.
Gruppo C
Quattro regioni, in presenza di un alto disavanzo iniziale, hanno conseguito una media velocità di rientro: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto. Tra queste la Toscana è quella che più si avvicina al Gruppo A.
Gruppo D
Cinque regioni, in presenza di un medio (Piemonte) e basso disavanzo hanno conseguito una media velocità di rientro: Piemonte, Sardegna, Umbria, Val d’Aosta, Molise.
Gruppo E
Due regioni, pur in presenza di un alto disavanzo, hanno conseguito una bassa velocità di rientro: Lazio, Sicilia.
Gruppo F
Due regioni in presenza di un medio disavanzo hanno conseguito una bassa velocità di rientro: Marche, Liguria.
Lo schema sopra indicato non vuole e non può tenere conto delle disomogeneità presenti tra le regioni per quanto attiene sia la dimensione demografica e territoriale, sia le diverse realtà economico-gestionali sia le modalità e la qualità delle prestazioni erogate. Vuole peraltro ricomporre in un confronto omogeneo quelli che paiono essere stati i comportamenti macroscopicamente seguiti delle Regioni, in presenza delle diverse entità di disavanzi iniziali (anno 1990).
Una analisi più puntuale consentirebbe di evidenziare in modo più specifico quali siano state le componenti di spesa che hanno determinato, regione per regione, la relativa velocità di rientro. Si può peraltro valutare quale sia la «posizione relativa» delle Regioni al termine dell’anno 1995, sulla base di due interessanti indicatori: la spesa pro-capite e l’incidenza del costo del personale per mille abitanti.
Assumendo un valore di spesa corrente stimato per il 1995
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di L. 96.641 miliardi, la spesa pro-capite stimata regione per regione è riportata in Tab. 7. Le regioni e province autonome che hanno incrementato il disavanzo negli anni 1990-1994 presentano nel 1995 una spesa media pro-capite nettamente superiore al livello medio italiano (Bolzano, Trento e Friuli).
Tab. 7. Spesa sanitaria stimata pro-capite nel 1995 per le singole regioni
Milioni pro capite |
|
Liguria |
1.958.000 |
Emilia Romagna |
1.923.000 |
Bolzano |
1.902.000 |
Friuli Venezia Giulia |
1.902.000 |
Marche |
1.854.000 |
Trento |
1.850.000 |
Lazio |
1.796.000 |
Toscana |
1.757.000 |
Veneto |
1.738.000 |
Umbria |
1.734.000 |
Valle d'Aosta |
1.730.000 |
Sardegna |
1.712.000 |
Italia |
1.691.000 |
Lombardia |
1.690.000 |
Sicilia |
1.629.000 |
Piemonte |
1.620.000 |
Molise |
1.614.000 |
Puglia |
1.566.000 |
Campania |
1.543.000 |
Abruzzo |
1.515.000 |
Calabria |
1.420.000 |
Basilicata |
1.404.000 |
Le regioni e province autonome che hanno incrementato il disavanzo negli anni 1996-1994 presentano nell’anno 1995 una spesa media pro-capite nettamente superiore al livello medio italiano.
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Unica eccezione la Sardegna, la quale, pur avendo aumentato il disavanzo, presenta una spesa media pro-capite praticamente coincidente con la media nazionale.
Le regioni che hanno operato con bassa velocità di rientro negli anni 1990-94 si sono trovate nell’anno 1995 con elevata spesa pro-capite (Liguria, Marche, Lazio). Unica eccezione di questo gruppo è la Sicilia, la quale, pur avendo ridotto il disavanzo in modo non sostenuto, presenta una spesa procapite inferiore alla media nazionale.
L’Emilia Romagna in presenza di un forte disavanzo iniziale, pur avendo una velocità di rientro «media», presenta una spesa media pro-capite molto elevata. Analoga considerazione, seppur attenuata, vale per la Toscana ed il Veneto.
Le Regioni meridionali presentano in generale una elevata velocità di rientro nel periodo 1990-94 ed una spesa media pro-capite inferiore a quella nazionale.
Se si analizza la spesa per il personale, che rappresenta mediamente il 40% della spesa complessiva, disaggregata a livello regionale, si ottengono i dati riportati nelle Tabb. 5 e 8 (anno di riferimento 1994). Le regioni del centro-nord Italia guidano la classifica in termini di incidenza del costo del personale per 1.000 abitanti. Ad esse corrisponde una velocità di rientro da media a bassa. Peraltro il costo del personale non è una voce che può sempre spiegare i motivi del disavanzo; vedi ad esempio la regione Lazio. Appare pertanto evidente che sarebbe necessaria un’indagine più analitica per comprendere, regione per regione, le motivazioni del disavanzo e della sua difficile riduzione.
