L’umanizzazione dell’ospedale

Book Cover: L'umanizzazione dell'ospedale
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

L'UMANIZZAZIONE DELL'OSPEDALE: IMPERATIVO ETICO E PROGETTO POLITICO

in Umanizzare l'ospedale: un compito di tutti

Atti del Convegno "Gruppo per l'Umanizzazione" ― Ospedale Niguarda Ca' Granda

Milano, 16 ottobre 1993

pp. 21-29

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Nel prendere la parola a questo punto mi sento profondamente a mio agio. Mi hanno preceduto due interventi che illuminano di senso tutto quanto sto per dire e costituiscono due pilastri ai quali mi posso saldamente appoggiare.

Il Prof. Jean, l'Amministratore Straordinario di questo ospedale, dà legittimazione politica a quello che stiamo facendo. Riunirci a pensare come rendere umano l'ospedale non è un'attività clandestina, da carbonari della sanità. Rappresenta, piuttosto, un investimento culturale mediante cui i vertici amministrativi tendono a far corrispondere la realtà del servizio sanitario alle aspirazioni dei cittadini. Questa volontà politica degli amministratori è il pilastro del futuro.

La commemorazione del prof. Selvini, che abbiamo appena ascoltato, rappresenta invece il pilastro del passato. Egli è stato un maestro in questo ospedale. Per i progetti di umanizzazione la memoria dei maestri è più importante di qualsiasi teorizzazione.

La riflessione teorica che intendo offrirvi spera di sfuggire al rischio dell'astrattezza proprio perché può appoggiarsi a un solido passato e affidarsi a un futuro progetto politico.

Dopo aver espresso i motivi di agio, voglio dar voce anche a quelli di disagio. La teorizzazione sull'umanizzazione dell'ospedale che voglio proporvi deve confrontarsi con il disagio che la parola "umanizzazione" mi procura. Ho l'impressione che la nobile causa a cui questa parola è orientata ― portare un miglioramento qualitativo all'ospedale ― sia mal servita da questa parola. Soprattutto perché inevitabilmente la correliamo, almeno in modo implicito, con il suo contrario, vale a dire la disumanizzazione. Corriamo allora il rischio di utilizzarla in senso colpevolizzante. Parlare di umanizzazione equivale a un'accusa di disumanità rivolta ai professionisti

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della sanità che nell'ospedale operano. La problematica dell'umanizzazione dell'ospedale risulta così agganciata alla "malasanità", che tanto spazio occupa nelle pagine dei giornali. Quando si parla di umanizzazione in questo modo, correlandola alla disumanità degli operatori, si innesca inevitabilmente una ricerca del colpevole. Chi si sente accusato, assume un atteggiamento di difesa, o passa ad accusare altri, additando altri colpevoli. Medici, infermieri, amministratori, sindacalisti, possono, a turno, far da capro espiatorio. Ma, in definitiva, questo gioco delle colpe legato all'umanizzazione non ci porta a fare nessun passo avanti.

Talvolta l'umanizzazione viene intesa come un intervento settoriale per evitare attriti nel vissuto quotidiano dell'ospedale, che ha un profilo necessariamente conflittuale, quasi che l'umanizzazione fosse come una goccia d'olio che si mette su un cardine che cigola, per evitare il rumore sgradevole. L'umanizzazione in questo senso riduttivo impedisce di considerare l'umanizzazione come un intervento più generale che ― come ha detto chiaramente il dott. Fossati introducendo il tema ― comprende tanto gli interventi sulle persone quanto quelli sulle strutture architettoniche, fino a toccare il modo stesso di fare medicina. L'umanizzazione intesa in senso vasto e inclusivo, deve arrivare al cuore della pratica medica. Per questo il termine "umanizzazione" in genere non serve bene questa grande causa, anche se finora non ne abbiamo trovato un altro che lo possa sostituire.

Spingendo più a fondo l'analisi del disagio che provo di fronte ai programmi di "umanizzazione dell'ospedale" posso aggiungere a quanto detto che non è solo problematico il primo termine dell'espressione, ma anche il secondo.

In altre parole: non soltanto ci si rapporta all'umanizzazione in tono colpevolizzante e con intenti di moralizzazione, ma si assume anche che ci sia un consenso su che cos'è l'ospedale. Diamo per scontato che, se pur divergiamo sull'idea di umanizzazione, l'ospedale sappiamo bene che cosa sia. E invece questa sicurezza è illusoria.

