La cultura del limite nell’agire medico: quando meno è meglio

Book Cover: La cultura del limite nell'agire medico: quando meno è meglio
Parte di Sistemi sanitari series:

Sandro Spinsanti

LA CULTURA DEL LIMITE NELL'AGIRE MEDICO: QUANDO MENO È MEGLIO

in Manuale critico di sanità pubblica

a cura di Francesco Calamo Specchia

Ed. Maggioli, Rimini 2015

pp. 394-400

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1. Introduzione

Che cosa è giusto fare, che cosa è bene fare in medicina? Il pendolo oscilla tra due comportamenti opposti. A un estremo si trova come risposta: “tutto il possibile”. La locuzione colloquiale è stata assunta come titolo per un romanzo 1, in cui si mettono in scena i tentativi giustificatori di un medico: l’intervento è andato male e il paziente è deceduto; ma se il medico può addurre che “è stato fatto tutto il possibile”, si sente collocato in un’area di impunità giuridica e di inattaccabilità etica. La tendenza a fare “sempre di più” è, peraltro, anche la molla dell’anima mercantile che può colonizzare la medicina.

All’estremo opposto si trova la cinica conclusione cui giunge, in un altro romanzo, Io specializzando medico dopo un massacrante anno di tirocinio in un ospedale pubblico: diventi un vero medico solo quando lasci cadere la compulsione a cercar di curare e la convinzione fraudolenta di poterci riuscire; impari così a “fare il meno possibile”: “(...) la gente si aspetta di avere una salute perfetta. Il nostro lavoro è di spiegargli che una salute imperfetta è, ed è sempre stata, la salute perfetta, e che per quasi tutto ciò che non va nel corpo non abbiamo nessun rimedio” 2.

Intuitivamente si capisce che la risposta corretta a ciò che si deve fare in medicina si colloca tra questi due estremi. Trovarla e descriverla, tuttavia, richiede un faticoso percorso.

2. Il dottor Knock è sempre di scena

“Si possono fare molti soldi dicendo alle persone sane che sono malate”: questa affermazione del BMJ non è un suggerimento malizioso, ma un grido di allarme. L’atto di accusa è rivolto al fenomeno della “medicalizzazione” della salute che espropria i cittadini, come già denunciava il sociologo Ivan Illich fin dagli anni ’70, della facoltà di considerarsi sani o malati. L'obiettivo è perseguito con strategie di mercato abilmente dissimulate (il disease mongering), che equivalgono a un indebito traffico con le malattie, rivolto ad aumentare il numero delle persone che si riconoscono malate e conseguentemente ad allargare il mercato della salute. Con macabro umorismo, qualcuno ha coniato la qualifica di “epidemiologia creativa” per queste strategie tese a vendere malattie: basta modificare i parametri clinici che differenziano le persone malate da quelle sane (livello di colesterolo nel sangue, valori della pressione, ecc.) per iscrivere altri presunti sani nel novero dei malati, che la medicina è disposta a soccorrere con il suo generoso arsenale terapeutico 3.

È difficile tracciare un confine netto tra una corretta campagna di sensibilizzazione rivolta a promuovere la salute e una serie di menzogne (o di mezze verità) costruite ad arte per ampliare il numero di coloro che, pur godendo di una buona salute percepita, sono indotti a scoprirsi malati e sono quindi sospinti tra le braccia di trattamenti medici. Su questa ambigua terra di confine giganteggia, come nume tutelare o Santo patrono, la figura del dott. Knock. La commedia

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di Jules Romains a lui dedicata ― Knock, o il trionfo della medicina ― è andata in scena a Parigi per la prima volta nel 1923.

Da quasi un secolo Knock insegna, a chi vuol imparare da lui, come espandere i servizi medici. Giovane medico condotto, Knock arriva nel Paesino di St. Maurice con poca scienza, ma con una convinzione incrollabile. Quella che aveva posto come titolo ― spiega al dottor Parpalaid che, con molta prosopopea ma in condizioni economiche disagiate, gli “vende” la condotta ― alla sua tesi di laurea: “Sui pretesi stati di salute”; ovvero: ogni sano è un malato che ignora di esserlo.

