- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
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- La formazione del personale delle aziende sanitarie
- Trapianti ed equità nel ridisegno dello stato sociale
- Formarsi alla nuova sanità
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
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- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- La cultura del limite nell'agire medico: quando meno è meglio
- Is prevention an ethical problem?
- EBM e EBN: interrogativi etici
- Problemi etici in una sanità aziendalizzata
- Quale mediazione etica tra domanda e offerta nella sanità
- L'azienda sanitaria e i malati
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- Leggi di mercato ed etica professionale
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- L'umanizzazione del servizio assistenziale
- L'umanizzazione dell'ospedale
- Il limite: economia, etica, ascetica
- Limiti e qualità in medicina
- L'ospedale è un luogo etico?
- Il processo di cambiamento nella sanità italiana
- Salute oggettiva, salute percepita e benessere
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- Problemi di giustizia in sanità nell'orizzonte della bioetica
- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- L'ospedale del futuro sarà un luogo etico?
- L'etica della prevenzione
- Etica della prevenzione tra diritto individuale e dovere collettivo
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- Il cittadino, il medico e l'Aids
- AIDS la sindrome misteriosa
- Il malato di tumore in Lombardia
- Questioni etiche in oncologia
- Miglioramento della qualità
Sandro Spinsanti
L’UMANIZZAZIONE DEL SERVIZIO ASSISTENZIALE:
IL RUOLO DELL'ETICA NEI NUOVI ASSETTI ISTITUZIONALI
in Responsabilità economica e umanizzazione dell'assistenza. Il Caposala nel processo di cambiamento istituzionale e organizzativo
Atti 5° Congresso Nazionale del Coordinamento Nazionale dei Caposala
Rimini, 11-12 maggio 1995
pp. 29-35
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1. Stagioni dell’etica in medicina
La pratica della medicina è cambiata più velocemente negli ultimi trenta anni che in tutti i 25 secoli precedenti. Il cambiamento ha avuto delle ripercussioni importanti anche su quel complesso di regole e norme che strutturano i comportamenti di tutti i protagonisti dell’azione sanitaria, che possiamo in modo sommario designare come “etica medica”. Lentamente sta emergendo una cultura diversa, molto innovativa rispetto a quella che era stata comune a tutto l’occidente per tanti secoli. Se c’è un modello che ha dato grande prova di resistenza nel tempo, è proprio quello dell’etica medica. Medici e pazienti erano fondamentalmente contenti di questo modello, nato in Grecia tra il VI e il V secolo avanti Cristo. È il modello ippocratico, che si rispecchia sostanzialmente nel giuramento.
In estrema sintesi, questo modello afferma che tra colui che offre il servizio alla salute e tra colui che lo riceve si stabilisce un patto: il medico si impegna ad essere una specie di buon padre (se del caso, anche una buona madre...); di curare il malato e prendersi cura di lui, mettendo il massimo della sua scienza a servizio del paziente. Le risorse che utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione. Ma qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente, mentre questi si obbliga ad essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale.
Questo modello può essere trascritto in una sola espressione molto evocativa: è un’“alleanza terapeutica” tra colui che mette il suo potere e sapere al servizio del bene della salute e colui che questo servizio riceve. Il contraente dell’alleanza, che è il malato, si deve affidare e accettare le condizioni; il medico lo guida verso il suo bene. Non ha bisogno di spiegargli quello che fa. Il malato deve solo affidarsi docilmente ed esercitare la compliance. Il medico, il quale sa per esperienza che i pazienti tendono a non essere compiacenti, nel senso che non osservano le prescrizioni, deve cercare di indurli all’osservanza, magari convincendoli proprio come la fatina con Pinocchio, che gli fa mandare giù la medicina amara, perché quello è il suo bene.
Questo modello, che è stato per secoli la cornice etica entro cui ha avuto luogo l’esercizio della medicina, costituisce ancora per molti medici e per molti cittadini l’unico modello di riferimento. La grande novità, dalla fine degli anni ‘60 in poi, è stata la rimessa in discussione di questo modello.
La medicina si è trasformata ed è diventata moderna. Anche in medicina l’ultimo avamposto del paternalismo benevolo ― vale a dire, di qualcuno che
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pensa quale sia il bene per l’altro e glielo procura ― sta crollando. Quali uomini “moderni”, ci viene chiesto di prendere le decisioni circa la salute che ci riguardano. Nasce così un nuovo tipo di cittadino-paziente, che ha il diritto e il dovere di entrare in modo consapevole e responsabile nelle decisioni cliniche.