L'ospedale è agevole identificarlo. La denotazione è facile: chiunque può indicarlo con un dito, anche perché nella città moderna tende a prendere il posto che in quella medievale spettava alle cattedrali. In senso denotativo l'ospedale di una città è quello di cui possiamo domandare l'indirizzo, identificarlo sulla piantina, chiedere al tassista di portarci.

La connotazione, invece, è molto complessa. Numerosi significati sono depositati sull'istituzione, sedimentandosi gli uni sugli altri. I più recenti non hanno scacciato quelli precedenti. In una stessa realtà convivono l'ospedale del passato e del presente, nonché quello che possiamo chiamare l'ospedale del futuro.

Possiamo immaginare che, in questo come in qualsiasi altro ospedale, siano contemporaneamente presenti almeno quattro ospedali.

C'è l'ospedale "hospitium", il luogo dell'ospitalità. L'ospedale, quale primitiva realizzazione storica dell'occidente, è nato come una casa di accoglienza per tutti i disgraziati. L'obiettivo di questa istituzione era di esercitare la "pietas" verso le persone

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diseredate.

L'ospedale in cui lavoro ― l'ospedale dell'Isola Tiberina, a Roma ― è stato fondato dall'ordine religioso di S. Giovanni di Dio, noto come "Fatebenefratelli", nella seconda metà del XVI secolo, i religiosi esercitavano la "pietas" del servizio ai malati ispirandosi al modello della carità fraterna predicata dal cristianesimo. Nei regolamenti di allora, ad esempio, era previsto che ogni derelitto che entrava nell'ospedale ― perché l'istituzione dell'ospedale non era pensata unicamente in funzione dei malati, ma degli emarginati in genere ― veniva accolto dal priore, il quale gli lavava i piedi. A mezzogiorno tutti insieme, i frati che facevano gli infermieri e i malati, ricevevano l'invito dal priore, dopo la preghiera comune. Era la concezione alta dell'ospedale come "hospitium".

L'idea basilare dell'"hospitium" come luogo dove si è bene accolti perché si è sofferenti o si è andati a finire sotto le ruote del carro della vita è stata rinnegata dalla rivoluzione francese. Non solo perché era collegata con l'idea della carità cristiana, ma perché le realizzazioni pratiche spesso si allontanavano in modo stridente dall'ideale. L'ospedale premoderno era un luogo indifferenziato in cui si trovava il bambino abbandonato accanto al vecchio, lo storpio accanto al demente, la partoriente accanto al morente. Non solo la realtà dell'ospedale non rispondeva alle più elementari condizioni igieniche, ma spesso era in contrasto con il rispetto dovuto alle persone. La critica della rivoluzione francese a quel modello d'ospedale fu così radicale che il Direttorio cambiò perfino il nome: invece di "hôpital" propose di chiamarlo "hospice".

Nel corso del sec. XIX è avvenuta, in realtà, una evoluzione che ha portato a differenziare due tipi di istituzioni: l'"hospice" è diventato il luogo deputato a raccogliere i derelitti ― vecchi, trovatelli, malati inguaribili e affetti da malattie contagiose ― mentre l'"hôpital" ha assunto la funzione di luogo dove si dispensano le cure finalizzate alla guarigione.

La stessa evoluzione semantica è avvenuta anche in Italia. L'ospedale è stato sempre più identificato come il luogo della guarigione, mentre l'ospizio era il luogo della cronicità (anche se una venatura di differenza nei confronti dell'ospedale è rimasta nella cultura popolare; la risentiamo in un sonetto del Belli: «...Ma nun zai ch'a lo spedale ce se more?»... È rimasta a lungo l'idea che andare all'ospedale significava essere avviato su un binario morto).