3. La gestione delle Aziende sanitarie: alcuni problemi
La grande difficoltà, che emerge a livello nazionale, nella conciliazione delle diverse voci di spesa e dei relativi finanziamenti, nonché nella individuazione delle effettive dimensioni del disavanzo, è indicativa della limitata capacità di controllo che può essere esercitata all’interno dei sistemi complessi, quando questi siano amministrati con la sola contabilità finanziaria. Infatti per conoscere i costi effettivi è indispensabile
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-
Spesa pers./1.000 abit
(migliaia di lire)
Spesa personale
(miliardi)
Abitanti
(migliaia)
Umbria
862
693
804
Emilia Romagna
829
3.232
3.899
Marche
816
1.166
1.428
Toscana
810
3.510
2.844
Liguria
767
1.295
1.668
Veneto
756
3.297
4.343
Molise
744
244
328
Abruzzo
708
881
1.244
Calabria
680
1.386
2.038
Piemonte
671
2.877
4.290
Lombardia
633
5.591
8.831
Campania
616
3.444
5.590
Lazio
605
3.044
5.031
registrare le componenti economiche dei bilanci per «natura di spesa», evidenziando i costi inerenti l’attività dell’azienda. Tali costi devono essere imputati al momento dell’utilizzo delle risorse che hanno generato il costo stesso.
Per giungere ad un effettivo controllo dei costi, e quindi della spesa, è pertanto indispensabile che le Aziende sanitarie accelerino il passaggio dalla contabilità finanziaria a quella economico-patrimoniale. È necessario ribadire che il controllo della spesa non è possibile senza il controllo dei costi; viceversa, con il controllo dei costi si ha quasi naturalmente il controllo della spesa.
Nonostante il D.Lgs. 502, e sua successiva modifica con il D.Lgs. 517, abbia vincolato le Regioni e le Aziende sanitarie ad adottare tempestivamente la contabilità economico-finanziaria,
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ciò non è ancora accaduto. Il ritardo maturato su questo argomento, da parte di tutte le Regioni, ha notevolmente limitato la possibilità di muovere i primi passi verso un efficiente controllo di gestione, con la conseguenza che non è ancora possibile conoscere con chiarezza la situazione economica delle Aziende sanitarie ed, a maggior ragione, elaborare il «bilancio consolidato» della sanità a livello regionale.
Ciò porterà certamente ad un disavanzo di gestione anche per l’anno 1996, anche se l’entità risulterà probabilmente inferiore a quella maturata gli anni precedenti, per effetto di una maggiore attenzione posta dai direttori alle diverse voci di spesa.
Come per le Aziende sanitarie, così anche per le Regioni deve essere accelerato il processo di acquisizione del know-how necessario per elaborare i bilanci regionali, che consolidano i conti economici delle Aziende sanitarie controllate. Dal bilancio regionale emergerà la corretta misura dell’avanzo o del disavanzo regionale, come somma dei risultati delle singole Aziende sanitarie locali e dei costi della gestione regionale.
Il monitoraggio continuo dello stato di avanzamento di questo processo di trasformazione contabile a livello delle Regioni e delle rispettive Aziende sanitarie sarebbe un utile strumento di misura della velocità di evoluzione del sistema sanitario verso gli obiettivi individuati dalle norme di riordino (D.Lgs. n. 502/517). Tale monitoraggio potrebbe essere effettuato in tempi brevi.
L’introduzione di strumenti «tecnici», come la contabilità economica per centri di costo e la contabilità patrimoniale con il sistema del reddito a livello di bilancio consolidato, redatto secondo il dettato comunitario, non basta tuttavia di per sé a creare le condizioni per un radicale miglioramento della gestione degli ospedali pubblici e degli altri servizi come aziende .
La modalità di redazione del bilancio di una azienda sanitaria, infatti, non può essere vista come soluzione ai molti problemi organizzativi ed economici sottostanti. Se è vero, da un lato, che l’individuazione di metodi per la determinazione
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dei costi e delle prestazioni può aiutare ad assumere decisioni di programmazione, disinvestimento o investimento in alcune particolari aree aziendali, dall’altro la stesura di un bilancio, per quanto corretto, di per sè sola non è sufficiente ad aggredire una realtà che presenta problemi di natura strutturale nell’organizzazione. Infatti, non vi è chi non veda la necessità di assicurare «leve operative» ai Direttori generali (e agli eventuali e auspicati Consigli di Amministrazione) per gestire quello che, in ordine di priorità, costituisce il problema principale per le strutture sanitarie: il personale, cioè circa il 40% dei costi. E importante riportante gradualmente elementi di managerialità organizzativa ed economica in strutture che per alcuni decenni non hanno tenuto in alcun conto questo elemento, se non nelle condizioni ― rare ― di scarsità di risorse.