Dopo tre mesi, quando il dottor Parpalaid ritornerà nel Paese per incassare la prima rata della condotta, troverà tutto cambiato: la locanda è stata trasformata in ospedale, e non c'è più un posto disponibile; il modesto farmacista, diventato il principale collaboratore del nuovo medico, ora dirige un’attività fiorente. Tutti gli abitanti di St. Maurice sono stati toccati dalla “luce medica”. Spiega il dottor Knock all’anziano collega stupefatto: “Voi mi date un cantone popolato da alcune migliaia di individui neutri, indeterminati. Il mio ruolo è di determinarli, di portarli all’esistenza medica. Li metto a letto e guardo che cosa ne può venir fuori: un tubercolotico, un nevropatico, un arteriosclerotico, quello che si vuole, ma qualcuno, Dio buono!, qualcuno! Niente mi irrita come quell’essere né carne, né pesce che voi chiamate una persona sana”.

Dal punto di vista operativo, la strategia promozionale del dottor Knock è semplice. Convoca il messo comunale, che ha il compito di fare gli annunci pubblici, preceduto dal suono del tamburo, e lo manda in giro per il Paese a proclamare l’offerta del nuovo dottore: il lunedì, giorno di mercato e di grande affluenza in Paese, dalle nove e trenta alle undici e trenta, il dottor Knock farà visite gratuite per gli abitanti del cantone. Il seguito della storia chi ha visto o letto la commedia lo conosce; gli altri possono facilmente immaginarlo.

Una storia attuale? Se oggi gli annunciatori pubblici a suon di tamburo sono piuttosto rari, in compenso si sono moltiplicate le vie per far arrivare messaggi di promozione della medicina ― sempre animati da spirito filantropico, e per contrastare il progresso delle malattie... La più recente trovata è quella delle offerte mediche scontate, promossa da Groupon. Con un significativo cambio di scenario rispetto a qualche decennio fa: chi offre servizi gratuiti o scontati non ha di fronte la diffidente comunità contadina di St. Maurice, che deve essere indotta controvoglia a farsi visitare; oggi il dottor Knock ha di fronte “consumatori” avidi di ricevere visite e di farsi prescrivere esami, farmaci e trattamenti.

Guardando dalla finestra del suo albergo-ospedale lo spettacolo di 250 case con le finestre illuminate, dove allo scoccar delle dieci di sera tutti i malati erano pronti per la presa di temperatura rettale, il dottor Knock poteva annunciare trionfante: “Ci sono 250 camere in cui qualcuno confessa la medicina, 250 letti in cui un corpo disteso testimonia che la vita ha un senso, e grazie a me un senso medico”. Dall’alto di Internet, dalla finestra delle offerte a basso prezzo (low cost), i numeri delle persone “beneficate” dall’espansione dei servizi sanitari appaiono moltiplicati in modo esponenziale. E la luce medica brilla tanto da ferirci gli occhi.

La figura del medico convinto che “ogni sano è un malato che si ignora” e che la sua missione sia quella di introdurre tutti gli abitanti del paese di St. Maurice nell’era della medicina continua a inquietare, proprio per la sua ambiguità. Se il dott. Knock potesse essere ridotto alla figura di un ciarlatano o di un abile sfruttatore della credulità, si potrebbero prendere le contromisure per difendersi da lui si; ma fino al termine della pièce non si scioglie il dubbio sulla sua buona fede: il dott. Knock persegue certamente i suoi interessi, ma sembra onestamente volere anche il bene dei suoi pazienti.