Il principale caposaldo del nuovo modello di rapporto, promosso dalla bioetica, è il “consenso informato”. Non si può imporre una terapia, degli esami diagnostici e tanto meno una operazione, se il paziente non è d’accordo. Il paziente deve quindi essere informato e va sollecitato un consenso esplicito. È un rapporto completamente diverso, più difficile, in quanto responsabilizza il paziente. Questi è chiamato a entrare nel rapporto terapeutico come colui che deve poter decidere insieme al medico.
Quando esiste una pluralità di scelte, allora il modello paternalista tradizionale diventa fragile. È quindi necessario coinvolgere il paziente, affinché positivamente possa fare la scelta più in sintonia con i valori soggettivi. L’autodeterminazione, che è il valore fondamentale della modernità in base al quale possiamo e dobbiamo decidere noi le cose che ci riguardano, è lo scenario della medicina che è entrata nell’epoca moderna. Questo è il modello di esercizio della medicina che la bioetica intende promuovere.
Il paradosso è che noi non siamo ancora entrati nell’epoca moderna ― anzi, sia come sanitari che come pazienti facciamo un’enorme difficoltà a sintonizzarci sulla nuova lunghezza d'onda ― e già siamo chiamati a entrare nell’epoca post-moderna. In cinquant'anni siamo chiamati a cambiare non una ma due volte il modello fondamentale del rapporto medico-paziente. Perché anche il secondo modello che si va delineando con tante difficoltà nella nostra società è superato da quello che è alle porte.
In parte la novità è già iniziata, almeno a livello legislativo. Infatti è già legge la revisione del Servizio sanitario nazionale (D.L. 502, aggiornato in 517). Questa è una nuova impostazione, che modifica i rapporti fondamentali sottostanti all'erogazione del servizio della salute ai cittadini. Il riferimento è al “modello azienda”, che dovrà regolare il funzionamento sia dei principali ospedali, sia delle USL.
Azienda non è semplicemente una nuova targa da mettere fuori della porta. Cambiano profondamente i rapporti. Lo stile azienda in sanità comporta importanti innovazioni. Nell’azienda i sanitari saranno chiamati a rendersi corresponsabili del contenimento dei costi e dell’evitare gli sprechi. Nell’azienda il medico e gli altri sanitari dovranno essere direttamente coinvolti per raggiungere i risultati di pareggio di bilancio.
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Di conseguenza, cambierà anche il rapporto con il paziente. Anche in sanità si dovrà adottare la preoccupazione fondamentale di ogni buona azienda. La regola fondamentale dell’azienda è di mirare ad avere i clienti soddisfatti, consolidati e fedeli all’azienda. Questo è il cambiamento di scenario che avremo domani. In quanto azienda, dovremo essere interessati ad avere clienti soddisfatti.
Certo, la prima preoccupazione dovrà essere quella che i malati siano guariti. È il modello tradizionale: guai se lo buttassimo a mare! La prima cosa in ordine di importanza rimane l’orientamento a fare il bene del paziente. In secondo luogo, la preoccupazione dell’epoca moderna: pazienti rispettati nei loro diritti, coinvolti nelle scelte, trattati come adulti e non come minorenni incapaci di decidere le cose che li riguardano. Ma già si affaccia il terzo modello: bisogna avere dei pazienti soddisfatti. Questo obiettivo apre una nuova stagione dell’etica in sanità, modificando profondamente i comportamenti di tutti i professionisti che vi lavorano.
2. Qualità, soddisfazione ed etica
La preoccupazione per la soddisfazione del paziente/cliente porta nella sanità un punto di vista che è fondamentalmente estraneo alla tradizione dei criteri di qualità dell’atto medico, così come è stata concettualizzata dall’etica medica. Se i professionisti della sanità stentano a farlo proprio, non si tratta solo della comprensibile resistenza di chi è indotto a muoversi al di fuori di un paradigma comportamentale familiare. Adducono anche delle buone ragioni, riconducibili alla preoccupazione di tutelare il paziente da ciò che potrebbe essergli nocivo e di promuovere il suo bene nel modo che la scienza medica e le conoscenze professionali di coloro che si dedicano all’assistenza ritengono appropriato. «Ho il dovere morale ― protesta il medico ― di proporre al paziente la procedura terapeutica che risponde più efficacemente al suo problema di salute, non quella che riscuote di più la sua soddisfazione. Il bene del paziente è, secondo l’etica che ispira da sempre la medicina, l’imperativo che domina su tutti gli altri. L’amministratore dell’ospedale, per esempio, è più soddisfatto se prescrivo un farmaco meno costoso. Ma se io so che quello più costoso è più benefico per il paziente, mi avvarrò della libertà di prescrizione terapeutica, indipendentemente dalla soddisfazione di terze parti». Un professionista di nursing geriatrico, a sua volta, può obiettare: «Io so che il mio paziente è più contento se gli risparmio il bagno, ma non farei un nursing corretto se non inducessi l’anziano a fare il bagno almeno due volte la settimana. Il mio anziano, inoltre, non prova lo stimolo della sete e non vuole bere: ma posso responsabilmente fargli correre il rischio della disidratazione,
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per avere un cliente soddisfatto?»
