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Sandro Spinsanti
PROBLEMI DI GIUSTIZIA IN SANITÀ NELL'ORIZZONTE DELLA BIOETICA
in Apis
anno VI, n. 3, novembre 1993, pp. 51-56
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Il modello dell’Oregon: implicazioni sociali, politiche ed etiche
All'inizio del dicembre 1987, Adam Jacoby Howard detto «Coby», un bambino di sette anni di Rockwood nello stato americano dell’Oregon, morì di leucemia. La sua morte sopraggiunse nel mezzo di una campagna, condotta dalla sua famiglia, dagli amici e dagli insegnanti, per raccogliere i 100.000 dollari necessari per un trapianto di midollo. Per concludere la raccolta, al momento della morte, mancavano ancora 30.000 dollari.
Questo episodio di varia ― e dolente ― umanità assurge a significato di simbolo se si considera che un anno prima lo sforzo della raccolta dei fondi non sarebbe stato necessario: lo stato dell’Oregon avrebbe pagato per il trapianto. Coby ebbe la sfortuna di essere la prima vittima di una nuova direttiva decisa dalla legislatura dell’Oregon nella primavera del 1987: mettere fine al finanziamento dei trapianti di organo e spendere il denaro in cure prenatali. La Divisione di ‘Servizi per Adulti e Famiglie’ si trovò a operare una scelta relativa ai fondi disponibili all’interno del programma Medicaid: o continuare a finanziare un programma di trapianti di organi (un progetto rivolto a 34 persone), oppure far convergere i fondi sulla estensione delle cure di base a 1.500 persone che in precedenza non ne beneficiavano. Nel giustificare la scelta, il presidente del senato dell’Oregon ebbe a dire: «La tecnologia medica ha superato, e continuerà a superare, la nostra capacità di pagarla. Questa è la dura realtà: dobbiamo limitare il denaro che spendiamo nella cura della salute».
Al piccolo Coby, è toccato il drammatico compito di siglare, con la sua vita, l'inizio di una nuova epoca in sanità: per la prima volta nella scena sanitaria americana c’è stato un razionamento delle risorse scoperto ed esplicito, non dovuto alle impersonali forze del mercato o della nascosta parsimoniosità dei burocrati, bensì a seguito di una rigida decisione sulle priorità.
Le lezioni che possono essere tratte dal caso dell’Oregon sono tutte verità imbarazzanti. Anzitutto, che in sanità ci troviamo di fronte a una divaricazione inevitabile tra domanda e offerta. È una caratteristica della medicina attuale, e ancor più di quella del futuro. Dobbiamo considerare, infatti, che siamo di fronte ― almeno nell’emisfero nordoccidentale ― a una società che invecchia e in cui aumentano le malattie degenerative rispetto a quelle infettive; che i costi della tecnologia medica aumentano in modo esponenziale; che l’utopia dello stato assistenziale, nutrita dal sogno di poter dare tutto a tutti, è giunta al capolinea. In conseguenza di questi cambiamenti di scenario, ci troviamo nella dura necessità di fare delle scelte. Anche se non sempre il rapporto di causa ed effetto è cosi esplicito come nel caso di Coby, le scelte nella programmazione sanitaria sono in definitiva scelte di vita e di morte.
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Una seconda lezione è che la classica distinzione in etica medica tra microallocazioni e macroallocazioni delle risorse tende a confondersi, fino ad annullarsi. Parliamo di microallocazioni quando dobbiamo destinare un bene che è più scarso della domanda. Il caso classico è la disponibilità di un solo organo da trapiantare, in presenza di due o tre pazienti candidati al trapianto: con quali criteri si farà una scelta, che voglia avere anche un carattere etico? Le macroallocazioni delle risorse sono quelle relazionate alle grandi decisioni di politica sanitaria: per esempio, dobbiamo spendere per aumentare il numero di unità di cura intensiva neonatale, oppure dobbiamo programmare più case di riposo per anziani? Le norme etiche che regolano questo tipo di problemi si iscrivono nell’orizzonte della giustizia sociale e appaiono lontane dai criteri etici rilevanti per le situazioni di microallocazioni. Se due pazienti sono in lista di attesa e c’è un solo organo da trapiantare, il dramma sembra riguardare solo loro due. Se il sig. Rossi riceve l’organo, non lo riceverà il sig. Neri; per quanto crudele sia la scelta, ciò non riguarda la sig.ra Bianchi, che è in trattamento in un altro reparto dell’ospedale per un carcinoma: i problemi clinici, ma anche quelli etici ed economici, nei due casi ci appaiono diversi.