È molto interessante che alla fine del nostro secolo ricompaia, in modo del tutto inatteso, il bisogno di "hospice", inteso come luogo di accoglienza per quelli che non possono essere guariti. Mi riferisco al "movimento degli hospice", nato nei paesi anglosassoni una ventina d'anni fa. Noi abbiamo una difficoltà quasi insormontabile ad adottare questo termine, in quanto connota l'"ospizio" nel suo significato più deteriore di emarginazione e discriminazione. Nel significato che ha assunto all'interno del movimento delle cure palliative, l'"hospice" è il luogo in cui ai malati che non possono più essere avviati per la via della guarigione, in particolare ai malati in fase terminale, viene offerto un ambiente dove è possibile esercitare la "pietas"

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e l'accoglienza, dove la palliazione e la cura dell'intero nucleo familiare hanno la precedenza sugli sforzi terapeutici. Proprio qui a Milano si è tenuto pochi mesi fa il primo convegno nazionale italiano, organizzato dal Pio Albergo Trivulzio, dedicato alle realizzazioni degli "hospice" nel nostro paese. Anche le R.S.A. (le residenze socio-assistenziali) per anziani sono una variante moderna del concetto originario di "hospitium". Dobbiamo reinventarci oggi il luogo dell'accoglienza per i più fragili, proprio quando ci accorgiamo che l'ospedale non è fatto per i lungodegenti. Siamo assediati da una marea crescente di persone anziane che l'allungamento della vita ― felice, ma anche tremendo risultato della medicina moderna ― rende inadatte a vivere nella propria casa, mentre l'ospedale si rivela, a sua volta, inappropriato, per motivi economici e umani, a ospitare il loro lungo declino. Questi anziani ci pongono una sfida: dobbiamo riscoprire l'ospedale ― nelle sue varianti moderne ― come luogo accogliente dove sta di casa la "pietas".

Passiamo ora a considerare un secondo modello di ospedale: l'ospedale come cittadella della scienza medica. Questo passaggio è avvenuto nel corso del XIX secolo. L'opera di Michel Foucault, "La nascita della clinica", l'ha spiegato in modo ineccepibile. Per la prima volta nella lunga storia della medicina questa ha acquisito la capacità di modificare il corso naturale della malattia. L'ospedale diventa il luogo dove la medicina come scienza dispensa cure efficaci, miranti alla guarigione.

Il modello dell'ospedale come presidio della salute, dove ha luogo la lotta organizzata ed efficiente contro tutte le forme della malattia, continua ad essere più che mai attuale. Non potremmo mai considerare "ospitale" un ospedale che fosse al di sotto dello standard di cure efficaci che la medicina è oggi in grado di fornire (quand'anche il direttore sanitario lavasse i piedi ai malati e portasse loro il cappuccino alla mattina su un vassoio d'argento...!). Qualunque sia il livello di gradevolezza dell'ambiente e di attenzione alla persona, se l'infarto ― ad esempio ― non viene curato in modo efficace, secondo le acquisizioni consolidate del sapere medico, non potremmo dare a quell'ospedale la qualifica di "umano".

In questo modello di ospedale come cittadella della scienza l'umanizzazione equivale sostanzialmente a una richiesta di efficacia. L'attualità di questa problematica è dettata dal dibattito relativo alla permanenza di piccoli ospedali decentrati. Il piccolo ospedale di pochi letti è magari ideale dal punto di vista dell'ospitalità: i malati possono essere trattati in modo non impersonale e burocratico, i medici e gli infermieri stabiliscono rapporti molto familiari tra di loro e con i malati. Ma dal punto di vista dell'efficacia il piccolo ospedale può costituire un vero e proprio pericolo per la salute e per la vita stessa.

Che cosa fare dei presidi ospedalieri di piccole dimensioni è attualmente un argomento di politica sanitaria molto scottante in Italia. La popolazione di cittadine di provincia in cui, secondo la programmazione regionale, è stata deliberata la chiusura del piccolo ospedale scendono in piazza, operatori sanitari in testa. "Il nostro piccolo ospedale, così umano, non si tocca!". E la popolazione sostiene queste rivendicazioni. Ma, di fronte alla

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patologia seria, la preferenza va naturalmente all'ospedale che garantisca sicurezza ed efficacia. È un'esigenza imprescindibile di ciò che ci aspettiamo oggi da un buon ospedale, che deve avere le conoscenze e le tecnologie per dare una risposta efficace alla patologia. La qualità medica che l'ospedale deve garantire comprende essenzialmente l'efficacia delle cure. Credo che ciascuno di noi, dovendo scegliere tra un ospedale dove ci trattano bene ma non ci sanno curare, e uno dove ci sanno curare, sceglieremo il secondo, anche se il confort e l'attenzione alla persona lasciassero a desiderare.