Se dall’aneddotica passiamo a livello teorico, ci rendiamo conto che la preoccupazione per il beneficio da procurare al paziente è il pilone portante dell’etica medica tradizionale. Il professionista sanitario ispira i suoi interventi in modo esclusivo al “bene del paziente” (Pellegrino e Thomasma, 1992): questo è il senso e la finalità intrinseca dell’atto medico. Nel giuramento di Ippocrate ― il documento più antico a cui si ispira il tradizionale “ethos” medico ― i confini etici dell’atto medico sono concisamente descritti dalla cosiddetta “clausola terapeutica”: «Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa».
Per cogliere il significato che questa concezione può rivestire anche per gli uomini del nostro tempo, possiamo riferirci alla versione modernizzata che è stata redatta in occasione del “Processo a Ippocrate” organizzato nell’ambito di Milano-medicina del 1988. Un comitato di esperti ha così riformato la “clausola terapeutica”:
«Eserciterò la mia arte secondo un sapere che mi impegno ad accrescere costantemente, e prescriverò farmaci secondo un giudizio che manterrò puro e retto, e che mi guiderà nello scegliere quei rimedi che sicuramente si siano dimostrati giovevoli.
Non farò della mia arte ingiusto lucro, né anteporrò alcun interesse a quello del malato, nemmeno se richiesto dal potere di chi amministra e governa la cosa pubblica».
Dal confronto con l’originale ippocratico emerge la sostanziale continuità nell’orientamento al bene del paziente come giustificazione dell’atto medico.
Gli elementi costituitivi del rapporto che lega il professionista sanitario al paziente/cliente sono l’asimmetria dei rapporti (tra di loro non si stabilisce un contratto bilaterale tra uguali, ma piuttosto un’“alleanza terapeutica”, con forti connotazioni religiose); subalternità del malato (in merito all’atto terapeutico il malato non ha propriamente niente da dire, è chiamato a strutturare l'atto medico solo fornendo i sintomi, di cui il sanitario interpreterà il messaggio: non è il malato che parla, ma i sintomi che si prestano alla lettura); ruolo pilota della scienza (il medico è impegnato ad accrescere sempre di più il proprio sapere); controllo fornito dalla coscienza e dal senso di responsabilità del medico (di cui la formuletta compendiosa “in scienza e coscienza”, solitamente utilizzata per tagliar corto nei lunghi discorsi sulle dimensioni etiche della pratica della medicina).
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Questa concezione così lineare dell’atto terapeutico, che è giunta fino a noi attraverso i secoli sostanzialmente immutata, sta attraversando un processo di trasformazione di grandi conseguenze. La medicina moderna è stata costretta a diventare sensibile ai valori del paziente. Questi non accetta più la posizione di “minorenne non emancipato” che il modello paternalistico di esercizio dell'arte sanitaria gli riservava. La pratica del consenso informato deriva dall’accettazione del principio dell’autonomia dell’individuo, in quanto soggetto capace di determinare i propri fini. Non è buono l’intervento sanitario o sociale che non consideri l’adulto come adulto, con il suo diritto/dovere di partecipare all’atto medico ed eventualmente di circoscriverlo entro i limiti stabiliti nell’esercizio dell’autonomia personale.
Ciò è tanto più vero, forte e dirompente nello stato attuale del progresso medico. Oggi la medicina dispone di un arsenale terapeutico molto vario e aperto su diversi esiti. È proprio là dove esiste una pluralità di scelte che i valori del paziente diventano rilevanti. Ciò che il paziente intende come salute, benessere, vita buona ― di conseguenza, i suoi obiettivi etici ― deve entrare strutturalmente nell’atto medico. La soddisfazione del paziente diventa un elemento intrinseco della qualità etica di un intervento sanitario, quando si riferisce al rispetto dei valori che costituiscono l’universo morale entro cui egli costruisce la sua vita (ovvero, la sua “ricerca della felicità”).