L’introduzione di managerialità a livello organizzativo richiede almeno tre fattori fondamentali: coinvolgimento nel risultato, e quindi corresponsione di incentivi individuabili e selettivi; capacità di assumere decisioni, e quindi ambiti decisionali e di responsabilità per quadri e dirigenti; unità operativa tra personale amministrativo, sanitario e organizzazione del personale, per una gestione delle risorse più razionale ed economica.
Per queste tre necessarie trasformazioni risulta indispensabile intervenire ulteriormente sulle strutture con un processo di riforma:
a) il Direttore generale, organo dell’Azienda sanitaria, non può essere lasciato a gestire il rapporto con il personale, ma deve essere affiancato da organi o strutture capaci di manifestare gli orientamenti e le volontà di indirizzo politico-economico delle strutture e del Ssn;
b) devono essere individuati percorsi che consentano di incentivare selettivamente i collaboratori e di fare assumere responsabilità dirette ai vertici non solo di tipo specifico (sanitario), ma anche di tipo economico;
c) occorre rimuovere barriere contrattuali e ruoli codificati, utilizzando anche processi di informatizzazione, per modificare l’organizzazione interna e costituire gruppi orizzontali
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di responsabilità-obiettivo intorno ai principali servizi, usufruendo della mobilità del personale e della riqualificazione in ruoli diversificati.
Come elemento integrante della riorganizzazione manageriale, la gestione di economato e provveditoria d’acquisto deve essere gestita in chiave economicistica, ricercando alleanze territoriali con le altre aziende sanitarie, costituendo gruppi d’acquisto e ottimizzando la gestione finanziaria e dei pagamenti. Pur non avendo relazione diretta con la metodologia di redazione del bilancio, l’acquisto di beni e servizi deve essere disincrostato dalle pesanti influenze pubblicistiche. Queste, anziché favorire la trasparenza come si suppone dovrebbe essere grazie alle procedure ad evidenza pubblica, contribuiscono attivamente a rallentare la gestione delle priorità, gli acquisti e la logistica delle merci e dei beni strumentali, costituendo di fatto un vincolo di improduttività perle strutture (non sempre sgradito: si pensi, ad esempio, all’inefficienza delle strutture sanitarie in relazione all’esistenza di strutture private).
È infine opportuno ricordare che due sono i meccanismi di finanziamento presenti nel Ssn: la quota capitaria ed il rimborso a prestazione (per le prestazioni di ricovero Drg, nomenclatore tariffario per le prestazioni ambulatoriali). Questi operano in modo volutamente contrapposto. Infatti, mentre la quota capitaria induce comportamenti orientati a limitare il numero delle prestazioni effettuate ad ogni paziente, il rimborso a prestazione induce le Aziende ospedaliere pubbliche e le strutture private accreditate ad aumentare la propria capacità di attrazione dei pazienti della Usl stessa o di quelle limitrofe, allo scopo di incrementare le prestazioni e quindi i ricoveri.
Il vero obiettivo della quota capitaria è che il paziente si mantenga o sia mantenuto il più sano possibile, riducendo la necessità di accedere ai diversi servizi sanitari forniti dalla Usl; viceversa, il rimborso a prestazione contiene al suo interno un meccanismo di dilatazione dell’assistenza sanitaria fornita, tanto più pericoloso quanto più è innegabile il meccanismo di incremento della domanda tramite un incremento dell’offerta. Per evitare che le prestazioni offerte dalle strutture
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sanitarie autonome, pubbliche o private, crescano a dismisura, il legislatore ha posto un limite alle capacità di spesa della Usl, che è tenuta a rimborsare tali prestazioni secondo le tariffe previste dal Drg (prestazioni di ricovero) o dal nomenclatore tariffario (prestazioni ambulatoriali). Tale limite alla capacità di spesa della Usl viene introdotto con il finanziamento per quota capitaria. Il Direttore generale della Usl, per rimanere all’interno della quota capitaria, dovrà limitare il numero delle prestazioni fornite ai suoi assistiti, prima da parte dei presidi non della Usl e poi anche da parte dei propri. Egli dovrà inoltre limitare l’entità del finanziamento speso in regime di ricovero per incrementare la quota destinata al territorio, favorendo la deospedalizzazione e la medicina di distretto. Tutto ciò comporta la definizione di chiari obiettivi e la possibilità di perseguirli gestendo correttamente le risorse umane e tecnologiche di cui si dispone. Sfortunatamente, ciò non è ancora possibile nelle Aziende sanitarie: esse soffrono di vincoli, propri del servizio pubblico, del tutto incompatibili con la dichiarata natura aziendale della Usl e dell’Ospedale.