La commedia non si può ridurre allo smascheramento di un imbroglione: è piuttosto una riflessione, quanto mai attuale, sulle ambivalenze della medicina. E sulla necessità di una partecipazione attenta e vigile dei cittadini per definire i confini di una medicina “sana”, che non li espropri della propria vita. Troppo poche cure mediche sono un problema; ma lo sono anche

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troppe cure. Ci si trova di fronte alla sfida della giusta misura: inquieta il “troppo”, ma anche offrire “meno” può essere problematico.

3. Davvero “meno è meglio”?

Il “meno” ― meno trattamenti, meno indagini diagnostiche, meno controlli generali (check up)... ― non è la formula risolutiva. Se è ambiguo il trionfo della medicina che si traduce in una medicalizzazione della vita, non meno ambigua è la sottrazione sistematica di interventi. La formula “Less is more”, ossia meno è meglio, è seducente, ma non può esonerare da un confronto con questioni delicate: meno/più rispetto a che cosa? Chi decide il più o il meno? A quale scopo far prevalere il più o il meno? Qualche risposta si può trovare ripercorrendo il cammino di una formula cui ha arriso un grande successo.

“Meno è meglio”, prima di essere applicata alla medicina, è stata una ricetta estetica. È nata per contrastare la tendenza all'ornamento in architettura ― per intendersi: costruzioni e manufatti tipici dello Jugendstil e dell’Art Nouveau, all’inizio del XX sec. ― contrapponendogli la funzionalità. È stato il programma del movimento denominato “razionalismo europeo”, in polemica con il dispendio di tempo e di materiali causato dalle decorazioni. Adolf Loos con il celebre saggio: Ornamento e delitto (1908) perorava la produzione di edifici e di oggetti in forma semplice e funzionale. La formula “meno è meglio” risale propriamente all’architetto Mies van der Rohe, che prescriveva di “cercare quel meno che contenga anche il più”. La precisazione non è superflua. L’accento non cade, infatti sul meno, ma sul più; l’intento non è quello di togliere, ma di aggiungere. In ambito architettonico si trattava di aggiungere qualità estetica; quando la formula trasloca in medicina, si intende un’altra qualità. Ma pur sempre qualità: sotto il segno, dunque, del più, non del meno!

Anche la traduzione italiana del progetto sanitario Less is more in “Fare di più non significa fare meglio”, promossa dal movimento di Slow Medicine 4, non si sottrae a questa precisazione. Per essere concreti, si immagini la connotazione diversa che “meno è meglio” assume in bocca a un direttore amministrativo che pensa al budget, o a un medico coscienzioso, preoccupato del bene del paziente. Per decodificare il senso che può assumere la formula in medicina, è necessario dunque un punto di vista, e confrontarlo con il triplice obiettivo che la Carta di professionalità medica (elaborata nel 2002 dall'European Federation of Internal Medicine e dall'American College of Physicians) ha identificato come obbligante per i nostri giorni: fornire cure efficaci (principio guida: “il bene del paziente”); rispettare il paziente come persona autonoma (principio di “autodeterminazione”) e garantire a tutti i cittadini stesse opportunità (principio di “non discriminazione”/“equità”).

3.1. Il punto di vista del medico

Dal punto di vista del medico coscienzioso il limite tra il “troppo” e il “troppo poco” è stabilito con i criteri della scienza; oggi bisogna aggiungere evidence based, ovvero basata su prove di efficacia. Nel vasto arsenale di trattamenti, sia terapeutici che preventivi, il buon medico sceglie lasciandosi guidare dai due principi cardine dell’etica medica ippocratica: non fare cose dannose per il malato (principio di “non maleficità”) e scegliere trattamenti di efficacia dimostrata (principio di “beneficialità”). Questa impostazione è valida oggi quanto lo è stata in passato. Il suo limite è che non supera la prospettiva medico-centrica, piuttosto la rinforza: solo il medico sa, attingendo alla migliore conoscenza scientifica, ciò che è appropriato per il paziente.

