Riemergenza dei valori nell’ambito della salute

Sandro Spinsanti

RIEMERGENZA DEI VALORI NELL'AMBITO DELLA SALUTE

in Marco Ingrosso - Ferdinando Montuschi - Sandro Spinsanti, Salute malattia

Cittadella Editrice, Assisi 1996

pp. 113-178

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1. «Malasanità» e buona sanità

La salute è diventata uno dei nodi cruciali della cultura contemporanea. Per quanto riguarda l'Italia, basterebbe seguire il filo rosso del dibattito sociale che ha accompagnato i nostri tentativi di darci un'assistenza sanitaria pubblica degna di un paese civile (la Riforma del 1975, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale e, dopo il suo clamoroso fallimento, gli attuali progetti di. «riforma della riforma», con l'aziendalizzazione degli ospedali e delle Usi). Tutto ciò ha contribuito a portare in primo piano nell'opinione pubblica i problemi organizzativi della sanità. Ma soprattutto sta maturando lentamente la convinzione che, al di sopra delle questioni di politica sanitaria, campeggia il problema della salute dell'uomo, e che questo sia essenzialmente un problema di civiltà. Si può sottoscrivere l'opinione di chi ritiene che proprio nella sanità emerga un profondo slittamento che si sta insensibilmente operando da un tipo di civiltà a un altro: mentre il XIX secolo metteva in risalto soprattutto il diritto al lavoro, il nostro tempo insiste sul diritto alla felicità. È uno spostamento di prospettiva che incide non solo sui problemi della salute, ma sulla concezione stessa dell’uomo.

La sanità come luogo di conflitti

Il problema della salute, al centro dell'opinione pubblica e delle preoccupazioni personali, sta diventando una discriminante culturale e politica. Su di esso si manifestano

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in tutta la loro diversità le concezioni antropologiche che sottendono la convivenza civile. Ciò crea tensioni che fanno del mondo sanitario un luogo di vivaci conflitti. Ricorrendo alla schematizzazione sopra proposta, potremmo dire che l'ospedale sta prendendo il posto della fabbrica come luogo simbolico e reale dove si giocano le conflittualità che attraversano le nostre società.

Di conflitti ne osserviamo anzitutto in sede di programmazione economica. Le spese per la salute pongono all'economia politica di tutti i paesi ad alto sviluppo industriale problemi tra i più ardui. Aumentano ovunque in modo esponenziale, secondo una progressione geometrica, qualunque sia il sistema dei servizi adottato. I responsabili della politica economica si trovano di fronte al dilemma di conciliare la qualità del servizio con la sua efficacia ed economicità. La difficoltà del problema è costituita dal fatto che l'economia politica applicata alla salute deve tener conto di numerose variabili che trascendono l'ambito tecnico di questa disciplina. La salute e la malattia sono infatti realtà sociali che riflettono ogni minima variazione culturale, ivi compresi i cambiamenti che avvengono nella scala dei valori. Una politica della salute conduce inevitabilmente a delle scelte, determinate dagli orientamenti prioritari verso certe classi di età, verso determinate patologie o finalità sociali.

Mai, in ogni caso, una tale politica potrà lasciarsi guidare esclusivamente da considerazioni del tipo costi/benefici, perché la vita umana non è un bene omogeneo agli altri beni. Anche l'economia politica, quando deve decidere degli investimenti da fare, non può sottrarsi a interrogativi di tipo etico. Questo è il motivo per cui in ambito sanitario si scontrano così violentemente le ideologie. Nel campo della salute vengono infatti a collisione i diversi progetti che si hanno sull'uomo, sul suo divenire e la sua felicità, nonché le diverse concezioni della società.

I partiti politici sono aggressivamente presenti in questo settore: non possono infatti dimenticare che nella sanità pubblica l'aspetto organizzativo ha un'importanza capitale. Spesso coesistono interessi contrari: il liberalismo, sostenuto per lo più dal corpo medico, si scontra col

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centralismo tecnocratico rappresentato dall’amministrazione e con i progetti decentrati e partecipativi, fermamente decisi a superare la condizione di «assistito», tradizionalmente riservato al malato.

La convinzione che la salute sia un prodotto industriale come un altro, il cui aumento dipende dal volume degli stanziamenti che si fanno nel settore, porta con sé anche l'attesa che il gruppo professionale che si occupa della salute gestisca «in toto» il settore. Un'educazione sanitaria accurata dovrebbe contrastare tale tendenza, permettendo all'individuo di affrontare da protagonista tutto quello che capita alla sua salute. Questa è non solo un diritto da rivendicare alla società, ma anche un «dovere» che domanda un impegno positivo; una «virtù», come la chiama il sociologo Ivan Illich. La salute non si può ricevere: bisogna «farla».

I conflitti sociali da cui abbiamo preso le mosse sono i più macroscopici. Al di sotto, uno sguardo accurato scopre che le questioni della salute confrontano l'uomo non solo con scelte sociali, politiche e ideologiche diverse, ma con il problema maggiore dell'umanesimo nella sua totalità: il rapporto che l'uomo ha con il suo corpo.

Lo stadio attuale di civiltà industriale avanzata che stiamo attraversando ci pone di fronte al corpo, in quanto luogo dell'esperienza esistenziale più pregnante, in modo diverso rispetto al passato. Abbiamo superato, forse definitivamente, il dualismo tradizionale che contrapponeva l'anima al corpo. In polemica con lo spiritualismo dualista ― il corpo come pura materialità e l'anima come principio spirituale ― il pensiero moderno ha ritrovato l'unità dell'uomo reale. La corporeità, vista come momento essenziale del soggetto, è la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone umane. Tuttavia oggi la nostra presenza al mondo tramite il corpo è legata a varie forme di disagio. Si diffonde la convinzione che a un rapporto sbagliato con la natura, oggetto del vivace dibattito ecologico, si accompagni la perversione del rapporto con la concreta struttura biologica del nostro corpo.

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La perdita dell’armonia corporea è una delle malattie più gravi della civiltà. Abbiamo disimparato il linguaggio delle funzioni vegetative. Il corpo sembra aver perso la sua trasparenza, ci è diventato estraneo, quasi nemico. L’alienazione ha assunto un aspetto biologico ben definito, che passa attraverso il rapporto stesso che abbiamo col nostro corpo. «Riappropriazione del corpo» è diventato lo slogan di diversi movimenti culturali, che propugnano un salto nella qualità della vita. Riappropriarsi del corpo è il presupposto per vivere da protagonisti l'avventura della salute.

Domanda di salute e riferimento ai valori

Percezioni diverse del corpo, della sua integrità vitale, della sua funzionalità sana o malata, e di conseguenza dell'intervento terapeutico adeguato richiesto dalla situazione, producono stili di razionalità etiche diverse. Se vogliamo renderci conto di ciò che avviene in sanità, siamo necessariamente rinviati al concetto di salute con cui sanitari e pazienti operano. La chiarificazione del concetto di salute è più che una premessa a un discorso formalmente etico: entra costitutivamente nel «medical decision making» e perciò ne condiziona necessariamente la dimensione etica.

Per accedere a un'analisi della salute di maggior spessore antropologico, bisogna portare a livello esplicito le assunzioni che sottostanno implicitamente alla pratica sanitaria quotidiana. Queste si rivelano il più delle volte come modelli esplicativi ingenui, che semplificano la realtà dei vissuti umani di salute e malattia. Nello schema interpretativo più comune salute e malattia costituiscono due opposti, definibili ognuno tramite il proprio contrario. Si assume che esista un sapere (scientifico) che «spiega» la malattia, mediante un percorso standardizzato; l'apparato diagnostico decodifica i sintomi, riconducendoli a una precisa nosologia; quando una costellazione di sintomi è riferita a un quadro tassonomico, acquista lo statuto di «malattia». Si presume, infine, che

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la relazione terapeutica riposi su un atteggiamento lineare e non ambiguo del paziente, il quale ricerca la salute e vuol evitare la malattia.

L'analisi antropologica delle concezioni della salute presenti nella nostra cultura rivela invece un quadro più complesso. Coesistono almeno tre diversi paradigmi, ognuno dei quali concettualizza la salute in un modo caratteristico.

a) Salute come norma di efficienza. La salute, sganciata dai vissuti soggettivi di benessere o malessere, è rapportata ai dati oggettivi di buona rispondenza alle aspettative sociali. Il malato è socialmente un «deviante», il quale ricopre un ruolo che gli permette di non rispettare gli impegni del vivere sociale.

In questo paradigma la guarigione equivale al ristabilimento dello stato precedente di normale efficienza. Il contratto terapeutico è centrato sulla richiesta, esplicita o implicita, da parte del paziente, di tornare nella condizione precedente all'insorgere della condizione morbosa. La strategia terapeutica si identifica con l'eliminazione dei sintomi, intesi come un evento incidentale nella vita del soggetto.

b) Salute come esperienza di equilibrio psicofisico. A un approccio fenomenologico salute e malattia appaiono come vissuti soggettivi, nei quali degli «eventi dotati di senso» connotano il fluire dell'esperienza quotidiana. La salute equivale a un equilibrio, per lo più silenzioso e scontato, che accompagna la vita di tutti i giorni; l'alterazione dell'equilibrio si annuncia dolorosamente attraverso i sintomi.

I sintomi parlano alla soggettività del malato e funzionano da spie dello squilibrio. Non devono essere solo «spiegati» ― cioè ricondotti a un quadro nosografico ― ma «compresi». La malattia non appare come un semplice incidente da mettere tra parentesi: è un'occasione significativa per cogliere uno squilibrio da colmare. La guarigione non si identifica con la pura e semplice scomparsa dei sintomi, ma con il raggiungimento di un nuovo equilibrio, attraverso un processo di crescita di consapevolezza e di responsabilità.

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c) Salute come stile di vita. La critica alla «medicalizzazione» della salute 1 e una maggior attenzione per le variabili socio-ambientali di essa hanno indotto a spostare l’accento sullo stile di vita complessivo. In questo paradigma la salute si definisce in rapporto a fattori non medici, come condizioni di lavoro e di abitazione, alimentazione, igiene e habitat. La promozione della salute si identifica con il favorire comportamenti che prevengano sia l’insorgere della patologia, sia la rottura degli equilibri psico-fisici. Il progetto terapeutico in questo paradigma comprende elementi ancor più intrecciati con la dimensione etica e spirituale dell'uomo, come l’acquisizione di una migliore competenza conoscitiva da parte del soggetto e di maggiore autonomia nelle scelte. La ricerca empirica supporta questa visione più differenziata della salute, propria delle società contemporanee. Assumendo come riferimento le richieste che i cittadini del nostro paese rivolgono ai terapeuti e al sistema sanitario (La domanda di salute in Italia, 1989; La salute degli italiani, 1992), notiamo che la domanda di salute si allinea in modo crescente su una concezione antropologica che privilegia le dimensioni esistenziali e ambientali.