Il caso dell'Oregon scuote proprio questa certezza. Esso ci dice che, se ci spostiamo a un livello di considerazione globale di distribuzione delle risorse nella società, troviamo che l’interferenza tra questi due processi terapeutici è reale, anche senza essere direttamente visibile. Siamo entrati, infatti, nella situazione per la quale è stato coniato il termine di «scarsità fiscale».
In regime di scarsità fiscale, la decisione di usare un antiblastico costoso riguarda non solo altri pazienti che potrebbero aver bisogno di quel farmaco, ma tutti i pazienti nella loro globalità, costretti ad attingere al fondo limitato delle risorse disponibili per la sanità. Un milione speso per un paziente che ha bisogno, è un milione non più disponibile per qualcun altro. Poiché ogni decisione sanitaria ha un impatto economico identificabile, deve essere sottoposta a un esame che non riguarda solo l’indicazione clinica, ma anche altri parametri di valutazione. Bisognerà così considerare anche se la decisione è saggia dal punto di vista economico, e se rispetta un criterio di giustizia relativamente ad altri bisogni in conflitto. In questo orizzonte appare tutta la rilevanza morale della decisione se privilegiare i trattamenti d’avanguardia per pochi o l’accesso di un più grande numero di persone alle cure di base, come nel caso dell'Oregon.
Se accettiamo il concetto di scarsità fiscale, la necessità di scelte tra interessi in conflitto si ripercuote, al di là delle grandi decisioni di programmazione, anche sui più banali dettagli dell’assistenza clinica quotidiana. Di ogni radiografia, di ogni esame di laboratorio bisognerà considerare l’impatto economico in un sistema di risorse limitate. Anche singole decisioni cliniche, perciò, andrebbero valutate comparandole con le esigenze della giustizia, che costituisce lo scheletro etico del sistema sanitario.
Dall’orizzonte dell’etica medica a quello della bioetica
Proprio questo orizzonte problematico ci permette di capire che cosa è in gioco quando si passa dall’etica medica alla bioetica. Quest’ultima non è solo una nuova etichetta per dare modernità a una cosa antica, ma include un cambiamento di paradigma. Il contenimento dei costi non pone solo il problema circoscritto della pratica medica nelle società ad alto sviluppo, ma fa esplodere un equilibrio precario tra grandi sistemi, quali sono appunto la sanità, l’economia e l'etica. «La medicina, la morale e il denaro» ― ha affermato lo storico della medicina Albert Jonsen ― «sono vissuti per secoli in una coabitazione imbarazzata. Nella istituzione sociale della cura dei malati ognuno è a disagio nell'ammettere la presenza dell’altro. La morale, in particolare, è in imbarazzo quando le si chiede di spiegare perché il denaro e la medicina non sono nemici.»
Un’analisi storica dettagliata potrebbe ricostruire le diverse strategie messe in atto per alleviare le tensioni tra pratica medica ed economia. I medici più generosi, ad esempio, erano soliti farsi pagare dai pazienti ricchi, ma dedicavano parte del tempo e delle cure gratuitamente ai poveri; le amministrazioni statali provvedevano in vari modi alla cura degli indigenti; il sistema delle mutue e delle assicurazioni distribuiva su più grandi unità il peso economico della malattia per gli individui. Ma questi accomodamenti del passato non resistono più agli accresciuti disagi della coabitazione odierna tra medicina, denaro ed etica.
La nuova situazione ha prodotto, come prima reazione, la tendenza delle professioni sanitarie a dissociarsi dai problemi che l’economia sanitaria pone al bilancio dello stato. Per una specie di riflesso condizionato, i medici si sono messi in posizione di difesa, in nome di valori che tradizionalmente sottendono la pratica della medicina. L’attaccamento alla tradizione funge da meccanismo di difesa, per non lasciarsi rimettere in discussione.