Anche la tendenza culturale del nostro tempo, caratterizzato da una propensione crescente a mettere i professionisti sanitari sotto accusa quando i trattamenti non sortiscono l’effetto desiderato, toglie solidità all’orientamento etico che affida al medico il giudizio sul limite. Se la bilancia pende dalla parte della sicurezza, i medici in posizione difensiva tenderanno a fare

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di più, piuttosto che di meno. È significativo il commento di un medico americano apparso sulla rivista che proponeva il progetto Choosing wisely (scegliere saggiamente), centrato sull’omissione di pratiche di non provato beneficio: “Non ho mai visto un medico citato in giudizio per aver prescritto una risonanza magnetica” ― sottinteso: inutile o superflua ― “ma ne ho visti tanti per non averlo fatto”. Se i cittadini assumono una posizione di attacco, i medici si mettono sulla difensiva: si parla in situazioni come queste di causazione interdipendente. La medicina difensiva tende a eccedere verso il più, anche quando ciò che viene aggiunto non trova senso nella buona pratica clinica. Affidare solo all’etica il compito di stabilire i limiti, senza una tutela giuridica adeguata dei professionisti che li liberi dal compito di difendersi preventivamente, equivarrebbe a chiedere loro l’eroismo quotidiano.

3.2. Il punto di vista del malato

Il secondo punto di vista nel valutare il più e il meno è quello del malato. Egli non adotta il criterio della scienza, ma del proprio modello di salute e di ideale di vita. Il fondamento etico di tale punto di vista riposa sul principio di autodeterminazione del cittadino in ambito sanitario, implica il passaggio epocale dal modello di rapporto pre-moderno alla modernità in medicina. Ciò comporta che, a differenza del passato, il “bene del malato” non possa essere determinato senza la partecipazione attiva della persona coinvolta. Ne consegue una vasta area di variabilità, personale, anzitutto: ciò che è troppo per una persona, può essere troppo poco per un’altra. E per la stessa persona ci può essere una variabilità temporale: ciò che oggi è troppo poco, domani può essere considerato troppo; o viceversa. Si può conferire concretezza a queste affermazioni ricordando l’ultima intervista rilasciata da Margherita Hack. Descriveva al giornalista il suo precario stato di salute come frutto di una scelta. I medici le avevano consigliato un intervento cardiaco, ma lei l’aveva rifiutato: “Io ho 90 anni; magari con una lunga convalescenza potrei guadagnare qualche anno, ma ho vissuto abbastanza. Piuttosto che stare all’ospedale a far nulla, preferisco vivere gli ultimi mesi a casa mia, col marito, i gatti...”.

La variabile personale complica molto le decisioni del medico. Le preferenze del malato, infatti, possono essere agli occhi del medico non giustificabili, sia per difetto (rinuncia di trattamenti di provata efficacia), sia per eccesso (richiesta di interventi non sostenuti da prove scientifiche). Le regole deontologiche autorizzano il medico a rifiutare prestazioni professionali “in contrasto con la propria coscienza o con i convincimenti tecnico-scientifici” (Codice di deontologia medica, 2014, art. 22). Ciò implica, però, una complessa negoziazione, sia con il malato stesso che con i suoi familiari. Complicazioni ulteriori subentrano con pazienti molto anziani o che abbiano perso la capacità di dar voce alle proprie preferenze; in particolare nella fase terminale della malattia, quando “fare tutto il possibile” non ha né una giustificazione clinica, né un senso umanitario, ma può essere richiesto da qualcuno dei protagonisti delle decisioni.

Un esempio molto convincente delle perplessità che si presentano al clinico è offerto da Mukherjee in un suo saggio del 2011. La descrizione di un caso è introdotta con le parole con cui la figlia di una paziente si contrappone al medico: “Di più significa di più!”. Il medico aveva affermato, appunto, che talvolta ― come nel caso della paziente in questione, un’anziana signora affetta da un cancro in fase terminale ― less is more... Commenta il clinico: “La figlia voleva le cure migliori per la madre: i medici migliori, il farmaco migliore, più forte e più duro che il privilegio e i soldi fossero in grado di comprare (...) Suggerii di tentare con un farmaco palliativo che alleviasse i sintomi, piuttosto che spingere per un regime più duro che tentasse di guarire una malattia incurabile. La figlia mi guardò come se fossi matto: «Sono venuta qui perché tratti mia madre, non perché mi consoli parlando di malattie terminali e palliativi» disse in cagnesco”. Il seguito è prevedibile: “Alcune settimane dopo seppi che lei e sua figlia avevano trovato un altro medico, presumibilmente qualcuno disposto a soddisfare prontamente le loro richieste. Non so se la