Recede una concezione della salute in cui questa è identificata esclusivamente con gli aspetti organici o misurata con criteri di efficienza socialmente standardizzati (primo paradigma, in cui la salute coincide, praticamente, con la «normalità»: è sano chi non devia da ciò che la società reputa normale, come ad esempio la capacità di lavorare) . Tende invece a emergere sempre più nettamente la ricerca della salute come benessere psico-fisico e come equilibrio ambientale, prodotto da una migliore qualità di vita (secondo e terzo paradigma).

Nell’area della salute bisogna distinguere un nucleo duro, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte o di cronicità, e un vasto insieme sistemico a dimensione somato-psichico-ambientale, centrato sulla ricerca

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del benessere. Nei confronti del primo aspetto permangono gli elementi più tradizionali, che possiamo osservare in azione quando sopravviene una minaccia alla vita o all’integrità. Quando è in gioco la vita, il paziente tende a essere passivo, affidandosi al medico e alla struttura sanitaria, a cui consegna l’organismo-macchina per la riparazione. Prevale la concezione organicistica del corpo, considerato come un insieme di pezzi di ricambio.

Là dove, invece, si fa strada la nuova domanda di salute, lo scenario cambia. Il paziente richiede un ruolo attivo nel promuovere il proprio benessere psico-fisico; non si consegna passivamente, ma vuole autotutelarsi e gestire autonomamente la salute; entra con il medico in un rapporto che tende a essere paritario, «contrattando» la terapia, combinando autonomamente diverse offerte, sperimentando nuovi percorsi. L’obiettivo diventa quello della qualità e si traduce nella ricerca di stili di vita che garantiscano il benessere totale.

La differenziazione dei modelli di salute ha forti ripercussioni sul rapporto terapeutico e sull’etica che lo regola 2. Man mano che si procede verso paradigmi di salute e guarigione più complessi e personalizzati, la ricerca del «bene del paziente» non può fare a meno di richiedere il coinvolgimento attivo del paziente stesso, la considerazione dei suoi valori e delle sue preferenze, il rispetto dell’autodeterminazione. Si impone un modello di rapporto che procede con decisione da un atteggiamento prevalentemente paternalista a un sincero apprezzamento e promozione dell'autonomia del paziente.

Un altro compito dell’etica nei confronti della nuova cultura della salute è quello di promuovere un discernimento. Si diffondono, infatti, comportamenti che sono allo stesso tempo carichi di promesse, ma non privi di ambiguità. Una fonte di preoccupazioni è il modo di trattare il corpo. Nella cultura della salute che prevale, l’accento

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tende a spostarsi: non si tratta solo di evitare le malattie che colpiscono il corpo, ma di lasciarlo attraversare dalla forza plasmatrice del desiderio, che lo correla non solo ai valori etici, ma anche agli obiettivi estetici ed edonistici della persona.

Il discernimento etico deve saper demarcare i pericoli di una proliferazione indistinta di richieste nello spirito del consumismo dai vantaggi antropologici che derivano dalla diffusione di una nuova e più positiva immagine della corporeità. La nuova cultura della salute promuove una concezione del corpo non più visto come polo opposto della psiche, luogo di avvenimenti patologici senza alcuna correlazione con il mondo delle rappresentazioni mentali, dei simboli, delle emozioni 3. Questo corpo antropologizzato, inteso come organo di un tutto integrato, qual è l'essere umano nella sua interezza, è molto più aperto allo spirito di quanto possa esserlo quello dipendente da una concezione dualistica, platonica o cartesiana che sia. È il luogo dove le scelte legate alla salute raggiungono il più alto significato e la più intensa drammaticità.

Privato e pubblico: due campi di gravitazione della domanda di etica

Nei mass media è diventato un uso linguistico comune riferirsi all'insieme delle problematiche morali connesse con la cura della salute e la promozione della vita mediante il termine «bioetica». All'inizio degli anni '70, quando il termine fu coniato e furono delineati i primi contorni della disciplina, il centro di gravitazione era ancora costituito dalla tradizionale etica medica. Si trattava di delimitare le procedure lecite da quelle illecite, in un contesto in cui l'impatto dirompente della tecnologia aveva modificato i contorni tradizionali dell'atto medico e la società pluralista non permetteva più un allineamento su

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un sistema di valori morali omogeneo. Oggi, dopo cinque lustri, la riflessione etica sui problemi della vita e della salute si è estesa ben oltre le situazioni-limite che continuano a interessare i media (e che potremmo qualificare come «bioetica-spettacolo»: madri-nonne, ingegneria genetica e creazioni di nuove specie, trapianti uomini-animali, interventi miracolistici sulla frontiera della fine o su quella dell'inizio della vita...). L'etica si occupa in misura crescente della cura della vita in senso estensivo, riflettendo sui comportamenti responsabili non solo dei professionisti e degli scienziati, ma anche dei singoli e delle società.

Secondo la formula a effetto di Stephen Toulmin, la svolta avvenuta una ventina d'anni fa in medicina «ha salvato la vita all'etica» 4. Lo storico della filosofia intendeva dire con ciò che la complessità dei problemi connessi con la medicina tecnologica ha costretto l'etica a uscire dal suo astratto accademismo e a occuparsi di problemi concreti. In altre parole, l'orizzonte della bioetica ha restituito all'etica la serietà e la rilevanza morale che sembrava aver perduto.

Qualcosa di analogo possiamo affermare circa le religioni. La complessità dei problemi posti dalle innovazioni tecnologiche in biologia e in medicina e i pericoli che minacciano la vita stessa sulla terra sembrano fornire alle religioni una opportunità insperata di essere presenti sulla scena del mondo. Il loro patrimonio di saggezza è ascoltato con una serietà che era data per scomparsa per sempre, dopo il trionfo dell'Illuminismo. Il magistero morale delle religioni nell'ambito delle questioni collegate con l'etica della vita ha una risonanza che eccede ampiamente la cerchia dei fedeli.

Le grandi religioni storiche hanno tradizionalmente portato un vivo interesse ai problemi connessi con l'arte del guarire e si sono intensamente impegnate a elevare in senso morale la motivazione dei sanitari, additando loro ideali di spiritualità nel servizio dei malati. Erano

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perciò spontaneamente orientate a sintonizzarsi sulle tematiche proposte dal nuovo movimento della bioetica. Questa, da parte sua, non ha soltanto un legame storico con l'etica medica promossa dalle religioni della tradizione culturale dell'Occidente. Anche nel più recente passato si sono evidenziate delle interconnessioni profonde tra la riflessione filosofica nata all'interno delle scienze della vita e l'impegno umanistico condotto in nome della fede religiosa. In particolare alle chiese cristiane ― la chiesa presbiteriana negli Stati Uniti, che ha creato e sostenuto la «Society for health and human values»; nell'ambito della chiesa cattolica si sono distinti soprattutto ordini religiosi ospedalieri, come i Fatebenefratelli e i Camilliani, nel promuovere la problematica deH'«umanizzazione» in medicina ― va accreditato uno degli impulsi più decisivi per riportare il problema dei valori umani al centro delle cure sanitarie. Tuttavia, quando la bioetica si è elevata alla condizione di dimora intellettuale per un gruppo ben individuato di pubblici esperti nei problemi etici della medicina, il ruolo svolto dagli studiosi esplicitamente radicati nella teologia è diventato sempre più marginale.

La bioetica si è sviluppata come un discorso secolare, condotto dai filosofi, volgendo deliberatamente le spalle all'ispirazione religiosa originaria. Parallelamente all'emergere delle voci dei «bioeticisti», sempre più accreditati a prendere la parola in pubblico per sviluppare la riflessione sulle questioni connesse con il progresso biomedico, i teologi si ritiravano nei loro territori. La disciplina è andata sempre più sviluppandosi all'insegna della filosofia morale, mentre l'articolazione religiosa del discorso è stata relegata nella dimensione privata dell'esperienza morale. Si è venuto così a creare un duplice ambito ― uno di rilevanza privata, collegato con la comunità morale di libera scelta, e l'altro pubblico, che riguarda tutti i cittadini, qualunque siano i loro orientamenti etici ― in cui prende corpo la domanda di etica riferita alla salute e alla malattia.

Il collegamento tra i due ambiti è vario quanto è vario il modo delle comunità dei credenti di rapportarsi al

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mondo. Possiamo trovare dialogo e collaborazione, così come intolleranza reciproca. La belligeranza dei gruppi religiosi contro la modernità ― che include la contestazione della possibilità di elaborare un progetto secolare veramente morale ― suscita come reazione la belligeranza delle etiche laiche contro le religioni, mettendo in discussione la loro pretesa di determinare le condotte umane come buone per una via diversa da quella puramente razionale. Il confronto fondamentalista non è una soluzione accettabile, così come non lo è il compromesso.

La via di soluzione di questi conflitti passa per lo scrupoloso rispetto della libertà religiosa di tutte le persone, da una parte, e per l'accettazione, da parte delle religioni, dei «minimi etici» che lo Stato deve esigere coercitivamente da tutti. Siamo qui nell'ambito dell'etica civile, che si articola con la morale individuale in una dialettica di etica del «minimo morale» (che obbliga indistintamente tutti i cittadini) ed etica del «massimo morale» (che corrisponde ai valori che ognuno liberamente sceglie come guida del proprio comportamento). L'etica civile deve essere stabilita mediante procedimenti partecipativi e democratici, e pertanto deve rispettare il parere di tutti, secondo i meccanismi che portano alla formazione della maggioranza.

È vero che le opinioni morali ― anche quelle della maggioranza! ― possono essere sbagliate, o può sembrare ad alcuni che lo siano. Ma questa convinzione legittima solo a iniziare un dibattito o a promuovere un processo di educazione morale della società, nel quale esercitare la propria capacità di convincere gli altri, con argomenti razionali, a far proprie le ragioni addotte. Ogni altro procedimento, che invece di proporre ed educare cerchi di imporre, deve considerarsi, in linea di principio, inaccettabile nella nostra epoca. Proprio le questioni connesse con la malattia e la cura della salute sono diventate un luogo cruciale in cui viene messa alla prova la nostra capacità di tolleranza e di dialogo.