Preoccupata di difendere i canoni fondamentali del comportamento professionale, la medicina ha trovato un’alleata nell’etica medica, determinata anch’essa a lasciare il denaro fuori dalla porta. Si è venuto a creare così uno spontaneo consenso sul fatto che i medici devono tenersi lontani dagli aspetti economici della sanità, perché l’introduzione di questo punto di vista nel comportamento quotidiano costituirebbe la
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più grande minaccia all’etica tradizionalmente attribuita al medico. Rifiutando un positivo ripensamento della triade medicina-denaro-etica, si perde un’opportunità unica di accedere a nuove prospettive che riguardano l’esercizio della professione medica, la concezione della salute e il ruolo della giustizia nella convivenza sociale. È soprattutto questo orizzonte positivo di crescita nella consapevolezza e di elaborazione di migliori risposte alla complessa situazione che stimola l’etica, in un serrato dialogo con la riflessione prodotta da coloro che esercitano le professioni sanitarie, a confrontarsi con la sfida che i problemi economici pongono oggi alla sanità. Dalla coabitazione imbarazzata si può e si deve passare a una chiarezza contrattuale. Il dibattito culturale e sociale animato dalla bioetica ci indica i nuovi orizzonti che si stanno aprendo su una diversa pratica della medicina.
Le ripercussioni sul rapporto medico-paziente
Il problema del contenimento dei costi della sanità, lungi dall’essere un argomento marginale della medicina, da lasciare agli specialisti dell’economia, diventa centrale nella pratica medica dei nostri giorni ed è destinato a indurre profondi cambiamenti in essa. I medici sono stati finora in prima linea neH’esprimere il timore che da questa trasformazione la loro professione possa uscire profondamente danneggiata, per la perdita di quei valori che tradizionalmente hanno retto i loro rapporti con i pazienti.
Sono preoccupazioni serie, che vanno considerate attentamente: il rapporto fiduciale in medicina non è un optional, a cui possiamo rinunciare a cuor leggero. Il diritto-dovere del medico di fare ciò che è in suo potere per il migliore interesse del malato che ha in cura è un punto acquisito sul quale non si può transigere. Ciò concesso, è necessario considerare da una prospettiva più ampia e comprensiva i cambiamenti che la pratica della medicina deve affrontare.
La pressione dell’economia è destinata a darci una medicina più consapevole del costo della salute; ma non meno importante è ciò che avviene in profondità, dove si stanno modificando i legami tra la professione medica e la società, nonché il rapporto convenzionale tra medico e paziente. Solo la considerazione dell’insieme di tutti questi elementi, che agiscono in modo contestuale, ci dà la piena misura del processo di trasformazione che la medicina sta attraversando.
Il mandato accordato dalla società alla professione medica sta cambiando. Per dirlo con una metafora, il medico non è più considerato come «capitano della nave». Fino a una ventina di anni fa, l’immagine corrispondeva fedelmente alla realtà. Il medico era visto come responsabile in prima persona di ciò che succedeva nell’ambito della terapia, allo stesso modo di un capitano sulla sua nave. A questa suprema responsabilità corrispondeva una delega di autorità: il medico non doveva rispondere a nessuno della pratica della sua arte. Chiamare il medico a rendere conto del processo che lo conduce a una diagnosi e delle sue scelte terapeutiche era un’evenienza del tutto eccezionale. Tutt’ora nella nostra società ― diversamente da quanto avviene in quella americana ― la citazione di un medico davanti a un tribunale penale o civile con un’imputazione di «malpratice» è una procedura rarissima.
Molti fattori concomitanti stanno però portando al cambiamento di questo paradigma. Sicuramente non è estraneo allo spodestamento del medico dal ruolo di capitano lo sviluppo di nuove professioni sanitarie, che hanno progressivamente rimesso in discussione la centralità della funzione medica. Ma probabilmente non è esagerato affermare che niente incide in modo tanto profondo ed efficace nel rapporto tra i medici e la società quanto le regolazioni economiche dell’esercizio della professione sanitaria.