Il modello dell'ospedale come luogo della scienza medica continua ad essere quanto mai attuale. Le sue carenze derivano dal fatto che molta parte della scienza medica non sa e non vuole integrare il sapere che deriva dalle scienze dell'uomo. Continua a trattare le patologie come se queste riguardassero solo il corpo, e non l'insieme della persona. Anche se ― per ipotesi ― la pratica di questa medicina fosse ineccepibile dal punto di vista filantropico, del rispetto dei diritti umani e della correttezza gestionale, sarebbe pur sempre carente se non tenesse conto di quanto dell'uomo malato ci dicono la psicologia, la sociologia, l'antropologia culturale.

Le patologie più diffuse nella nostra società non riescono ad essere curate efficacemente con una medicina che ignora sistematicamente queste dimensioni dell'essere umano. Per fare solo qualche esempio, pensiamo al problema della cura delle tossicodipendenze; oppure al crescente diffondersi di disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia e l'anoressia (un tema in cui la qui presente Mara Selvini Palazzolo ha svolto un ruolo pionieristico): l'incapacità della medicina di trattare questa patologia, galoppante nella nostra società, illustra le carenze intrinseche di risultati efficaci di una scienza medica che ignora le componenti psicologiche, relazionali, antropologiche e simboliche dei fatti patologici. Pensiamo anche al dolore cronico, malgrado il sofisticato arsenale terapeutico a disposizione della medicina contemporanea, dipendono dalla negligenza nel considerare il ruolo che esso gioca nella rete dei rapporti che lega il malato alla famiglia e alla società. È una prospettiva che ha indotto l'antropologo medico di Harvard Arthus Kleinman a parlare di malattie "sociosomatiche".

La carenza dell'ospedale concepito come cittadella del sapere medico è che questo sapere è un sapere dimidiato: conosce solo una parte dell'uomo. Un ospedale "umano" è quello che sa integrare questo sapere completo sull'uomo non solo in modo teorico, ma pratico. Ciò implica il ricorso a professioni che si basano appunto su queste conoscenze umanistiche, come lo psicologo, l'assistente sociale, il cappellano, o assistente spirituale. Non visti come professionisti di secondo livello, che si occupano delle piccole cose, ma come parte integrante di un unico progetto terapeutico. L'ospedale umano è, secondo questo modello, quello che sa dare risposte efficaci alle patologie. A tutte, comprese quelle tipiche della società moderna, che non possono essere modificate senza un ricorso sistematico alle scienze dell'uomo, oltre che a quelle della natura.

Il terzo modello di ospedale è quello del "welfare state". Dagli anni '40 del nostro secolo in poi molti paesi dell'area

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occidentale, a cominciare dall'Inghilterra, hanno socializzato la medicina, come pilone portante del "welfare state". In questo quadro generale l'ospedale diventa il luogo dove si concentra l'impegno dello stato di fornire a tutti i cittadini l'assistenza sanitaria. Non per motivi di filantropia, ma di giustizia. L'assistenza sanitaria diventa uno dei diritti civili e sociali esigibili da ogni cittadino. Assicurare a tutti l'assistenza sanitaria in caso di malattia, indipendentemente dalla capacità economica di pagarsela, diventa l'impegno prioritario dello stato sociale.

Nell'ospedale tutti i cittadini hanno uguale diritto di accesso, tutti possono pretendere considerazione e rispetto, e soprattutto una cura adeguata alle loro necessità. La cura della salute promossa dallo stato sociale si è tradotta in una modalità che, di per sè, poteva essere evitata: l'ospedale ha preso il posto centrale quasi unico di tutto il sistema di cure. In quel progetto generoso, con venature di utopia, in cui lo stato si impegnava a promuovere il benessere di tutti i cittadini occupandosi di loro dalla culla alla tomba, l'ospedale era il luogo deputato a questa assistenza totale.

Attualmente ci troviamo nella necessità di ridisegnare lo stato sociale. Ci siamo resi conto che le risorse di cui disponiamo non sono sufficienti ― e mai lo saranno, per quanto allochiamo le risorse a favore della sanità ― per fare tutto a tutti. Siamo perciò costretti a stabilire una scala di priorità: a chi dare, che cosa dare, con quali criteri. In questa fase di transizione l'ospedale è sottoposto a un forte cambiamento, che rimette in discussione l'ospedalocentrismo a cui siamo abituati.

In questo nuovo stato sociale, verso il quale ci stiamo incamminando, la priorità numero uno è l'efficienza. Mentre nell'ospedale come cittadella della scienza l'imperativo dominante era ed è l'efficacia ― all'ospedale domandiamo che guarisca le malattie ―, nel nuovo stato sociale l'ospedale deve mirare a distribuire le risorse scarse in modo che con esse si ottenga il più e il meglio. In altre parole, l'ospedale deve essere efficiente.