Più in generale deve essere demandata al Direttore generale una maggiore responsabilità gestionale con i relativi poteri; ad oggi le responsabilità sono rilevanti, ma i poteri sostanzialmente limitati da un passato burocratico che blocca il processo di rinnovamento.
4. Un piano pluriennale per gli investimenti
L’adozione del bilancio economico-patrimoniale comporta anche l’individuazione e la valorizzazione di tutti i beni mobili ed immobili, ivi comprese le attrezzature, delle Usl e degli Ospedali.
L’art. 5 del D.Lgs. 502 trasferisce alle Usl ed alle Aziende ospedaliere il «patrimonio dei comuni o delle province» che hanno «vincolo di destinazione alle Usl».
Il finanziamento del patrimonio avviene con le voci di ammortamento annuale che entrano nel conto economico dell’azienda, come un costo, e vanno a sommarsi in un Fondo
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calcolato nello stato patrimoniale. Si evita così che venga consumato il patrimonio originario, poiché l’accantonamento annuale, conferito nel Fondo, consente di riacquistare il bene al termine della sua vita.
Nella grande maggioranza dei casi i beni immobiliari sono molto vecchi e malamente conservati. Infatti i finanziamenti in conto capitale sono fortemente diminuiti negli ultimi anni: ma anche l’entità dei fondi stanziati negli anni precedenti era comunque inadeguata.
Secondo una stima ragionevole, è opportuno stanziare per investimenti in sanità non meno del 4-5% del valore dei ricavi complessivi, cioè circa 4.000-5.000 miliardi/anno. Invece, gli stanziamenti in conto capitale sono stati, nel passato, mediamente compresi tra i 1.500 ed i 2.000 miliardi; negli ultimi anni il valore è incredibilmente disceso sotto i 1.000 miliardi. Ben si comprende come, in presenza di tali stanziamenti, i beni patrimoniali abbiano via via accelerato la loro decadenza.
Per sopperire a tale stato di cose fu variata nel 1988 la legge n. 67 che, all’art. 20, prevede uno stanziamento straordinario di 30.000 miliardi, in dieci anni, destinato anche alla ristrutturazione/rifacimento dei presidi ospedalieri obsoleti. L’inefficienza della macchina burocratica regionale e ministeriale ha diluito nel tempo l’utilizzo di tali fondi, il cui scopo era peraltro di ripristinare i valori patrimoniali così fortemente decaduti e non di supplire alla carenza del finanziamento annuale in conto capitale. I due fondi, quello straordinario e quello annuale in conto capitale, sono stati viceversa confusi tra loro: ad un aumento del primo è corrisposta una riduzione del secondo. Di conseguenza gli stanziamenti complessivi sono risultati del tutto inefficienti.
Si deve ritenere che la tariffa forfettaria per le prestazioni effettuate negli ospedali (Drg), sia stata calcolata tenendo conto delle voci di ammortamento degli strumenti necessari per effettuare tali prestazioni; non si sono però avute conferme ufficiali in tal senso. La tariffa infatti tiene conto dell’ammortamento delle apparecchiature medicali e degli arredamenti in genere, ma non del fabbricato, il cui peso economico è rilevante.
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Non pare corretto procedere in questo modo; è indispensabile che venga fatta luce sui valori del patrimonio, sull’entità dei finanziamenti necessari per ripristinare appieno la sua funzionalità, nonché sugli investimenti annuali che devono essere reperiti tramite una corretta gestione economica e finanziaria dell’Azienda.
Essendo in presenza di prezzi amministrati, è opportuno inoltre stabilire quale parte degli investimenti debba essere eventualmente finanziata a livello regionale e quale parte debba esserlo tramite una corretta valutazione delle tariffe delle prestazioni erogate.