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Efficienza e qualità come risposta alla crisi dello stato sociale

La crisi legata alla necessità di contenere la spesa sanitaria ― presa nella forbice costituita dall'aumento delle richieste e dei costi, da una parte, e dalla necessità di ridurre l'indebitamento pubblico, dall'altra ― non si traduce solo in lotta agli sprechi, razionalizzazione delle risorse, tagli alle spese, scelte prioritarie. Se così fosse, avremmo perso l'occasione offerta dal momento culturale attuale di rivedere in profondità i comportamenti, tanto dei sanitari, quanto dei cittadini che ricorrono ai servizi offerti dalla medicina. Non si tratta solo di un problema amministrativo di risanamento della finanza pubblica: è necessario arrivare a cambiare il modello di civiltà sanitaria. Per questo non possiamo limitarci a offrire meno servizi o prestazioni. Bisogna fornire un «meno» che sia qualitativamente «di più». Si tratta, quindi, di un problema di qualità, che si sposa all'efficienza con risposta globale nella crisi dello stato sociale.

Questa prospettiva ci porta lontano dalle vie che siamo abituati a percorrere quando cerchiamo la «buona medicina». Dobbiamo discostarci dal modo tradizionale di capire il ruolo del medico, secondo il quale il sanitario nelle sue scelte cliniche deve lasciarsi guidare unicamente dalla considerazione del bene del malato. L'etica ha rinforzato la voluta estraneità del medico nei confronti di preoccupazioni che non siano di ordine clinico, in particolare di quelle di natura economica: la più alta disapprovazione morale cadrebbe su un medico che sottraesse una cura benefica al malato, per il motivo che è troppo costosa. La socializzazione della medicina ― che ha portato nel nostro Paese alla costituzione di un Servizio sanitario nazionale ― ha ulteriormente allontanato le preoccupazioni di ordine economico dalle decisioni cliniche. L'intervento del «terzo pagante», mediante un meccanismo anonimo di ripartizione, ha estraniato ancora di più la pratica quotidiana della medicina dalla considerazione dei costi. Anche da parte dei cittadini si è innescato un meccanismo di corsa al consumo sanitario, che ha dovuto essere corretto con

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misure restrittive e responsabilizzanti di politica sanitaria (introduzione di ticket e altre forme di partecipazione diretta alla spesa).

Il modello tradizionale viene già messo in crisi dal passaggio all'epoca moderna. Per fare «buona medicina» non basta orientarsi secondo le ultime acquisizioni della ricerca e della clinica: oltre a questo, il medico deve anche considerare come incidono sulle scelte cliniche i valori che strutturano la vita e le relazioni delle persone. Un ulteriore elemento destabilizzante entra nelle nostre attese nei confronti di una medicina di qualità: l'intervento sanitario deve tendere a ottimizzare l'uso delle risorse e a rispondere alle esigenze organizzative, così come avviene in ogni azienda efficiente. L'idea stessa di qualità in questo modo si amplia. Un buon atto medico deve soddisfare contemporaneamente diverse esigenze: promuovere il bene del paziente, aggredendo la patologia e tutelando la salute; rispettare l'autonomia del paziente in quanto persona umana, con i suoi diritti e responsabilità; ottimizzare l'uso delle risorse mediante una gestione che miri all'efficienza e alla soddisfazione del cliente.

Il cambiamento culturale che il nuovo concetto di qualità dell'atto medico presuppone è notevole. Qualcuno teme che la medicina, proponendosi come obiettivi anche efficienza, produttività e pareggio del bilancio, perda l'orientamento etico che gli è connaturale. Probabilmente il termine «azienda», con tutte le associazioni di tipo economico che comporta, può essere fuorviante. Nella trasformazione necessaria ci sono anche delle opportunità di miglioramento nel senso auspicato da coloro che da tempo stanno ricordando alla nostra società che l'«umanizzazione» della medicina è una delle priorità non differibili. L'indicazione, antica e nuovissima allo stesso tempo, è quella di mettere il paziente al centro dei servizi sanitari. L'affermazione è stata per lo più utilizzata nel senso di un'esortazione morale al rispetto del malato. Oggi, pur continuando ad attribuire il massimo valore alla disposizione interiore filantropica e compassionevole, dobbiamo prendere la centralità del malato come un'indicazione di natura gestionale. Si tratta di organizzare i servizi

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sanitari lasciandoci guidare dal paziente stesso, il quale, in qualità di «cliente», è in grado di aiutare chi lavora nelle strutture sanitarie e dare ai servizi la qualità eccellente, che si traduce nella soddisfazione dell'utente.

È questa l'ispirazione che ha portato alla «Carta dei servizi pubblici sanitari», proposta dal Dipartimento della funzione pubblica (Presidenza del Consiglio dei ministri) e dal Ministero della Sanità (1995) «Non si tratta ― afferma il documento ― di una tutela intesa come un riconoscimento formale di garanzie al cittadino, ma di attribuzione allo stesso di un potere di controllo diretto sulla qualità dei servizi erogati». Ai cittadini viene attribuito un ruolo forte nell'orientare l'attività dei servizi pubblici verso la loro «missione»: fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti. Questa è, nel senso più alto, l'opportunità insita nel passaggio dalla centralità del paziente come atteggiamento eticamente auspicabile alla centralità quale strategia aziendale per il miglioramento continuo della qualità.

Chi teme che l'interesse dell'«azienda» sanitaria a soddisfare (e quindi a conservarsi) il paziente-cliente possa svuotare di contenuto morale la pratica della medicina, può tranquillizzarsi. Anche gli affari, infatti, devono fare i conti con le esigenze morali. Prima di tutto, perché un cliente soddisfatto, ma imbrogliato, si vendica: in sanità, le bugie hanno le gambe particolarmente corte e sarà sempre più difficile, con la maggiore informazione in materia di salute, avere pazienti soddisfatti se quello che è stato offerto non ha risposto alle loro legittime attese. E poi perché in medicina ci sono obblighi morali che vincolano comunque, indipendentemente dalla soddisfazione o insoddisfazione del paziente.

Gli obblighi morali a cui sottostà tutta la pratica medica sono principalmente due: non procurare danno a nessuno (primum non nocere) e trattare tutti con giustizia ed equità. È chiaro che un paziente a cui, per privilegio o raccomandazione, si fa saltare una lista di attesa ― per un trapianto di organo o anche solo per anticipare un esame diagnostico ― potrà essere soddisfatto. Ma sarà «ingiustamente» soddisfatto. E altri saranno insoddisfatti.

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L'etica, allora, dovrà vigilare affinché la soddisfazione vada di pari passo con le esigenze morali minime, che tutti riconoscono essere inderogabili. Nei tempi lunghi, dunque, il successo sarà di chi ha come obiettivo non il paziente a ogni costo soddisfatto, ma il paziente «giustamente» soddisfatto.

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2. La medicina pre-moderna e il riferimento al «bene del paziente»

Noi oggi, alla fine del XX secolo, cerchiamo una «buona» medicina per rispondere ai nostri problemi di salute, non meno di quanto abbiano fatto i nostri antenati o i nostri padri, soltanto una generazione fa. Ma la nostra idea di ciò che corrisponde a buona o cattiva medicina è cambiata, così come sono cambiate le nostre attese nei confronti di un ospedale o del servizio sanitario pubblico. Per renderci conto della portata di questo cambiamento dobbiamo considerare che si tratta di un'innovazione introdotta in ciò che l'Occidente può vantare di più stabile: l'etica medica, appunto.

L'Occidente ha cambiato una quantità di cose nell'organizzazione sociale ― l'economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica ― dall'antichità greco-romana ad oggi. La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici che nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno ― che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori ― il medico scienziato dell'ottocento ― che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l'organismo sano o malato ― e il medico della nostra epoca ― che è capace di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico ed è in grado di prevederne l'insorgenza con anni di anticipo ― le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire riguardo al ricorso ai salassi, ai vaccini e all'ingegneria genetica. La diversità tra questi mezzi terapeutici, quanto a efficacia ed efficienza, è incolmabile.

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Quando il medico decideva «in scienza e coscienza»

Per l'etica, invece, non è avvenuto così. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall'epoca di Ippocrate fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.

Ci possiamo riferire a quest'epoca come alla stagione premoderna dell'etica in medicina. Sinteticamente la denominiamo etica medica. L'aggettivo è giustificato. L'etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l'etica «del medico». È il medico che la determina e la professione medica che se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari, per le professioni che collaborano con il medico; tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire che cosa sia «buona» medicina.

La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell'epoca pre-moderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?». Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica:

«Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa».

Tutta l'azione del medico è diretta a procurare il bene del paziente, identificato con la risoluzione dei problemi posti dalla patologia. Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell'antichità era la «dieta» (cioè il regime terapeutico che tendeva a ristabilire nella vita del malato l'equilibrio turbato); per il medico dei nostri

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giorni i trattamenti appropriati potranno essere gli antibiotici o i trapianti di organo. Qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente.

I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all'imperativo di fare il bene del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista: il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e tutta la dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se stessi l'obbligo di prendere le decisioni «in scienza e coscienza». Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio della «beneficence», ovvero di «beneficità».

Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all'atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare «paziente», in tutti i significati del termine (anche in senso morale, in quanto la pazienza è la principale virtù che è chiamato a esercitare). Il buon paziente è il paziente «osservante». A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la «compliance». Come affermava l'illustre spagnolo Gregorio Marañon, che ha rappresentato nella prima metà del secolo il permanere dell'ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».

In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all'opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine «alleanza» fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell’alleanza che è il pilastro

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centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze. Nell'alleanza religiosa si tratta del legame che si instaura tra la potenza della divinità, in quanto fonte di forza e di salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo che ha bisogno di redenzione. L'unione dei due mediante l'alleanza fa la salvezza.

Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l'unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza. Il seguire la prescrizione medica è la condizione essenziale perché l'alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell'alleanza, che è il malato, si deve fidare e affidare, accettando le condizioni che gli vengono poste per la guarigione; il medico, che concede l'alleanza, lo guida verso il suo proprio bene.

Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia come medici che come pazienti. Soltanto quando diventiamo «moderni» il modello entra in crisi. Il malato dell'epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui nella medicina tradizionale il malato è per definizione uno che non può determinare se stesso. Riconosciamo l'influenza di concezioni antiche, come quelle che ha espresso Aristotele quando ha affermato che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come ad esempio la paura per la propria vita; nello stato di malattia deve quindi subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che questi non lo può fare. Dire che la medicina entra nell'epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime).

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Nell'epoca moderna i valori del malato, intesi come quadro di riferimento che guida l'autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale del fare «buona» medicina. La potente ed efficace medicina che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione si apre su scenari diversi. L'arsenale medico è potente e vario, e ci mette di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto soggettivo di buona vita, ovvero di ciò che vogliamo fare della nostra vita, un intervento medico può essere appropriato o no.

Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: «Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?». Non basta stabilire ― per esempio ― che l'atto medico ha di fatto prolungato la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo parlare di buona medicina. L'autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L'intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico che si basa sul sapere della sua professione, ma deve essere individuato insieme al paziente, spesso con un faticoso processo di contrattazione.