Legare la qualità etica dell’atto medico ai valori del paziente non rischia di scardinare i criteri tradizionali? Se il professionista sanitario subordina la sua azione alla soddisfazione del paziente, non potrebbe diventare a sua volta subalterno a questi, senza alcuna possibilità di distinguere tra bisogni, desideri e magari anche capricci? Il pericolo paventato è quello che le professioni della salute decadano a livello di agenzie di servizi (per le quali il cliente ha sempre ragione...: un atteggiamento che possono adottare perché ciò che è in gioco si situa infinitamente al di sotto di beni quali la salute o la vita stessa).
Di fronte a questi interrogativi e timori costituisce un punto di riferimento rassicurante la strumentazione concettuale che fornisce la riflessione bioetica contemporanea. Questa ci aiuta a distinguere due livelli: del “minimo morale” e del “massimo morale” (Gracia, 1992).
I minima moralia delineano quel livello al di sotto del quale non si può scendere, se non vogliamo che la società smarrisca i suoi tratti minimi essenziali di umanità. Il minimo morale non è legato al consenso, né alla soddisfazione. Anche se, per ipotesi, la maggioranza si accordasse su certi comportamenti o politiche che offendono i principi che tutelano il minimo morale,
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non potrebbe addurne il consenso come prova di legittimità. Questo vale, per esempio, per comportamenti ritenuti giusti in alcune epoche (come l’approvazione della schiavitù) o da certi regimi (l’eutanasia praticata dai medici sotto il nazismo). La maggioranza degli attori sociali ― per esemplificare ancora ― potrebbe ritenere economicamente vantaggioso e umanamente più conforme alla dignità non tenere in vita le persone in coma vegetativo permanente, ma queste scelte cadrebbero sotto il minimo morale (purché si sia stabilito in modo incontrovertibile che abbiamo ancora a che fare con persone umane), qualunque sia la soddisfazione di coloro che le prendono.
I principi a guardia del minimo morale sono quelli di giustizia e di non-maleficità. Il primo richiede che tutti siano trattati con uguale considerazione e rispetto, senza privilegiare qualcuno a danno di altri. Il secondo ― che è un principio basilare nell’etica medica; è stato per lo più formulato come “primum non nocere” ― impedisce di procurare danni, anche se, paradossalmente, la persona fosse consenziente o addirittura lo richiedesse.
Al secondo livello troviamo i “massimi morali”, ovvero quei modi di organizzare la vita morale che dipendono dai valori soggettivi e trovano espressione nelle varie comunità morali di appartenenza (è quello che, per esempio, fa un testimone di Geova diverso da un musulmano, un cittadino educato in senso individualista e liberista da un altro che mette al primo posto i valori familiari e le reti di appartenenza). I principi di autonomia (o autodeterminazione) del paziente e di beneficità (orientare il corso dell’azione verso il miglior vantaggio del paziente/cliente) regolano i conflitti in questo livello.
L’orientamento alla beneficità tutela la qualità professionale dell’azione sanitaria. Il professionista ha appreso, con le regole dell’arte, quali sono le risposte efficaci ai bisogni che gli vengono presentati. La formazione che ha ricevuto lo autorizza a ritenersi qualcuno che “knows best”. Il pericolo è quello di ridefinire i bisogni del paziente/cliente, facendoli rientrare nei propri schemi, che possono anche non essere più illuminati o adeguati (che il pericolo incomba anche nel campo degli interventi sociali ce lo ricorda il film di Ken Looch, Ladybird ladybird).
Il rispetto dei valori soggettivi del paziente/cliente, che ha il diritto di costruirsi la sua “buona vita” secondo il modello di massimo morale a cui aderisce, oggi richiede che i professionisti dei servizi sociali e sanitari creino nuovi spazi per la contrattazione. Presupposto fondamentale è quell’ascolto del paziente che gli permetta di partecipare alle scelte sulla base non solo dei suoi bisogni somatici, ma anche delle sue aspettative, preferenze morali,
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orientamenti di vita. Non stupisce che il paziente che si senta ascoltato, in senso pieno, sia anche più soddisfatto. In questi casi almeno nei servizi sanitari, qualità etica, capacità di gestione e soddisfazione del cliente tendono a coincidere.