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donna anziana sia morta di cancro o per le cure che ha ricevuto” 5.

Il caso clinico presenta anche una questione etica di non secondaria importanza: la titolarità di porre dei limiti. Non è detto che l’affetto ―come nella situazione descritta, di una figlia tutta dedita a quello che lei ritiene il bene della madre ― debba prevaricare i diritto della persona stessa a decidere il più e il meno, il troppo e il troppo poco. Ciò implica una revisione profonda dei modelli familistici propri della nostra cultura, in cui è la famiglia, non il malato, la titolare delle decisioni. Dal punto di vista sia giuridico che deontologico le regole sono cambiate, ma la cultura è restia a riconoscere la prevalenza del punto di vista della persona rispetto ai suoi familiari, anche di quelli più legati al malato da affetto e non motivati in senso egoistico. Accettare la titolarità prevalente del malato a porre la linea di demarcazione implica un cambio culturale.

3.3. Il punto di vista dell’organizzazione sanitaria

Il terzo punto di vista dal quale valutare il più e il meno, per porre il limite appropriato, è quello dell’organizzazione sanitaria. Il principio guida è quello della giustizia, considerando il giusto equilibrio tra le risorse impiegate e i bisogni di salute da soddisfare. È il tema centrale di ogni organizzazione di Sanità pubblica. Appropriatezza significa evitare gli sprechi, senza compromettere il livello di servizi promessi dal welfare in atto. È un punto di vista che non può prescindere da una quantificazione delle risorse, senza tuttavia essere ridotto a questa dimensione. Il pericolo è quello di cadere nell’idolatria del budget. I “tagli lineari” in sanità in tempi di revisione della spesa (spending review) forniscono ampia casistica di che cosa può significare introdurre dei “meno” sganciati dalla ricerca del “più” in termini di salute e di qualità dei servizi.

Più di vent'anni fa, in epoca di prima “aziendalizzazione” del Servizio sanitario, qualche buontempone fece circolare negli ambienti medici una “Valutazione tecnico-economica di una prestazione di servizio”. Oggetto: la sinfonia ‘Incompiuta’ di Schubert, eseguita dall’orchestra filarmonica: “Per un periodo piuttosto lungo i 4 suonatori di oboe non hanno avuto nulla da fare. Il loro numero dovrebbe essere ridotto e il lavoro distribuito su tutta l’orchestra, eliminando così gli sprechi di attività. Tutti i 12 violini suonavano esattamente le stesse note. Questo sembra una inutile duplicazione e il personale di questa sezione dovrebbe esser drasticamente ridimensionato. Se fosse richiesto un gran volume di suono, si potrebbe ovviare con potenti amplificatori (...) Se tutti i passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe esser ridotto da 2 ore a 2 minuti. Se Schubert avesse prestato attenzione a questi semplici punti, probabilmente avrebbe avuto il tempo di terminare la sinfonia”.

Allora, quando all’inizio degli anni ’90 si cercava di dar vita alla “riforma della Riforma sanitaria”, questa parodia della “aziendalizzazione” poteva sembrare ingiusta e fuori misura. Purtroppo molti tagli sembra siano stati fatti in seguito con la stessa miopia culturale presa di mira dalla satira; e soprattutto senza capire la specificità di un servizio alla salute. Non basta enfatizzare tagli e risparmi economici per qualificare il “meno” come auspicabile.