Superato il paternalismo benevolo, l'ideale medico in questo modello diventa un'autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il «consenso informato». In questa prospettiva il paziente non ha più solo diritti ma anche dei doveri. La sua posizione non è solo di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire piuttosto di delegare la decisione e di demandarla al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di diventare un «buon» paziente. Per esserlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha

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anche un compito etico: deve realizzare tutto quello che è necessario per essere un buon paziente.

L'idea di qualità, dunque, include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica, usato per designare questo modello di qualità dell'atto medico, è un neologismo, appropriato per un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata per la stagione dell'etica in medicina che a giusto titolo possiamo chiamare «moderna». Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell'ambito dell'etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell'accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell'ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l'etica civile, l'accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli «stranieri morali».

Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare in questo modello. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale; spostandosi da un modello all'altro i valori si modificano. Possiamo dire che stiamo assistendo all'inaugurazione di una nuova epoca della qualità e dell'etica nella medicina.

L'accanimento diagnostico e terapeutico

Tra i comportamenti medici che nell'opinione pubblica esprimono con più forza il malessere dei cittadini uno dei

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primi posti spetta all'accanimento terapeutico. Se ne parla molto, e con molta passione. Ciò non significa che se ne parli con appropriatezza. Anzi, a ben vedere l'uso corrente dell'espressione è viziato da un prevalere di «pathos», che ne fa uno dei cavalli di battaglia di chi accusa la medicina di «disumanizzazione». In pratica, quando gli sforzi di salvare la vita a un malato non hanno risultato, vengono bollati come accanimento terapeutico e sui medici viene gettato il sospetto di comportarsi come tecnici disumani, che prolungano un'azione inutile mirando a fini personali, più che al bene del malato. Se invece l'intervento medico ha successo, i sanitari vengono lodati per la loro perizia e dedizione alla causa della guarigione del malato, vista come fine unico della medicina. Si tratta, quindi, di un giudizio «ex post», e non di un'accurata descrizione del delicato processo di decisione clinica, dove al medico è richiesto di trovare «ex ante» la giusta misura per il suo intervento, in un precario equilibrio tra l'eccesso e la carenza, tra il «troppo» e il «troppo poco», tra l'ostinazione cieca e l'abbandono prematuro del paziente, in quella condizione di incertezza che è intrinseca a ogni decisione medica.

È comprensibile che i medici reagiscano per lo più con irritazione all'accusa approssimativa di accanimento terapeutico. Soprattutto quando viene filtrata da un'informazione dei mass media vorace e spettacolare, che deforma il contesto in cui vengono prese le decisioni. Basti pensare ― per fissare in un episodio una scenografia ripetitiva ― alla ridda di insinuazioni e accuse rivolte ai medici che hanno assistito Fellini negli ultimi giorni di vita. La facile etichettatura di accanimento terapeutico ferisce inoltre i medici che lottano per tenere in vita i malati perché misconosce il fatto che i risultati positivi in medicina sono il frutto di molta tenacia. Se, dopo aver mobilitato tutte le energie della mente e del corpo per contrastare la morte il medico si sente rivolgere l'accusa di aver indulto all'accanimento terapeutico, è molto probabile che possa lasciarsi prendere dallo sconforto. E quella alleanza tacita tra il terapista e il paziente, che costituisce tradizionalmente l'ossatura dell'arte terapeutica, viene ulteriormente scossa.

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L'accanimento terapeutico è, dunque, solo il frutto di malintesi? Dipende esclusivamente dalla incompetenza degli informatori e dei cittadini, che equivocano sul significato degli sforzi medici per prolungare la vita dei malati? L'accanimento terapeutico va accantonato come un falso problema? Prima delle dovute risposte a questi interrogativi, esaminiamo che cosa avviene, sempre a livello di opinione pubblica, circa l'accanimento diagnostico. Qui lo scenario è completamente diverso. Non c'è mobilitazione dei media, scambi di accuse e difese; l'argomento non viene problematizzato sotto la spinta di forti emozioni. Raramente capita che qualcuno si lamenti per troppe indagini diagnostiche. Semmai la categoria invocata per valutare eventuali abusi è quella dello spreco delle risorse, non quella dell'accanimento. Visto dalla parte del paziente, l'eccesso diagnostico non sembra un pericolo per la salute: meglio un test in più che uno in meno...

Registrate le differenze tra i due ordini di problemi e l'inadeguatezza del termine «accanimento» a indicarli ― anche per la connotazione moralistica che lo accompagna e le reazioni che suscita in chi viene fatto oggetto di accusa ― resta tuttavia l'interesse a cercare una possibile convergenza tra la ricerca della giusta misura tanto nell'ambito della terapia quanto in quello della diagnosi.

Un cambiamento strategico in questa direzione consiste nell'introduzione in medicina di un punto di vista che abitualmente non era tenuto in considerazione: quello del paziente stesso. Anche da questo punto di vista vediamo l'utilità di promuovere il modello di rapporto incentrato sul consenso informato. Tradizionalmente, finché l'unico criterio sul quale doveva misurarsi la qualità morale dell'atto medico era la sua capacità di realizzare il «bene del paziente», questo veniva praticamente a coincidere con l'ambito delle possibilità stesse della medicina (le quali, per altro, erano molto più limitate di quanto i medici amassero concedere e far sapere ai pazienti...). La prima seria divaricazione tra il possibile e l'auspicabile è avvenuta con l'acquisizione della possibilità di mantenere in vita un paziente mediante le tecniche di respirazione artificiale, verso la metà del nostro secolo.

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Già nell'ambito dell'etica medica si sono registrati i primi tentativi di introdurre delle distinzioni che fossero d'aiuto ai medici nelle decisioni che erano costretti a prendere. Negli anni '50 fu molto apprezzata la distinzione, proposta da Pio XII, tra «mezzi ordinari» e «mezzi straordinari». Secondo tale criterio, gli sforzi rivolti a salvare la vita o a prolungare uno stato di particolare sofferenza possono essere lecitamente tralasciati quando hanno un carattere di straordinarietà. La distinzione ha avuto molto successo ed è stata ampiamente adottata dall'etica sviluppatasi senza riferimenti religiosi. Mira a individuare gli interventi medici ritenuti obbligatori ― identificati con quelli ordinari ― distinguendoli da quelli che possono essere omessi senza colpa morale.

Nella pratica sanitaria il criterio della straordinarietà dei mezzi è di difficile utilizzazione, a meno che non sia abbinato a qualche altro criterio; per esempio: valutare se l'intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. Progressivamente nell'ambito dell'etica medica si è avvertita l'inadeguatezza della distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari a guidare le decisioni in situazioni di conflitto. Nella stessa morale cattolica si è sentito il bisogno di un superamento di quella distinzione. La Dichiarazione sull'eutanasia della pontificia Commissione per la dottrina della fede (1980) ha registrato e ratificato il cambiamento del parametro di valutazione: «Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all'uso di mezzi "straordinari". Oggi però tale risposta, sebbene valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l'imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi "proporzionati" e "sproporzionati"».

L'idea di proporzionalità rimanda necessariamente a un fine, a una gerarchia soggettiva di valori, a una valutazione del tipo di vita che la persona considera conciliabile o inconciliabile con il proprio modello di «buona vita». Siamo così rinviati a un giudizio di qualità di vita, che non può essere posto al di fuori dei valori di riferimento del soggetto. Quando ci muoviamo in questo orizzonte, siamo entrati nella prospettiva etica che abbiamo identificato come propria dell'epoca moderna, in quanto integra

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il valore dell'autonomia individuale nel disegnare ciò che è appropriato all'ideale personale del singolo. L'autodeterminazione del paziente entra a far parte costitutivamente di quella ricerca della giusta misura ― che si colloca tra il troppo e il troppo poco ―, che determina la qualità dell'atto medico.

In questa prospettiva diventa più comprensibile il fantasma dell'accanimento terapeutico, che turba tanti nostri contemporanei. Esso nasce dal timore che il proprio metro di valutazione dei trattamenti possibili venga disatteso da un mondo di professionisti sanitari sintonizzati unicamente sui valori del prolungamento della vita. Non è necessario immaginare chissà quale disumano infierire su un corpo incapace di difendersi per attivare la fantasia dell'accanimento: basta la preoccupazione di una decisione presa su di noi, invece che con noi. Conseguentemente, la risposta positiva alla possibile deriva della pratica medica verso questa violazione della persona e del rispetto che le è dovuto non si restringe a delle limitazioni nell'impiego dell'intero arsenale terapeutico quando il malato ha iniziato il processo irreversibile del morire. La risposta adeguata inizia prima, mediante l’accettazione della prospettiva teorica e pratica proposta dalle «cure palliative».

Ciò implica la pari dignità tra la medicina finalizzata a invertire il corso della malattia o a contrastare la morte e quella che ha come obiettivo il prendersi cura del paziente e accompagnarlo nel cammino inevitabile, lenendo i sintomi e rendendo possibile la «buona morte». La filosofia sottostante alle cure palliative è l'antidoto appropriato a quelle forme di abuso alle quali ci si riferisce quando si parla di accanimento terapeutico.

L'orizzonte generale della bioetica ci è d'ausilio anche nel collocare i problemi posti dal cosiddetto accanimento diagnostico. L'imputato qui non può essere il clinico nella sua volontà di stabilire una diagnosi. Questo resta il primo e ineliminabile passo per una corretta procedura medica. L'etica medica tradizionale ha anche curato che l'intenzione diagnostica fosse guidata dalla volontà di procurare il bene del malato. Nei confronti di questi, infatti, non è giustificabile un sapere per il sapere, ma solo quello che si

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apre su una operatività terapeutica. Non è un buon diagnosta il clinico incompetente, che copre la propria ignoranza in fatto di diagnosi differenziale scandagliando alla cieca e moltiplicando indagini diagnostiche a tappeto.

Finché siamo guidati da queste preoccupazioni, ci muoviamo ancora nell'ambito dell'etica medica. Entriamo nell'ordine problematico che è tipico della bioetica quando chiediamo al medico di farsi carico anche della preoccupazione per l'efficienza dei servizi sanitari e del contenimento delle spese per la salute sostenute dal sistema sanitario. Oltre che il tradizionale principio della beneficità e quello moderno dell'autodeterminazione del paziente, sancito dal consenso informato, oggi il sanitario è chiamato in modo crescente a tener presente nelle sue scelte cliniche l'esigenza di ottimizzare l’uso delle risorse, che diventano sempre più scarse con il crescere della domanda. Il medico in epoca di sviluppo della medicina ― e di espansione economica ― poteva immaginare di lasciarsi guidare dalla domanda: «Che cosa posso fare di più per il malato che ho in cura?». Oggi sarebbe irresponsabile se ragionasse ancora in questi termini. Deve invece chiedersi: «Di che cosa posso fare a meno, pur ottenendo lo stesso risultato di qualità nella cura del paziente?». In altre parole, il criterio dell'economicità nell'uso delle risorse, a cominciare da quelle diagnostiche, deve entrare nel perimetro dei principi che circoscrivono la «buona medicina». Anche l'intenzione diagnostica deve proporsi la giusta misura: quella che si colloca dopo il «troppo poco» e prima del «troppo».