5. Conclusioni
Le trasformazioni culturali e del quadro epidemiologico di questi ultimi anni ― nei quali peraltro si sono succedute diverse fasi di revisione del Ssn ― sembra non abbiano influenzato i processi decisionali; sono state piuttosto le esigenze della finanzia pubblica a determinarli. Si deve osservare, tuttavia, come anche le stesse logiche economiche siano state contraddette dalla maggior parte dei procedimenti adottati. Infatti si può contenere la spesa solo se sono conosciuti i costi del comparto; tale obiettivo non è stato ancora raggiunto, come più sopra indicato.
L’esigenza di collegare il bisogno con i finanziamenti necessari ha trovato attenzione solo con il Piano sanitario nazionale ‘94-96 e con le riforme strutturali del periodo ‘92-93. Oggi è possibile constatare come una corretta programmazione abbia permesso di controllare per la prima volta nella storia recente del paese ― almeno in maniera parziale ― gli scostamenti tra costi previsti e spesa reale.
La strada però per una programmazione razionale del Ssn è ancora lunga e, purtroppo, ancora troppo spesso caratterizzata da incertezze politiche (ogni governo pretende di rivedere ex novo anche ciò che è già stato adeguatamente normato).
Il nodo centrale è rappresentato dalla non completata (anche perché talvolta non condivisa!) gestione «aziendale» delle Asl e degli Ospedali azienda. Per raggiungere questo obiettivo
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sono necessarie:
a) una profonda adesione culturale degli addetti sia sanitari che amministrativi al nuovo modello;
b) una organizzazione dei servizi e delle strutture che riconosca nell’aspettativa di salute dei cittadini il criterio fondamentale per definire i livelli di qualità sia oggettiva che percepita;
c) una comunicazione interna ai servizi ed esterna che coinvolga, sugli obiettivi comuni, sia il personale sia il cittadino cliente-utente);
d) una radicale modificazione dei rapporti contrattuali;
e) infine, una generalizzata informatizzazione in grado di monitorare continuamente gli obiettivi aziendali quanto al grado di attuazione, ai costi, alle razionalizzazione della rete, ecc.
Il modello aziendale così realizzato indurrebbe una indispensabile modernizzazione del sistema, che armonizza i diversi interessi fino ad oggi contrapposti o concorrenti (ad esempio: autonomia del medico e controllo della sua attività; estraneità dei servizi amministrativi rispetto all’attività dei sanitari; definizione dei bisogni e input epidemiologici; ecc.). È compito della politica sviluppare azioni che portino al punto di equilibrio, fondato su prospettive strategiche che superano le scelte tecniche.
Ci si chiede a questo punto se la figura del direttore generale, gestore monocratico delle Aziende sanitarie territoriali e ospedaliere sia adeguata a svolgere anche funzioni di indirizzo e di programmazione (politiche), oltre che di amministrazione. L’attuale ruolo del direttore generale esemplifica le contraddizioni irrisolte nel processo di controllo della spesa e di aziendalizzazione: gli si richiede infatti di essere manager, avendo a disposizione risorse finanziarie ed umane decise in altra sede. D’altro canto, le sue scelte si riversano su un territorio del quale difficilmente conosce i bisogni e il livello di consenso rispetto agli interventi operati.
È oggi necessario intervenire la tendenza di far discendere le scelte da un centro che opera prevalentemente attraverso strumenti finanziari, per rendere determinante il ruolo delle aziende territoriali (Asl e Ospedali). L’organizzazione distrettuale ―
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sempre descritta e mai attuata ― è la sede privilegiata per far incontrare i due flussi (quello finanziario e quello delle decisioni operative), incontro che si deve sviluppare anche a livello di tutti gli altri servizi.
La Regione rappresenta la sede istituzionale per le decisioni politiche di indirizzo e programmazione; tuttavia l’ordinamento non ha chiarito come avvenga il processo decisionale che tenga conto dei bisogni reali, spesso complessi, oltre che delle proposte tecniche. D’altra parte, la consapevolezza che non tutte le procedure sanitarie sono dotate di provata efficacia induce a ritenere importante il ruolo di un organo che sappia valutare gli outcome ottenibili e quindi indicare una priorità delle scelte. Su quale sia lo strumento più idoneo il dibattito è ancora aperto e ― nonostante la retorica antipartitica per cui non si vogliono costituire organi politici collegiali ― si deve ricordare che non vi è alcuna Azienda seria priva di un organo ― diverso dal direttore generale ― che compia le scelte strategiche. Nel nostro caso l’identificazione del bisogno, che dalla mediazione con il valore della quota capitaria determina la qualità e la quantità dei servizi.