Ci si può domandare: quale dei tre punti di vista deve essere attivato per valutare se si stia veramente erogando “quel meno che contiene anche il più”? Non ce n’è uno privilegiato, ma tutte tre devono essere tenuti in considerazione. Ciò significa riconoscere che la medicina è chiamata a uscire dall’infanzia, a superare i tumulti dell’adolescenza e a diventare adulta, affrontando la complessità. Parallelamente anche i cittadini sono chiamati a maggiore consapevolezza e responsabilità nelle scelte sanitarie.

4. Giusta e ingiusta soddisfazione

Con un percorso diverso da quello dei progressi tecnico-scientifici della medicina, nella società contemporanea ha avuto luogo un cambiamento di rapporti tra i protagonisti della

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cura: con più lentezza, ma in modo radicale. Il centro di gravitazione dell’interesse si è spostato dal professionista che fornisce il servizio al cittadino/utente che ne usufruisce. In regime di paternalismo ― anche il più illuminato ― il criterio di valutazione di ciò che viene offerto al malato o bisognoso di cure (compresa la prevenzione) è fornito dal professionista stesso. Il medico ha per secoli rivendicato il diritto-dovere di prendere le sue decisioni “in scienza e coscienza”, come se il suo sapere e la sua morale totalizzassero tutte le forme di tutela che si possono offrire al cittadino. Chi ricorre a un professionista di servizi sanitari o sociali viene così a trovarsi in una posizione molto particolare, che non assomiglia affatto a quella che nella normale vita sociale viene attribuita al “cliente”: i suoi bisogni, infatti, non sono definiti da lui stesso, ma dal professionista, che è accreditato a inserire la domanda entro la griglia offerta dal suo sapere. In tale schema non c’è alcuno spazio per considerare la “soddisfazione” di chi riceve il servizio.

L'evoluzione dell’organizzazione sanitaria ― fino al modello chiamato, con molta approssimazione, di “aziendalizzazione” ― ha introdotto prepotentemente l’esigenza di considerare la soddisfazione di chi riceve i servizi anche nella Sanità pubblica (quella privata l’ha sempre tenuta presente!). È un passaggio particolarmente insidioso. Il fruitore dei servizi, non più considerato un paziente da curare, rischia il ruolo ambiguo di “cliente”. Occorre essere consapevoli che in tal modo si introducono le premesse per affossare valori importantissimi che sono stati trasmessi in 25 secoli di medicina, come l’orientamento dell’azione medica al bene del paziente.

Promuovendo il malato-cliente non si deve dimenticare che la sua soddisfazione non è un imperativo assoluto, sciolto cioè da vincoli morali. Qualsiasi azienda, ma ancor più una realtà sanitaria quand’anche fosse chiamata con questo nome, deve esser sottoposta alle esigenze dell’etica. Il cittadino paziente non va soddisfatto in qualsiasi modo, ma solo in modo giusto. Un supporto sistematico per visualizzare i problemi della soddisfazione in rapporto con le esigenze dell’etica può essere fornito dal “quadrilatero della soddisfazione”. Incrociando la soddisfazione con i criteri etici (giusto/ingiusto), si possono avere quattro posizioni (v. Fig. 1).

Le ragioni dell’insoddisfazione sono diverse e possono essere qualificate come buone o cattive. È ovviamente insoddisfatto il paziente a cui, per incuria o incompetenza, non sia stato ben diagnosticato e appropriatamente trattato il suo male: egli ha diritto, secondo il principio del “bene del paziente” da promuovere, difeso dall’etica medica di stampo ippocratico, che sia messo in atto tutto ciò che gli procura il beneficio che è autorizzato ad aspettarsi. Ma sarà insoddisfatto anche il paziente diabetico ― per fare un esempio ― che venga “messo a insulina” d’autorità, senza che gli sia spiegato il significato e la necessità della decisione terapeutica, i vantaggi che ne ricava e le esigenze di compliance: lo richiede il rispetto della sua autonomia e l’esigenza di coinvolgimento nelle decisioni mediche.