Comunicare o tacere una prognosi infausta

Quanto va comunicato al paziente della prognosi infausta che lo riguarda? La questione è diventata un luogo classico di dibattito in cui possiamo assistere allo scontro tra modelli di comportamento che aspirano ugualmente a realizzare un valore morale, ma nella pratica si scoprono come inconciliabili. Di fatto, il confronto assomiglia di più a un dialogo tra sordi, in quanto si confrontano certezze

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profonde non disposte a farsi rimettere in discussione dagli argomenti contrari. Chi è convinto che una prognosi che si affaccia sulla morte non vada condivisa con il malato ― tutt'al più con i suoi familiari ― motiva questo comportamento con alti motivi ideali. È per risparmiare al malato un evento emotivamente catastrofico che si deve fare ogni sforzo per tenere lontano dal suo sguardo l'orrore della morte certa. Ma anche chi difende la posizione contraria, orientata a informare il malato della propria situazione, si giustifica con motivi ideali, che ruotano attorno al rispetto del malato e tendono a prevenire un altro tipo di sofferenze psicologiche: quelle che si aggrumano attorno al sistema di menzogne necessario per mantenere il malato nell'ignoranza della sua situazione.

L'incomprensione tra i partigiani delle due posizioni può raggiungere punte paradossali. Coloro che optano per la comunicazione della diagnosi si sentono accusati di «crudeltà» nei confronti del malato; chi sceglie la menzogna pietosa, ih nome della compassione, si trova sospettato di essere solo un piccolo egoista, che vuol risparmiarsi le situazioni più ingrate, con lo sforzo di comunicazione che comportano. I tentativi di guadagnare l'altro alla propria posizione per lo più naufragano clamorosamente. Ciò non dipende dalla debolezza delle argomentazioni, ma dal fatto che gli atteggiamenti di fondo si nutrono di motivi che non sono solo razionali.

Alcuni di questi elementi sono stati messi in luce da uno studio pilota sui comportamenti e sugli atteggiamenti culturali dei medici circa la diagnosi e la prognosi di cancro. La ricerca è stata condotta da un'antropologa americana, Deborah Gordon, su un campione di medici toscani. Il merito della ricercatrice è stato quello di non limitarsi a contare quanti sono per il «dire» e quanti sono per il «tacere». Ha studiato invece come questi orientamenti sono collegati, in profondità, con le convinzioni che riguardano la vita, la morte e la sofferenza; con il modo di gestire le «cattive notizie», anche in contesti diversi da quello della salute; con i modelli fondamentali di educazione (orientata a promuovere l'autonomia personale oppure a consolidare la dipendenza dai genitori e dalla famiglia); con le modalità che

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vengono utilizzate preferenzialmente per aiutare qualcuno in difficoltà. Ne risulta che anche in una regione relativamente omogenea, come la Toscana, i medici si orientano secondo due modelli profondamente diversi.

Trattandosi di uno studio antropologico, potremmo dire che nella popolazione studiata si possono individuare due tribù. Per quella orientata in senso tradizionale, le decisioni relative a cure e trattamenti sono responsabilità del medico (e della famiglia), che scelgono ciò che «è meglio» per il paziente. Di fronte alla morte, l'obiettivo prioritario diventa la difesa del fragile dalla cattiva notizia, tenendolo all'oscuro. Per l'altra tribù, invece, l'informazione riguardo alla diagnosi, alla prognosi e al trattamento appartiene al paziente; è un suo diritto, perché deve conoscere e capire per poter decidere. L'ideale a cui tende è quello di rendere il paziente giudice di ciò che è meglio per lui.

Sono tribù molto compatte. I convincimenti di fondo riguardo alla vita e alla morte, agli eventi critici e al modo più appropriato per farvi fronte, al compito dei sanitari e al ruolo della famiglia sono condivisi da tutti e fortemente contrapposti a quelli dell'altro raggruppamento. Se dalla forma arcaica di lotta tra tribù si vuol passare a una forma più proficua di convivenza sociale, è necessario anzitutto convincersi che la posizione contraria non è solo errore o malafede. Ognuna ha valori importanti da difendere. In una società dove nessuno sembra più disposto ad ascoltare le ragioni dell'altro, la questione della comunicazione della diagnosi al paziente può diventare una palestra di dialogo, nel senso che era caro a Socrate. Quel dialogo che ci fa scoprire quanta ignoranza c'è dietro il nostro sapere, e quanto abbiamo bisogno di mettere insieme frammenti di verità per costruire la saggezza.

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3. Sistema delle cure e valori della modernità

Il cambiamento nel rapporto tra medico e paziente che, schematizzando l'evoluzione dell'etica in medicina, abbiamo sintetizzato come processo di «modernizzazione» (nel preciso senso culturale di passaggio all'epoca «moderna», sinonimo di democrazia politica e di liberalismo economico, che ha progressivamente modificato tutte le aree della vita sociale) comporta una trasformazione che si può paragonare al cambiamento delle regole del gioco. Le regole del gioco sono una cosa importante nella convivenza umana: che si tratti di sport o di sanità, di elezioni politiche o di accesso alle prestazioni erogate del Servizio sanitario nazionale. Chi ha a cuore che i cambiamenti avvengano in modo da non pregiudicare il pacifico svolgimento della vita sociale deve dare una priorità assoluta alle regole. Le modifiche delle regole vanno notificate a tutti, per tempo, ripetutamente, verificando che l'informazione arrivi a ognuna delle persone coinvolte e che ci sia un adeguato consenso al cambiamento.

Le cure sanitarie sotto il segno dei diritti della persona

Ebbene, in medicina, il passaggio all'epoca moderna comporta un cambiamento delle regole. Il primo sospetto che ci assale è che la trasformazione non sia accompagnata da un'informazione accurata, scrupolosa e capillare, come certamente faremmo se cambiassero le regole

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del gioco del calcio. Di solito al cambiamento delle regole viene opposta resistenza. I comportamenti umani, infatti, sono vischiosi: tendono a resistere al cambiamento, in particolare quando la perseverazione è favorita da una coesione omogenea di tutto un gruppo professionale.

Nel caso particolare della professione medica, si tratta di comportamenti motivati in senso altamente etico e umanitario. I medici hanno di se stessi una comprensione centrata sul beneficio da arrecare alla salute dei pazienti; l'azione medica vuol essere intesa come rivolta al miglior interesse del malato. Dall'interno del mondo medico si sviluppa perciò una forte resistenza al cambiamento delle regole, proprio perché quelle precedentemente in vigore appaiono ispirate ai più alti ideali.

Le cure sanitarie oggi si devono armonizzare con il rispetto dei diritti della persona. Questa formulazione sintetica del cambiamento che comporta l'epoca moderna acquista contenuto quando consideriamo analiticamente tali diritti. Proviamo a prendere come punto di riferimento una delle formulazioni più note dei diritti umani: la dichiarazione di indipendenza degli Stati americani redatta da Thomas Jefferson nel 1776. Tra le verità che non hanno bisogno di essere dimostrate, in quello storico documento viene citato il fatto che tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti e che sono dotati di certi diritti innati, dei quali non possono essere privati a nessun patto: come il «diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità (the pursuit of happiness)».

Gli sviluppi bio-medici più recenti costringono la società a confrontarsi anche con il diritto alla vita, come limite invalicabile. Le sicurezze che ci hanno accompagnato per secoli si incrinano di fronte a fatti nuovi. Chi va protetto, in nome del suo irrinunciabile diritto alla vita? Questo diritto si estende al feto, e a partire da quale fase dello sviluppo embrionale? È un diritto esclusivo degli esseri umani o si estende anche ad altre forme di vita animale? E ancora: fino a che punto va protetto il diritto alla vita? Il diritto alla vita va tutelato anche quando una vita ha perduto le qualità umane più fondamentali? Sono altrettanti capitoli scottanti della bioetica contemporanea.

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A noi qui interessa soprattutto analizzare il nuovo rapporto con il secondo dei diritti dell'uomo menzionati nella dichiarazione di indipendenza americana: il diritto alla libertà. In termini sociali, tale diritto è stato fatto equivalere all'autonomia, intesa come capacità dell'individuo di auto-determinarsi nelle scelte. Comprese quelle che avvengono nell'ambito delle cure sanitarie. Nel modello tradizionale le regole del gioco prevedevano una specie di sospensione dell'autonomia, quando l'individuo veniva a trovarsi nello stato di malattia: il medico ― spesso in collaborazione con la famiglia del malato ― è autorizzato a valutare quali informazioni fornirgli, scegliere il trattamento appropriato e i percorsi da fargli seguire nell'accidentato cammino verso la salute (e ancor più in quello verso la morte).

Il diritto alla libertà, nella sua versione di diritto a scelte autonome, è apparso nello scenario della sanità come un diritto di seconda generazione, rispetto ai diritti fondamentali che costituiscono il tessuto delle società democratiche e per i quali sono state fatte le rivoluzioni liberali dell'epoca moderna. Secondo lo storico della medicina Diego Gracia, fino agli anni più recenti la rivoluzione liberale e democratica ha stentato a imporsi in medicina, così come invece ha modificato altri ambiti della vita sociale: «Nel mondo della salute la rivoluzione sociale ha preceduto in molti casi la rivoluzione liberale... Il liberalismo è sempre stato il grande "argomento in sospeso" nella medicina occidentale» 5.

La pratica del diritto alla libertà in medicina è stata coltivata soprattutto negli Stati Uniti, anche per la propensione degli americani a indulgere alla litigiosità giudiziale. L'impatto della prospettiva dei diritti sul modello tradizionalmente vigente in sanità, centrato sull'ideale umanitario e sul dovere del medico di orientare la sua azione al bene del malato, è stato dirompente. Una delle prime formulazioni del diritto del paziente al rispetto della propria autonomia anche in ambito sanitario è quella del giudice Benjamin

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Cardozo, in una sentenza del 1914: «Ogni essere umano adulto e capace di intendere e di volere ha diritto di decidere che cosa viene fatto al suo corpo» 6. Come l'albero nel seme, in questa frase è contenuto tutto lo sviluppo, avvenuto negli ultimi due decenni, verso la regolamentazione del consenso informato e la tutela sempre più minuziosa del diritto del paziente a essere coinvolto nelle decisioni cliniche che lo riguardano.