Nella nostra esperienza nazionale il cambiamento è avvenuto attraverso l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, col rischio, tante volte denunciato, di far assumere al medico l’atteggiamento burocratizzato del funzionario pubblico, permettendogli al tempo stesso la fuga nell’attività privata per la gratificazione economica.
In modo molto più clamoroso di quanto sia avvenuto da noi, le modifiche al sistema retributivo dei medici, legate al contenimento dei costi, stanno cambiando il rapporto tra medici e società, e la pratica stessa della medicina, nella società americana. Il contesto culturale e sociale non è lo stesso; non possiamo, perciò, omologare esperienze essenzialmente diverse. Tuttavia il caso americano è utile per individuare delle costanti comportamentali, generalizzabili in forza del loro valore esemplare.
Per capire lo sviluppo, va premessa un’annotazione generale relativa all’incidenza dei costi economici sulla cura della salute. Durante tutto lo sviluppo della medicina cha va dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni '70, i costi economici erano marginali nell’attenzione professionale dei medici ed estranei alle loro preoccupazioni morali. Quando, negli anni ’80, la rapida crescita delle spese sanitarie ha portato al diffondersi di misure di contenimento del costo della salute, i medici si sono trovati a giocare un ruolo centrale nelle allocazioni delle risorse: un ruolo per il quale non solo non erano preparati, ma che sentivano come antitetico rispetto agli obiettivi della loro professione.
Prima si consideravano liberi di offrire tutti gli interventi sanitari che potevano portare un beneficio al paziente, sapendo che il paziente stesso o
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una terza parte avrebbe coperto i costi. Il problema morale sorgeva eventualmente solo nei confronti di quei cittadini in cattive condizioni economiche che, non coperti da assicurazione o da altre forme di tutela sociale, non potevano accedere alle cure sanitarie di cui avevano bisogno (ed eventualmente in presenza di nuove tecnologie ― come la dialisi renale ― necessariamente inferiori di numero rispetto alle richieste, e quindi causa di situazioni conflittuali relative alla micro-allocazione delle risorse). Ma, in generale, si può affermare che il medico era estraneo ai problemi dell'economia sanitaria. L’abile mossa della politica sanitaria americana degli anni '80 è stata quella di introdurre i medici nelle conseguenze economiche delle loro decisioni di spesa. Le misure utilizzate per rendere i medici responsabili in senso economico hanno obbedito alle logiche sia del bastone che della carota, col ricorso cioè sia a controlli fiscali che a incentivi economici.
Le manovre di controllo dell’operato del medico, prevalenti negli Stati Uniti nel corso degli anni '70, hanno cercato di contenere i costi imponendo limitazioni sulla disponibilità di risorse e impartendo direttive sul loro uso. Si è avuta così una restrizione diretta di opzioni mediche (per esempio, il terzo pagante può escludere la copertura di certi servizi o interventi, come il trapianto cardiaco), oppure la richiesta di autorizzazioni preventive (l’ospedale può domandare al medico di sottomettere a una approvazione amministrativa il ricorso a terapie particolarmente costose).
Qualunque sia la sua efficacia dal punto di vista economico, questa via si è dimostrata praticabile solo in misura molto limitata. La sua debolezza consiste nel fatto che le autorità economiche sono chiamate a emettere giudizi essenzialmente medici. È facile rendersi conto che, compromettendo la libertà del medico, si minaccia al cuore l’esercizio della medicina e non si può più garantirne l’alto livello di qualità. Un’altra strategia, molto più efficace, adottata dalla sanità pubblica americana è stata quella di provocare il passaggio dal pagamento retrospettivo, corrisposto a medici e ospedali per le loro prestazioni sanitarie, a un finanziamento prospettico. Il pagamento è cioè correlato alla malattia, valutata secondo una media di trattamento e di spesa standardizzati. Il sistema di «perspective financing» noto come DRG («Diagnosis Related Groups», introdotto a livello federale per il programma «Medicare» nell’ottobre 1983) è la più conosciuta tra queste misure. L’ospedale che adotta il DRG viene rimborsato secondo la natura della malattia trattata. Ogni paziente viene collocato in una categoria tra le 468 previste, a seconda della diagnosi principale, diagnosi secondarie, complicazioni, età, sesso e altri fattori. La formula per calcolare il rimborso comprende anche la natura e l’ubicazione dell’ospedale. L’incentivo economico è molto chiaro: se il costo della cura è minore del rimborso, l’ospedale può intascare il profitto; se la cura è più costosa, l’ospedale ci rimette la differenza. Mentre, quindi, nel sistema di pagamento retrospettivo l'interesse dell'istituzione sanitaria è di fare il più possibile, in quelli a pagamento prospettico i rapporti si invertono: l’incentivo economico induce a offrire al paziente il meno possibile.