Anche la soddisfazione del paziente va confrontata con alcune esigenze imprescindibili. Per portare un esempio tratto dal nursing: come sanno tutti coloro che lavorano in ambito geriatrico, gli anziani spesso non sentono lo stimolo della sete e rifiutano di bere. Sarebbe soddisfatto, ma ingiustamente, l’anziano che fosse lasciato semplicemente alle sue preferenze, e non trattato secondo le esigenze della scienza infermieristica. In questo caso, ciò che determina se la soddisfazione soggettiva del paziente sia giusta o ingiusta è il sapere proprio del professionista. Il criterio della “scienza” (e coscienza...) in medicina rimane sempre valido, anche se deve essere accompagnato dagli altri criteri e non può più ergersi a principio unico e assoluto.

I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti. Alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a fornire delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio); altri a danno di terzi. È chiaro, per esempio, che il paziente a cui si faccia, per privilegio o favoritismo, saltare la lista di attesa è soddisfatto; ma è ingiustamente soddisfatto, se si considerano le esigenze dell’equità nell’erogazione dei servizi.

Se la soddisfazione non è l’ultimo criterio di qualità, ma va piuttosto misurata con le esigenze

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dell’etica, la stessa cosa si può dire dell’insoddisfazione. Ci sono casi in cui il fruitore di servizi è ingiustamente insoddisfatto. Questo è il caso del paziente che va dal medico di medicina generale con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al vicino o di cui si parla di più nella piazza mediatica...), oppure richiede un trattamento di compiacenza, come un certificato falso di malattia. Se questo paziente non viene soddisfatto, cioè gli viene negato ciò che richiede in modo illegittimo rispetto alle esigenze dell’appropriatezza clinica o della giustizia sociale, allora è ingiustamente soddisfatto.

La prospettiva interessante che apre il “quadrilatero della soddisfazione” è quella di proporre una visione dinamica dell’etica. Troppo spesso letica è identificata con una istanza che giudica i comportamenti ― buono o cattivo, giusto o ingiusto, appropriato o non appropriato ― ma è meno adatta a ottenere delle trasformazioni significative dei comportamenti. La prospettiva cambia se, tenendo a mente il quadrilatero della soddisfazione, ci si domanda: quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente, che nel grafico si trova in quadrante inferiore, passi a uno superiore? L'obiettivo ideale è che si collochi nel primo a sinistra, tra coloro che sono giustamente soddisfatti; ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia giustamente insoddisfatto. Questa possibilità di una insoddisfazione insanabile libera da un complesso di onnipotenza: non si può far sì che tutti siano soddisfatti, ma ci si può almeno impegnare per evitare che lo siano ingiustamente!

L'etica appare così come uno strumento operativo: stimola a fare qualcosa per modificare una situazione. L'etica in sanità è essenzialmente un insieme di interventi dinamici, tesi a un risultato. La qualità dell’intervento sanitario, infine, sta nella sua capacità di integrare i diversi elementi: ciò che la scienza ritiene assodato e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del “cliente” che ha sempre ragione...); ciò che è conciliabile con le esigenze dei diritti umani e con l’autodeterminazione del paziente; ciò che promana dall’orizzonte dell’ottimizzazione delle risorse nell’epoca dell’organizzazione sotto il segno della scarsità.

Figura 1 - Il quadrilatero della soddisfazione del paziente

giustamente

soddisfatto

giustamente

insoddisfatto

ingiustamente

soddisfatto

ingiustamente

insoddisfatto

Note

1 M. Vetturino, Si è fatto tutto il possibile, Mondadori, Milano 2008.

2 S. Shem, La Casa di Dio, Feltrinelli, Milano 2001.

3 Vedi parte I, cap. 3.

4 Letteralmente medicina lenta. Vedi parte III, sez. 2, cap. 6.

5 S. Mukherjee, L’imperatore del male. Una biografia del cancro, Neri Pozza, Vicenza 2011.