Nel 1991 è entrata in vigore in tutto il territorio degli Stati Uniti la «Legge dell'autodeterminazione» (Self Determination Act), che può essere considerata come il punto di arrivo finale dell'intera parabola del diritto alla libertà applicato alle cure sanitarie. La legge stabilisce che ogni istituzione sanitaria che riceve pazienti assistiti dai due programmi federali «Medicare» e «Medicaid» è tenuta a fornire ai pazienti in modo sistematico, al momento della loro ammissione in ospedale, informazioni relative alle «advance directives» (vale a dire le disposizioni previe che la persona impartisce per il caso in cui non sia più in grado di intendere e di volere) e a sollecitare l'autodeterminazione del paziente. Secondo la legge dell'autodeterminazione, gli ospedali e le case di riposo per anziani sono tenute a istituire dei meccanismi per rendere edotti i pazienti dei loro diritti legali, che prevedono la facoltà di accettare o rifiutare il trattamento medico.

Malgrado la sorda resistenza dei medici formati in una tradizione più ispirata al principio di beneficità e al paternalismo che al rispetto dell'autonomia, il movimento della «modernizzazione» della pratica medica si è esteso a tutti i paesi dell'area occidentale, anche se non in forme così estreme come quelle regolamentate dalla «Legge dell'autodeterminazione» americana. L'informazione del paziente e l'acquisizione abituale del consenso non è più un «optional»: tende a diventare un obbligo deontologico, e in alcuni casi anche legale.

Questi sviluppi dell'autonomia del paziente e del suo diritto all'informazione potrebbero procedere anche verso

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uno scenario infausto. È possibile immaginare che lo spostamento di accento dalla beneficità all'autonomia del paziente avvenga in un clima avvelenato dalla diffidenza e dal risentimento per il potere perduto, col triste risultato che il diritto alla libertà si tramuti nella sua caricatura: cioè nel «diritto» a essere lasciato solo, proprio nel momento in cui il malato ha maggior bisogno della presenza benevola ed efficace di un sanitario che lo assista non solo con quanto la scienza gli mette a disposizione, ma anche con la sua completa umanità. Lo sviluppo della richiesta di un consenso informato ― magari redatto su un modulo apposito per fini burocratici ― potrebbe risultare come un espediente per rifilare al malato la responsabilità per decisioni che andrebbero invece condivise.

L'integrazione del diritto all'informazione e del rispetto dell'autonomia personale nella pratica della medicina dovrebbe avvenire senza rinunciare ai valori impliciti nella medicina ispirata al bene del paziente. Se qualcosa deve finire, non sono gli ideali della medicina ippocratica, bensì la pratica della medicina «del silenzio», ovvero di quella medicina come muta ars che ritiene di poter fare a meno del dialogo col paziente. Perché i veri benefici per il malato, quelli che rispettano i suoi valori e le sue scelte di vita ― quel beneficio che presuppone una intelligente negoziazione tra le enormi potenzialità della medicina di oggi e le aspirazioni qualitative che reggono la vita di una persona ― non si possono individuare senza una vera comunicazione.

La formulazione dei diritti umani dalla quale abbiamo preso le mosse menzionava, tra le «verità che non hanno bisogno di essere dimostrate», anche il diritto innato dell'uomo alla «ricerca della felicità». Nei confronti di quest'ultimo diritto noi europei siamo stati sempre piuttosto scettici. La «ricerca della felicità» l'abbiamo lasciata alla iniziativa individuale del cittadino, chiedendo allo Stato di occuparsi solo dei primi due diritti: la protezione della vita e la tutela della libertà. La ricerca della felicità non l'abbiamo scritta tra i diritti costituzionali, e tanto meno abbiamo considerato un possibile legame tra essa e la pratica della medicina. Eppure niente sembra più attuale di questa nuova frontiera di diritti, che potremmo chiamare «diritti di terza generazione».

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Essi emergono insieme a una nuova richiesta di salute, non più limitata alla lotta contro la malattia, ma identificata con il pieno benessere: fisico, psichico, sociale e spirituale.

Quella che si profila è una diversa fisionomia globale della medicina, per la quale è stata coniata l'espressione «medicina del desiderio». Il modellamento del corpo sul desiderio diventa l'elemento trainante della ricerca di salute nella società ad alto sviluppo economico. Il ventaglio degli interventi richiesti a questo tipo di medicina è molto ampio. Comprende ― tanto per nominarne alcuni ― i trattamenti anti-stress ed estetici; la regolazione della fertilità oltre, e talvolta contro, i limiti posti dalla natura (fecondazione in vitro, gravidanza dopo la menopausa, programmazione del sesso del nascituro, modifiche dell'eredità genetica); la determinazione da parte del soggetto della quantità e qualità delle cure che determinano la lunghezza della vita giunta al termine.

Il nodo etico di questo tipo di domanda di salute, radicata nella personale «ricerca della felicità» concepita come un diritto, si stringe intorno alla espropriazione della decisione morale del medico. In una medicina di questo profilo al sanitario sembra sottratta qualsiasi facoltà di intervenire con un proprio giudizio etico sull'azione appropriata. Quello che ci si attende da lui è solo una prestazione d'opera, finalizzata a realizzare degli obiettivi che gli sono imposti da un paziente promosso ormai a «utente», quando non addirittura a «cliente».

L'obiezione di coscienza rimane una estrema barriera contro l'avanzata del desiderio in medicina, che minaccia di travolgere il tradizionale modello di rapporto medico-paziente. Questa possibilità ha avuto un esplicito riconoscimento nel caso dell'interruzione di gravidanza (legge 194 del 1978). Più di recente, l'ultima revisione del codice deontologico dei medici italiani (1995) ha innalzato una barriera contro le pratiche di fecondazione medicalmente assistita che più si allontanano dal profilo di aiuto medico fornito come risposta a un problema di sterilità della coppia. È forse opportuno prendere in considerazione la possibilità che la non disponibilità del medico, per ragioni di coscienza, possa essere invocata anche in altre circostanze

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create dalla medicina del desiderio, per garantire al sanitario il pieno rispetto dell'autonomia della sua decisione etica, che gli spetta come soggetto.

La responsabilità per la propria salute

Nello scenario culturale che abbiamo visto come tipico dell'epoca moderna cambiano correlativamente sia i diritti che i doveri del medico e del paziente. L'altra faccia del diritto del paziente a entrare attivamente nel processo decisionale che lo porterà, insieme al medico, alle scelte terapeutiche che meglio esprimono i suoi valori personali, è costituita dal suo dovere di rendersi responsabile per la propria salute e per la qualità della propria vita. La prima conseguenza concreta è che il paziente diventa compartecipe dell'incertezza del medico.

Nessuno ha contribuito in misura maggiore della sociologa americana Renée Fox a mettere a fuoco il posto che occupa l'incertezza nel sapere medico. Da più di un trentennio la studiosa si dedica a esplorare il ruolo che ha l'incertezza nella formazione dello studente di medicina, nella socializzazione del medico e nella condizione umana dei professionisti della salute; l'incertezza è il filo rosso che lega le sue ricerche, il suo insegnamento, i suoi scritti. L'insieme della sua opera ci permette di registrare i profondi cambiamenti che il problema della certezza in medicina ha subito nel giro di una generazione.

Discepola del sociologo Talcott Parsons, Renée Fox ha cominciato a occuparsi, fin dagli anni cinquanta, del modo in cui gli studenti di medicina vengono socializzati nella professione. Nel saggio che raccoglieva la sua prima ricerca ― intitolato Training for uncertainty 7 ― giungeva alla conclusione che ciò che è specifico della formazione medica è di essere un itinerario finalizzato a fornire la capacità di gestire l'incertezza.

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Durante il lungo allenamento il medico in formazione è confrontato con tre tipi fondamentali di incertezza. Il primo è quello che deriva da un dominio incompleto o imperfetto del sapere disponibile: nessuno è in grado di possedere tutte le qualificazioni e tutte le conoscenze del sapere medico. Il secondo tipo di incertezza dipende dai limiti propri della conoscenza medica attuale (esistono immensi problemi ai quali nessun medico, per quanto esperto, può dare ancora una risposta, anche se è legittimo sperare che lo si possa fare in futuro). Una terza causa di incertezza è quella che consiste nella difficoltà di distinguere l'ignoranza o l'incapacità personale dai limiti specifici della conoscenza medica attuale; ovvero, in parole semplici, se l'eventuale fallimento vada imputato all'ignoranza del medico o a quella della scienza.

All'occhio dello studioso dei comportamenti sociali risulta agevole stabilire un rapporto tra l'incertezza del sapere medico e quella intrinseca alla condizione umana, nella quale i fatti relativi a salute, malattia, benessere, morte e sofferenza sono sempre problemi critici di significato. Ma il sociologo è in grado di distinguere anche i meccanismi attraverso i quali gli studenti di medicina in formazione riescono ad adattarsi all'incertezza. Al termine dell'«allenamento all'incertezza», gli studenti diventano capaci di accettare l'incertezza come inerente alla pratica professionale della medicina, di distinguere i limiti propri da quelli della scienza, di affrontare l'incertezza con un certo candore e una positiva filosofia venata di scetticismo.

Studiando l'evoluzione dell'incertezza medica, Renée Fox ha notato una marcata differenza tra quella degli studenti in medicina degli anni cinquanta e l'incertezza tipica dei decenni successivi 8. La nuova e più forte sensibilizzazione all'incertezza medica, i cui inizi si possono

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far risalire alla metà degli anni settanta, presuppone l'affermarsi della nuova biomedicina e di quella riflessione critica che ha preso il nome di bioetica. Il contesto sociale è cambiato, e quindi anche il profilo dell'incertezza. Questa non si situa più solo all'interno della scienza medica, ma piuttosto alla frontiera tra la medicina, la politica e l'etica.

Le problematiche bioetiche danno all'incertezza connotazioni molto più ampie. Un significato emblematico assume in questo senso la perplessità relativa alla ricerca con manipolazione del DNA. Il presentimento che la capacità di manipolare i geni potrebbe alla fine provocare una catastrofe si abbina a dubbi circa i limiti delle regolamentazioni relative alla ricerca scientifica («Chi decide a chi competono le decisioni?»). Un discorso analogo si può fare circa gli effetti nocivi di prodotti chimici e di farmaci sull'ambiente e sulla salute dell'uomo (prodotti cancerogeni o mutageni). La stessa metodologia della ricerca ― per esempio, la validità dei test di sostanze cancerogene fatti sull'animale ― crea problemi notevoli di incertezza. La pratica di prescrivere delle norme e di tormentarsi su questa prescrizione (vedi il ricorso alle «moratorie» in vari ambiti: ingegneria genetica, trapianti sperimentali di organi, ricerca sull'embrione) lascia emergere una figura inedita di incertezza che potremmo chiamare «incertezza di secondo livello», ovvero «incertezza dell'incertezza».