Si tratta del primo piano su vasta scala capace di modificare sostanzialmente il comportamento sia dei medici che degli ospedali. Esso non ha conseguenze solo nello stimolare l’inventiva finanziaria degli amministratori della sanità, ma influisce anche sul modo in cui vengono fornite le cure mediche. È un cambiamento che comporta notevoli conseguenze sul piano del rapporto medico-paziente e dell’etica relativa. Questa pressione sui medici per renderli responsabili del contenimento delle spese sanitarie ― dal momento che le loro decisioni circa quali pazienti ammettere in ospedale e per quanto tempo, quali prodotti e servizi offrire e a chi, determinano in modo decisivo la spesa ― modifica la fisionomia degli obblighi del medico nei confronti dei pazienti. Il nuovo ruolo che viene attribuito al medico non è più quello di avvocato del paziente; il sanitario viene piuttosto assimilato alla «terza parte», quella pagante, mossa da motivazioni che non sono unicamente quelle di provvedere il massimo benessere possibile per il singolo paziente.
Le nostre società ad alto sviluppo economico, dalla seconda guerra mondiale in poi, hanno mirato a offrire a tutti i cittadini la più alta qualità di cure mediche, senza riguardo al costo. Considerare come unico titolo all’assistenza il bisogno, indipendentemente da altri parametri, compresa la capacità di spesa, è stato un obiettivo di alto valore civile e morale. Ora queste stesse società si vedono costrette dalla spirale dei costi a restrizioni nell’uso di risorse mediche ordinarie: è un cambiamento grave, ma comprensibile e ancora tollerabile. Ciò che invece costituisce una fonte di grave perplessità è il coinvolgimento diretto dei medici in questa strategia economica, in quanto il loro ruolo tradizionale nei confronti della società e dei malati ne risulta modificato.
La gestione responsabile delle risorse è inconciliabile con il ruolo terapeutico del medico?
A questo punto può subentrare anche un insidioso conflitto di interessi personali del medico. Nel sistema di pagamento diretto, la tradizionale etica professionale del medico, che lo porta a servire gli interessi del paziente, si armonizza con il proprio interesse. Se il paziente riceve tutti gli interventi sanitari di cui la medicina è capace, compresi quelli che promettono
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benefici solo secondari, tutt’e due ne ricavano un vantaggio. Si possono giustificare anche interventi futili, purché portino un beneficio di qualsiasi genere. Riserve morali serie possono sorgere solo quando i medici, infrangendo il principio ippocratico del «primum non nocere», raccomandassero interventi che si rivelano completamente inutili o addirittura dannosi.
Ma quando il medico è incentivato a restringere il più possibile le prescrizioni, lo scenario cambia. Per nuocere al paziente, è sufficiente che il medico utilizzi il silenzio e gli sottragga informazioni. Se, per considerazioni di ordine economico, non menziona interventi o cure possibili, il paziente non può neppure prendere in considerazione l’eventualità di ascoltare il parere di un altro medico. Astenendosi daH'informare il paziente sui trattamenti terapeutici che sarebbero possibili per lui, ma appaiono sconsigliabili dal punto di vista del contenimento della spesa sanitaria, il medico infrange l’alleanza terapeutica con il paziente. A meno che non si immagini una comunicazione brutale di questo genere: «Un trapianto cardiaco sarebbe indicato nel suo caso, ma purtroppo la società non se lo può permettere!» L’introduzione di un nuovo sistema di retribuzione per medici e ospedali, attuato nella sanità pubblica americana, ci permette di intravedere, in termini estremistici e allarmanti, il possibile scollamento tra gli interessi delle istituzioni sanitarie e dei professionisti della sanità, e quelli dei malati. Ma per comprendere tutta la portata dei cambiamenti in atto nella pratica della medicina dobbiamo fare un passo ulteriore e considerare un’altra discrepanza, ancor più preoccupante: quella tra i valori del paziente e le potenzialità di intervento della medicina più avanzata.