L'efficienza è importante come valore economico, ma allo stesso tempo esprime anche un'esigenza etica. Possiamo illustrare l'assunto con un esempio. Se l'imperatore del Giappone si ammala ― come è successo ― per curarlo si sposta un ospedale nel suo palazzo, compresa la Tac e tutta la tecnologia più sofisticata. L'efficacia sarà la stessa, ma non si può dire che questa organizzazione delle risorse sia efficiente. Possiamo dare tutto a una persona e ottenere risultati brillanti in termini di efficacia, ma mandare deluse le legittime aspettative di tanti altri che contavano su quelle stesse risorse. Come corollario del nuovo stato sociale dobbiamo esigere che l'organizzazione delle cure in ospedale tenga in debita considerazione il criterio dell'efficacia. Se questa manca, l'ospedale non può essere qualificato come ospedale "umano".

I sanitari non possono più accontentarsi di guarire le persone: nel curarle e guarirle, devono fare il miglior uso delle risorse. Ciò implica anche una limitazione nell'uso stesso dell'ospedale. Se viene utilizzato per motivi impropri, facendo in ospedale trattamenti che possono essere fatti altrove o in regime di "Day

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hospital", si realizza uno spreco di risorse, e quindi una medicina inefficiente.

Questa preoccupazione si traduce in progetti molto concreti. Uno di questi può essere la promozione del "Day Hospital" o della "Day surgery". Organizzare gli interventi diagnostici e terapeutici in un giorno solo, evitando il ricovero, porta al risparmio su tutti i piani. Anche molte operazioni chirurgiche possono essere fatte in ciclo giornaliero, se ben programmate e organizzate.

Anche le cure domiciliari diventano un programma essenziale di un ospedale che mira all'efficienza. Naturalmente queste vanno programmate. Non sono tali quelle improvvisate, magari perché i sanitari, diventati sensibili ai costi, decidono di mettere il malato, con la sua valigetta degli effetti personali, fuori dalla porta dell'ospedale. Per quanto riguarda la programmazione delle cure domiciliari, in un grande ospedale degli Stati Uniti, la Cleveland Clinic, ho visto una realizzazione ideale: tra l'ospedale e il domicilio c'è un momento istituzionale intermedio, chiamato "The Bridge" (il ponte). Serve a favorire la transizione, istruendo il malato e i suoi familiari perché la cura possa essere condotta a casa, senza perdere nulla dell'efficacia. Le cure domiciliari non si improvvisano.

I tre modelli di ospedale che abbiamo analizzato, presenti sotto forma di eredità del passato, devono essere completati da un quarto: l'ospedale del futuro. Il quale non è solo un pio desiderio. In qualche modo è già presente, come esigenza e potenzialità che domanda di essere realizzata. È ― e sarà ― l'ospedale azienda. È già previsto dal decreto legislativo n° 517 del 1993 che propone in chiave operativa la formula dell'azienda per la gestione delle USSL e degli ospedali. La data programmata dell'inizio ufficiale degli ospedali azienda è il 1° marzo 1994.

Qualcuno ha visto in questo modello di ospedale un tradimento della sua natura e vocazione originaria. Bisogna anzitutto scartare un equivoco: non si tratta semplicemente di trasporre nell'ospedale dove si curano le malattie la filosofia dell'azienda nata per produrre e commercializzare beni e servizi. Così inteso, l'ospedale azienda sarebbe davvero un tradimento.

Il riferimento è invece a quella filosofia dell'azienda che è stata sviluppata in questi ultimi anni a partire dal concetto di "qualità totale". Lo hanno inventato i giapponesi, che grazie ad esso sono giunti a una posizione di leadership in molti ambiti del mercato mondiale. Le aziende occidentali, se vogliono sopravvivere e non essere escluse dalla competizione, sono costrette ad abbandonare la vecchia mentalità aziendalistica ed adottare anch'esse la filosofia della "qualità totale". In questa prospettiva l'obiettivo prioritario non è quello di aumentare il fatturato, ma di avere "clienti consolidati", perché soddisfatti. Questa filosofia è risultata vincente anche nel settore della produzione delle automobili; tanto più, quindi, quando si tratta di un servizio personalizzato come la cura della salute.