La maggior parte dei problemi posti attualmente dall'incertezza e dal rischio non si può ridurre entro il quadro analitico di una sola disciplina o di una singola professione. Le incertezze associate ai progressi scientifici e tecnici più recenti (come il trapianto di organi, il depistaggio di malattie genetiche e la diagnosi prenatale, la chemioterapia per il cancro) sono legate a metaproblemi che eccedono l’ambito dell'incertezza medica. Sia che si parli dei rischi potenziali paragonati ai vantaggi eventuali, delle conseguenze aleatorie che determinati interventi terapeutici possono comportare per la salute e la sopravvivenza, di capacità predittiva di test diagnostici, oppure della qualità della vita, inevitabilmente si incontrano problemi

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fondamentali della società e della stessa condizione umana 9.

Dall'analisi dell'evoluzione dell'incertezza medica nel corso di un trentennio, Renée Fox giunge alla conclusione che «esiste almeno una coscienza collettiva latente del fatto che le nostre istanze politiche, legislative e professionali attuali non possono inglobare completamente, né risolvere convenientemente il senso profondo delle nostre questioni morali e metafisiche riguardanti l'incertezza relativa alla salute e alla medicina 10. Nella medicina attuale sembra giunta all'estrema maturazione quell'incertezza che già il primo, e il più celebre, degli Aforismi attribuiti a Ippocrate considerava come l'orizzonte naturale in cui si esercita l'arte medica:

«La vita è breve,

l'arte lunga,

l'occasione fuggevole,

l'esperienza fallace,

il giudizio difficile».

L'incertezza è, dunque, l'orizzonte connaturale alla decisione clinica, con gli aspetti etici connessi. Il delicato equilibrio del sapere medico, perpetuamente oscillante tra la certezza e l'incertezza (ivi comprese le certezze autentiche e quelle ideologiche, che presuppongono una semplificazione deformante della realtà, le incertezze paralizzanti e quelle creative, perché si aprono su orizzonti di senso più ampio), è dovuto al fatto che oggetto della medicina non sono propriamente le malattie, ma uomini malati. È il soggetto umano il centro di gravitazione del sapere medico. Ogni sapere relativo alla patologia che, per diventare certo, escluda il soggetto, si condanna con ciò stesso a fallire il suo obiettivo.

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Senza il soggetto, non si capisce la malattia; senza il soggetto, non si realizza la guarigione. Forse si può avere la guarigione in senso riduttivo, intesa come restaurazione di uno «status quo ante». Ma in senso antropologico pieno la guarigione ― che differisce dal recupero dello stato di salute previo all'irrompere della malattia e comprende variabili quali l'aumento della consapevolezza, il cambiamento dello stile di vita, l'acquisizione di una conoscenza di sé che includa quella parte di ombra che probabilmente gioca un certo ruolo nella creazione della malattia ― non può darsi senza la partecipazione del soggetto.

Quello che osserviamo nella prassi medica quotidiana è, invece, proprio la sistematica esclusione del soggetto, inteso come momento fondamentale unificatore, in cui il biologico, lo psichico e il sociale si riuniscono sotto la categoria del biografico. Quando si pretende di dar ragione della malattia evacuando il soggetto, si produce una dipendenza, che è allo stesso tempo psicologica e istituzionale, dall'apparato sanitario, cui corrisponde un'implicita delega agli «esperti» di attuare la guarigione.

Questo abbandonarsi passivo trova spesso riscontro nella volontà esplicita di coloro che rappresentano il sapere medico di escludere le complicazioni che derivano da un coinvolgimento del soggetto. Il messaggio: «Tu non c'entri per niente con la tua malattia», trasmesso almeno implicitamente attraverso una gestione del tutto impersonale del fatto morboso, produce un irreparabile impoverimento antropologico della malattia, ma anche una semplificazione del processo terapeutico che può risultare allettante tanto per il sanitario, quanto per il malato.

La guarigione, intesa come evento sostanziale più pregnante, più globale del semplice recupero della salute, cioè come una possibilità di riappropiarsi di se stesso, non può avvenire soltanto adattandosi alle regole di comportamento che i rituali sanitari stabiliscono per il «buon» paziente. Nessuno può sapere al posto del soggetto qual è il cammino verso la guarigione, nel suo equilibrio assolutamente singolare di resistenza e resa, di male da combattere e male da accettare.

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La resistenza dei sanitari ad accettare la partecipazione del soggetto ― e quindi, come antropologia implicita, il significato personale della malattia e della guarigione nell'insieme del processo terapeutico ― è solo una parte della verità. L'altra metà del fallimento del programma di antropologizzare la malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si incontra la propria partecipazione al fatto di essere malato e dove si è chiamati ad assumere la propria responsabilità per la guarigione.

Un approccio etico positivo, che rispetti il senso soggettivo della malattia e della guarigione e non deresponsabilizzi il malato ma lo guidi, piuttosto, a riprendersi la responsabilità della sua vita proprio attraverso la vicenda patologica che sta attraversando, ha un difficile compito davanti a sé. Il principale ostacolo è costituito dalla contrapposizione corrente tra due atteggiamenti di fondo nei confronti del sintomo morboso: comprendere ed eliminare.

L'approccio psicoterapeutico ha fatto proprio il primo. Per lo psicoterapeuta il sintomo va interrogato, affinché lasci trapelare il suo senso; la guarigione viene fatta coincidere non con la semplice eliminazione del sintomo, ma con l'appropriazione del suo significato da parte del soggetto. Questa concezione si è estesa tutt'al più alle somatizzazioni nevrotiche, ma non al resto delle malattie somatiche di competenza della medicina. La pratica terapeutica di quest'ultima si è sempre più identificata con l'approccio che si propone di eliminare il sintomo.

La clinica si può rinnovare solo se, senza ratificare questa contrapposizione tra il comprendere e l'eliminare, instaura una pace tra queste due dimensioni o concezioni dell'atto terapeutico. È necessario abolire la distinzione artificiale, o soltanto di comodo, tra clinica delle malattie somatiche e clinica della patologia di tipo psicologico, che si basa su un dualismo che la medicina cosiddetta psico-somatica ha solo sfumato, senza riuscire ad abolirlo.

Il mettere pace inizia con il dissipare gli equivoci: coloro che sono tutti tesi verso la strategia dell'eliminazione sospettano coloro che inclinano verso il comprendere,

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quasi fossero alleati della malattia, conniventi con il male; per contro, coloro che si collocano sul versante del comprendere accusano pesantemente i sanitari che sono tutti tesi all'eliminazione della patologia di praticare una specie di veterinaria applicata all'uomo, riducendo il proprio ruolo a quello di meccanici dell'organismo. Queste due modalità non vanno contrapposte, ma integrate.

Quando alla malattia si dà il permesso di parlare fino in fondo e si esercita verso di essa un ascolto totale, si può realizzare la chiusura del circolo ermeneutico, mediante un comprendere che non è antitetico ma complementare all'eliminare. Solo questo è un processo terapeutico completo, che comporta l'esigenza di dare alla malattia dell'uomo tutto lo spessore soggettivo che le compete.

Etica e sanità in una società pluralistica e multiculturale

Il rapporto tra etica, sanità e pluralismo di valori, nel concerto delle molte culture che vivono l'una accanto all'altra nella nostra società, può sembrare, a una prima approssimazione, un problema artificiale. O quanto meno enfatizzato per dar materia di discussione agli intellettuali, più che un ambito della pratica medica che ponga dei reali interrogativi a chi la medicina la esercita come professione e a chi ne usufruisce come paziente. Il fatto è che l'etica medica non si è mai sentita messa seriamente in discussione dal pluralismo dei valori e dalla molteplicità delle culture. Una società pluralista e multiculturale sembra piuttosto destinata a mettere ancor più in risalto la forza dell'etica medica.

La permanenza dell'etica medica, inalterata nel tempo, costituisce un fenomeno unico nella storia della nostra civiltà. Se pensiamo ai cambiamenti avvenuti nella civiltà occidentale, dall’epoca greco-romana ad oggi, in 25 secoli di storia, non riusciamo a identificare nessun sistema di pensiero, nessuna istituzione civile o religiosa che abbia resistito alla prova del tempo, senza adattarsi e trasformarsi. La medicina stessa così come la esercitiamo

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oggi, non è sicuramente la medicina di Ippocrate o di Galeno, e neppure quella di Pasteur; per non parlare dei cambiamenti a cui sono soggetti i sistemi sanitari. In Italia in quindici anni abbiamo fatto la riforma sanitaria, con l'istituzione del Servizio sanitario nazionale, e la riforma della riforma. Eppure in questo scenario di cambiamento, di continua modellazione del pensiero e della pratica, qualcosa ha resistito alla prova del tempo: l'etica medica, appunto. È quella normazione dei comportamenti che nel paragrafo «Quando il medico decideva in scienza e coscienza» abbiamo indicato come permanente valore del pre-moderno in medicina.

L'etica medica ha trovato un consenso stabile nelle società, malgrado tutte le trasformazioni avvenute in superficie e in profondità. Quando ci riferiamo ai valori che ci permettono di discriminare tra buona e cattiva medicina, sembra che possiamo appoggiarci su modelli transtemporali. Non è infrequente che anche ai nostri giorni vengano convocati convegni sotto l'egida dell'etica ippocratica. I punti interrogativi ― del tipo: è ancora attuale il giuramento di Ippocrate? ― hanno per lo più un valore retorico: la convinzione diffusa è che quel modello di buona medicina sfida il tempo. Un po' come il modello del buon samaritano in ambito religioso: in ogni tempo e in ogni cultura l'etica medica si gioca intorno agli stessi valori.

Per quanto numerose siano le sollecitazioni della realtà di oggi riguardo al progresso biomedico, l'etica medica, intesa come consenso condiviso nella società sui valori ai quali deve ispirarsi una buona medicina, continua a proporsi come un modello stabile. In epoca di «pensiero debole», l'etica medica vale invece come esempio emblematico di pensiero quanto mai forte.

La società post-moderna si dichiara ideologicamente attrezzata per far convivere la diversità di valori, di comportamenti, di morali; la tolleranza è l'acquisizione più permanente della rivoluzione liberale che ha inaugurato l'epoca moderna. Ma nella medicina vale un altro registro. Essa fa fronte alla diversità dei mondi morali di appartenenza presupponendo implicitamente che quando si tratta della cura della malattia e della promozione della

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salute esista un'unica etica, e che questa etica valga per tutti. Qualunque siano le opzioni individuali riguardo alla sessualità, alla politica e alla vita privata, in medicina vale una specie di «semper et ubique».