La coincidenza tra gli obiettivi soggettivi dei pazienti e le capacità della medicina si è realizzata in modo armonioso nella storia recente durante lo sviluppo che la sanità ha conosciuto negli anni ’40 e '50. Le malattie paradigmatiche di quel periodo erano le affezioni infettive. Se il paziente aveva, per esempio, la polmonite ed esisteva un farmaco efficace come la penicillina per curare la malattia che avrebbe potuto condurlo a morte, l’azione medica si trovava circoscritta entro tre parametri ben definiti: la conoscenza clinica del medico, la volontà del paziente di ricevere il trattamento e l’intervento medico appropriato (che si può dire, relativamente parlando, di basso costo e di alta efficacia).
Lo scenario dei nostri anni vede invece come predominanti le malattie cardiovascolari, il cancro, le affezioni degenerative e croniche. Rispetto a queste malattie, i parametri sopra citati sono rimessi in discussione e la precaria armonia raggiunta nella generazione precedente è compromessa. Non esiste un consenso sugli interventi medici migliori. Non è più evidente che il paziente voglia ricevere ogni trattamento possibile, e forse neppure il trattamento standard, in quanto il suo punto di vista soggettivo, i suoi valori e le sue preferenze potrebbero essere in stridente contrasto con quanto gli viene proposto dalla prassi medica. E, infine, l’equazione tra costi ed efficacia dei trattamenti è sbilanciata a favore dei primi.
In pratica, perciò, la decisione clinica diventa molto più complessa, dovendo tenere in considerazione tutti questi elementi. Se nel trattamento di un caso di cancro bisogna procedere con un intervento chirurgico, o radiante, o con l’esposizione del paziente a una chemioterapia tossica, oppure è’preferibile rinunciare a qualsiasi intervento perché il beneficio del paziente è irrilevante rispetto ai costi umani o economici; quale trattamento, o astensione dal trattamento, sia più consono alle scelte di vita del paziente e favorisca maggiormente la sua autorealizzazione esistenziale sotto il segno dell'autonomia: tutte queste considerazioni, necessarie per fare oggi della «buona medicina», sviluppano un clima di incertezza che non concede sicurezze a priori. Il ricorso all’evidenza scientifica e tecnica non basta; la clinica di oggi richiede un coinvolgimento profondo nelle aspettative personali e nei valori soggettivi che le sostengono.
Il «meno» che contiene il «più»
Queste riflessioni relative al mutamento in corso nella pratica medica non costituiscono un diversivo rispetto ai problemi concreti di bilancio della sanità e di contenimento delle spese; ci offrono piuttosto lo sfondo che permette di intuire risposte che eccedono la dimensione economica. Lungi dal poter risolvere la situazione ricorrendo a un libro di cucina che ci dia delle ricette semplici di economia sanitaria, dobbiamo cominciare con l’ammettere la nostra inadeguatezza nello stabilire il valore medico degli interventi propri della medicina dei nostri giorni, considerando le molte variabili della condizione umana a cui la medicina si applica.
L’analisi più completa della situazione ci invia in due direzioni apparentemente opposte: un maggior ricorso alla tecnologia informatica e una rivalorizzazione del dialogo tra terapeuta e paziente. Circa l’efficacia delle misure diagnostiche e terapeutiche contenute nell’immenso arsenale della medicina moderna, il computer ci permetterà di fare il passo dalla conoscenza aneddotica, basata sull’esperienza personale, a una conoscenza scientifica effettivamente generalizzabile sull’efficacia del trattamento; nell’altro versante, la parola renderà possibile un diverso stile comunicativo, rispetto al «mondo del silenzio» che predomina ora nella relazione terapeutica.