Un cambiamento di questo genere domanda più di un "lifting" superficiale nell'azienda: richiede un ripensamento totale, che si traduce in un atteggiamento diverso di coloro che producono beni o servizi nei confronti del cliente. Per fare un esempio

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tratto dalla quotidianità, nell'hotel in cui sono stato ospitato questa notte ho notato un cartello auto-promozionale molto abile. Vi è rappresentato un cameriere, che dice: "Io non sapevo proprio niente dei fiori. Non sapevo distinguere un geranio da una dalia. Ma nel nostro hotel è passato un cliente, commerciante di fiori, che mi ha intrattenuto a lungo. Ora sono anch'io un esperto di fiori. Il nostro atteggiamento è quello di star ad ascoltare i nostri clienti."

Quello che si domanda alla "azienda" ospedale è di adottare un atteggiamento di questo genere. Deve mettere al proprio centro il paziente-cliente, imparando un modo diverso di lavorare. È una rivoluzione che non produce soltanto migliori servizi, ma fa si che gli operatori siano più soddisfatti del loro lavoro. Nella filosofia della "qualità totale" non si può fornire un prodotto eccellente se coloro che lo producono non sono attivamente coinvolti: non come piccole ruote di un ingranaggio, ma come protagonisti attivi che pensano le soluzioni e le propongono, fanno progetti e li realizzano, ottengono piccoli miglioramenti costanti. Il cliente soddisfatto presuppone un fornitore di servizi soddisfatto. Con delle persone frustrate e demotivate non si può fare un'azienda che abbia l'"eccellenza" come obiettivo. Nell'ospedale azienda il criterio di valutazione non è più solo l'efficacia o l'efficienza, ma diventa l'eccellenza. Il paziente-cliente dovrà uscire da questa istituzione non solo curato, ma soddisfatto. Altrimenti preferirà nel regime concorrenziale che si andrà stabilendo, un'altra azienda fornitrice di servizi alla salute. La scommessa per il futuro è potenzialità di umanizzazione che ha in sé, che costituiscono quasi una sintesi delle esigenze implicite nei modelli di ospedale ― "hospitium", ospedale ― cittadella della scienza e ospedale-presidio del "welfare state".

Potrei terminare a questo punto la mia esposizione. Voglio aggiungere non lo sviluppo ma solo l'enunciazione di un tema che è speculare a quello svolto: quale deve essere il nuovo paziente? I tratti caratteristici di questo nuovo paziente richiamano quelli dell'ospedale umano. La caratteristica fondamentale è che questo paziente è, e sarà sempre di più, un adulto, nel senso filosofico proposto dall'illuminismo, vale a dire come "autonomia". Se è vero quello che ha detto il prof. Jean, riferendosi alla distribuzione stabilita da Platone, che noi abbiamo sviluppato più la medicina degli schiavi che quella degli uomini liberi, è anche vero che la medicina ha fatto di tutto perché la sua pratica non fosse modificata dallo spirito dell'illuminismo. I medici trattano i pazienti come persone che non sanno prendere le decisioni che li riguardano, ma si affidano a un buon padre medico. E siccome alla base del paternalismo spesso c'è una collusione, anche i pazienti desiderano essere presi in carico e deresponsabilizzati. Il nuovo paziente è quello che deve prendere la parola, perché le decisioni che lo riguardano devono tendenzialmente essere prese da lui stesso.

Un secondo tratto di questo paziente è di essere un consumatore. Intendo questa parola in senso sia positivo che negativo. Un consumatore è una persona che ha davanti a sé possibilità di scelta. Prima che la medicina fosse diventata veramente efficace, non avevamo in realtà la possibilità di scegliere tra più

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opzioni. Ma oggi un paziente che è affetto da un carcinoma non ha solo un trattamento davanti a sé, ma una notevole varietà, compresa la possibilità di astenersi da qualsiasi trattamento. Queste variabili hanno profonde incidenze sulla qualità della vita. Chi può scegliere al posto del paziente? Questi è un consumatore che deve essere informato ed educato, per essere messo in grado di scegliere per il proprio bene, in armonia con i valori che gli sono propri.

I pazienti che, domani ancor più di oggi, si rivolgeranno negli ospedali chiedendo una medicina "umana": si aspetteranno di essere considerati come essere autonomi, come persone capaci di scegliere in base a informazioni precise e attendibili.