Computer e ascolto del paziente; potenziamento della tecnologia per abbattere i costosissimi sprechi dovuti
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a conoscenze mediche ancora troppo imprecise, e tempo riservato al dialogo. Queste esigenze bizzarramente divergenti si incontrano nella pratica di una medicina rinnovata sulla base della centralità del paziente e sulla sua condivisione della responsabilità, non più riservata in modo esclusivo al capitano della nave».
La legittima preoccupazione di contenere i costi, pur essendo un problema nuovo e potenzialmente capace, come abbiamo visto, di trasformare la pratica della medicina, non è ancora il «cambiamento di paradigma» di cui la medicina dei nostri giorni ha bisogno. La grande innovazione è piuttosto la partecipazione del paziente al processo decisionale del medico (procedura estranea, di per sé, all'ethos della medicina di stampo paternalista), da ottenere mediante l’esercizio di una reale comunicazione. Un filo diretto sembra quindi legare le strategie di riduzione del costo della salute e l’esigenza che tra medici e pazienti circoli la parola, si instauri una vera comunicazione. La pur nobile concezione tradizionale, secondo cui l’alto profilo umanitario della medicina consiste In servizi resi disinteressatamente e «silenziosamente» al paziente, deve cedere la priorità alla convinzione, non meno tradizionale, del valore del dialogo tra gli esseri umani per giungere a una composizione soddisfacente di interessi divergenti. Anche quando a dialogare siano una persona malata e coloro che si prendono cura della sua salute.
Questa prospettiva ci permette di affermare che «il più» nel senso di interventismo terapeutico, di innovazione tecnologica e di investimento economico - non coincide sempre con «il meglio». Anzi, i problemi bioetici più acuti dei nostri giorni sembrano provenire più dall’eccesso che dalla carenza (si vedano le situazioni etichettate come «accanimento terapeutico» e le richieste di limiti all’interventismo medico in nome della volontà soggettiva di conservare la dignità umana anche nella fase terminale della vita).
Se «il più» non equivale, quindi, al meglio, «il meno» non corrisponde necessaria-mente al peggio (in sanità come in altri ambiti: anche nell’estetica, secondo il principio stabilito dall’architettura funzionale di Mies Van der Rohde, il meno contiene il più»...). Molti pazienti riceveranno benefici se la pressione esercitata dal contenimento dei costi limiterà gli interventi non necessari, ridurrà i danni iatrogeni ― cioè provocati dalla medicina stessa ― e punterà più sulla qualità della cura, che equivale spesso a un prezzo minore. Paradossalmente, le richieste più vive di rinnovamento della pratica medica attuale in termini umanistici ― dalla medicina palliativa alle cure domiciliari ― sono relativamente a minor costo e a più alta gratificazione del malato. L’attenzione alla qualità delle cure, correlata all’interesse per la qualità della vita, si rivela pagante non solo in termini umanitari, ma anche economici.
«La professione medica» ― secondo la filosofa americana Haavi Morrein ― «ha messo molto impegno nel cercare quali nuove cose i medici dovevano fare ai propri pazienti. Ora chiediamo solo che comincino a cercare, con lo stesso impegno, quali cose non hanno bisogno di fare.» Il medico non ha bisogno di promettere al paziente di fare «qualsiasi cosa», per promettere di fare il suo meglio. Purché la scelta del «giusto mezzo», tra il troppo e il troppo poco, sia il risultato di una ricerca comune. L’individuazione di quel «meno» che contiene anche «il più», e coincide quindi con «il meglio», si può ottenere solo mediante una migliore transazione con il paziente, entro il paradigma fondamentale di una medicina del dialogo.
A queste condizioni, possiamo affermare che una medicina più consapevole dei costi può andare, in ultima analisi, a beneficio del paziente. Le sfide morali al contenimento della spesa sanitaria si rivelano convergenti rispetto alle sole spinte economiche, e probabilmente più decisive nel conseguire il risultato di cambiare quanto di irragionevole e di ingiusto esiste attualmente nella pratica della medicina.