Questa etica medica, che ha attraversato i tempi inalterata, sopravvivendo alle grandi rivoluzioni che ha conosciuto la medicina, si può circoscrivere all'interno di alcune linee ben definite. La più chiara è quella che, nel linguaggio dei filosofi, è stata descritta come «il principio di beneficità». In termini colloquiali, si può dire che nella medicina è considerato in accordo con l'etica ciò che è fatto per il bene del paziente. La medicina è una impresa tutta orientata ad arrecare benefici al paziente; finché la medicina può giustificare ciò che fa ― qualunque cosa sia: dalla mano sulla fronte all'interferone, dal placebo al trapianto di organi, dall'aspirina alla manipolazione genetica ― come un beneficio arrecato alla salute del paziente, tutto è eticamente giustificabile.

La medicina è considerata una struttura essenzialmente etica, in quanto si basa su una fiducia. Il malato confida nella correttezza del medico e nella sua disponibilità a lasciarsi guidare in modo prioritario dalla volontà di fare il bene del paziente.

La terza dimensione condivisa nella nostra società è considerare il prendersi cura di qualcuno come una impresa sociale; più in particolare, come un problema familiare. Quando scattano le emergenze della salute noi non rileviamo la tendenza a risolverle in modo individualistico; queste situazioni scatenano piuttosto la solidarietà, provocano la mobilitazione del complesso familiare. Ci sono dei medici che non riescono a parlare con il proprio paziente nell'ambulatorio, perché il paziente ― anche adulto ― è sempre accompagnato dalla mamma, la signora dal marito, il marito dalla moglie. Come interlocutore del medico si pone sempre il gruppo familiare. Le decisioni mediche, anche nella loro dimensione etica, si scontrano con l'ethos, i valori condivisi dalla famiglia.

Questo profilo dell'etica medica ha praticamente attraversato tutti i cambiamenti, producendo un consenso fondamentale sul fatto che il medico e il paziente, il paziente

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e la sua famiglia, praticamente fossero dei mondi interpersonali, che condividevano gli stessi valori circa la salute, anche quando divergevano su altri valori sociali o etici. Era diffusa la convinzione che si potesse agevolmente identificare un'omogeneità sostanziale intorno a ciò che è buono, auspicabile e giusto quando si tratta di riparare o difendere la salute. Per quanto parcellizzati e divergenti possano essere gli universi morali, così che siamo indotti a considerarci in molti ambiti estranei gli uni con gli altri, ciò non vale quando consideriamo la salute. Nella salute non siamo stranieri morali; facciamo parte di una stessa comunità tenuta insieme da uno stesso cemento, che è l'etica medica.

In un contesto di questo genere al pluralismo morale vero e proprio viene attribuito un ruolo marginale nella società, quasi di folclore. Basti pensare che cosa succede quando di fronte a un medico in un ospedale arriva un vero «straniero morale». Nella nostra società non riesco a trovare un esempio più chiaro per questo ruolo che il testimone di Geova, in quanto ha un universo di riferimento ― convinzioni religiose e valori morali ― che non è condiviso dalla maggior parte della società. Qualcuno ha detto che l'incubo di ogni medico è di incontrare, un giorno o l'altro, un testimone di Geova che rifiuta una trasfusione sanguigna, quando sia medicalmente indicata o addirittura assolutamente necessaria. Il campionario delle strategie messe in atto dai medici per sfuggire al confronto destabilizzante con un sistema di riferimento etico che contrasta con l'etica medica consolidata si estende dalle più grossolane ― strappare di nascosto il foglietto che proibisce la trasfusione, trovato nel portafoglio del malato adulto ― alle più raffinate ― far abbassare la glicemia fino a che sopravvenga uno stato di non lucidità, per sentirsi poi giustificati a procedere in stato di necessità ―.

L'obiezione di coscienza che viene da uno straniero morale, il quale dichiara: «Piuttosto che farmi trasfondere il sangue io preferisco la morte; piuttosto il martirio che l'abiura», non è presa sul serio dal mondo medico, forte del consenso sociale che circonda l'etica medica dell'Occidente. I pochi casi in altri ambiti della medicina che finora

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hanno attirato l'attenzione ― per esempio, la protesta di un iman per un espianto di organi a un giovane musulmano deceduto, in contrasto con le indicazioni etiche della sua religione ― non hanno messo seriamente in discussione la struttura monolitica dell'etica medica.

In fondo, non sentiamo che la presenza di persone con un altro universo di valori, un'altra religione, un modo diverso di concepire la vita e di legittimare l'intervento medico, minacci la solida etica medica, che ha attraversato secoli di storia culturale, quale espressione di un consenso di tutti nella nostra società su ciò che è appropriato fare al malato e su quello che il malato vuole per sé.

Ma è arrivata la stagione della bioetica e ha rimesso in discussione questo punto di riferimento. Dobbiamo riconoscere che l'Italia non ha svolto un ruolo attivo in quel cambiamento di rapporti tra sanitari e pazienti che si può ricondurre alla bioetica. Da noi è avvenuto piuttosto che molte istanze normative del passato si sono semplicemente riciclate come bioetica, limitandosi a cambiare etichetta. La bioetica, intesa come fondamentale rimessa in discussione in seno alla società di ciò che è giusto, doveroso o appropriato nella cura della salute, ha bisogno di un contesto appropriato, che è quello del pluralismo culturale e del riconoscimento del diritto alla diversità.

Finché la medicina è stata fondamentalmente un'impresa, benefica sì, ma sostanzialmente impotente a modificare il corso naturale della vita con l'offerta alle persone delle alternative vere circa la durata e la qualità della vita, non è entrata in rotta di collisione con il diritto di modellare la propria vita secondo i valori personali. Lo diventa nel momento in cui la medicina può farlo; e oggi la medicina può pesantemente interferire con il progetto esistenziale del malato. La nostra medicina ha acquistato una potenza reale che era impensabile in passato. Con gli interventi che alcuni definiscono di «accanimento terapeutico» ed altri semplicemente di volontà determinata di prolungare o di rendere possibile la vita in condizioni limite (pensiamo, per tutte , alla possibilità di conservare per un tempo indefinito persone in coma vegetativo permanente), si configura una situazione nuova, in cui quello

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che la medicina è in grado di fare può non essere in consonanza con il diritto di ciascuno di cercare la felicità o la buona vita così come desidera.

Ciò fa sì che la differenza non è più soltanto tra il mormone, l'ebreo, il cattolico e l’ateo: la diversificazione passa trasversalmente dentro ogni famiglia, dentro ogni comunità di appartenenza. Nella stessa famiglia, due fratelli gemelli possono avere idee completamente diverse su ciò che è appropriato o non è appropriato per una cura della salute in armonia con il proprio desiderio di vita felice.

Questo è il luogo originario della bioetica. Essa nasce da una medicina che conosce il successo, ma allo stesso tempo deve fare i conti con il lato oscuro del successo. Conosce la disperazione di non avere più dei punti di riferimento impersonali e oggettivi, validi per tutti, ma deve assumere i punti di riferimento soggettivi dell'individuo. Ciò che vale per tutti e per ciascuno si scontra necessariamente con l'articolazione soggettiva che ognuno fa delle proprie differenze.

Che cosa ha fatto la bioetica americana per rispondere a questa situazione? Non ha elaborato un'etica universale, quasi fosse un surrogato della morale religiosa. Nella nostra società non è venuta meno solo la forza compaginante delle religioni, ma anche l'illusione illuminista di trovare nella ragione un discorso che valga per tutti e per ciascuno nella società ad un livello minimo. Dobbiamo arrivare a un altro modo di approcciare i problemi e di proporre norme. L'apporto della bioetica americana è stato quello di elaborare una lingua franca pensata in modo da valere per tutti. Questo linguaggio comune a una società pluralista è la bioetica articolata sui principi.

In termini molto semplici, l'approccio dei principi può essere ricondotto al seguente ragionamento: ognuno di noi ha una comunità morale di appartenenza, di tipo religioso o di tipo laico, che condivide determinati valori; ognuno di noi ha delle preferenze individuali, delle opzioni, delle scelte di vita che nascono da una certa gerarchia di valori. Senza annullare tutte queste differenze, possiamo tuttavia trovare un accordo nella società su alcuni principi fondamentali che devono essere rispettati.

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I quattro principi con i quali le nostre scelte si devono confrontare sono: il principio della beneficità (purtroppo il termine inglese «beneficence» è stato tradotto infelicemente in italiano come principio della beneficenza; in italiano suscita sempre molta ilarità quando si dice che i medici devono agire secondo il principio della beneficenza...; in realtà questo principio coincide con quello che conosciamo dalla tradizione dell'etica medica: fare il bene del malato), il principio della non maleficità (ovvero di non procurare un danno al malato), il principio dell'autonomia, il principio della giustizia. I principi fondamentali formano un quadro analitico generale, un linguaggio morale comune in una società pluralista. Anche se non sono facilmente traducibili in regole operative. I principi valgono «prima face», cioè valgono a meno della dimostrazione del contrario. Il principio è vincolante, a meno che non entri in conflitto con un altro principio.

Questo approccio dei principi ha avuto molto successo, ma ha creato anche una certa delusione. Perché i principi, che suonano molto chiari e convincenti finché li enunciamo in astratto, ci abbandonano quando di fatto entriamo nelle decisioni concrete, quando ci troviamo, come medici o come malati, di fronte a delle alternative. Per questo il sistema dei principi, dopo aver contribuito alla diffusione e alla popolarità di immagine della bioetica come discorso pubblico, specialmente nei paesi anglosassoni, è stato rimesso in discussione dagli studiosi della disciplina.

Raanan Gillon, uno studioso inglese, pur difendendo e proponendo questi principi, ha proposto un'immagine molto interessante, che forse si avvicina un po' di più a quello che facciamo tutti in realtà 11. A suo avviso, i principi, non vanno presi come degli assoluti, nel senso che un solo principio ― come «fare il bene del paziente», oppure rispettare «l'autonomia del paziente» ― ci risolva tutti i problemi. All'illusione che ci sia una specie di regole prescrittive, che una volta formulate ci dicono cosa bisogna fare ora, in

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questo momento, o qualcosa come un algoritmo dal quale ricavare il comportamento che si addice alla situazione, noi dobbiamo sostituire l'immagine del giocoliere.

Un bravo giocoliere è tanto più abile quante più palle sa tenere per aria per un periodo più lungo di tempo. Nella bioetica che si affida ai principi ― afferma Raanan Gillon ― non possiamo scegliere un solo principio ― per esempio: fare il bene del malato; oppure affidarsi, come in genere preferisce la bioetica americana che è molto individualista, alla volontà del malato, cosicché l'unica condizione da rispettare sia la sua decisione, sulla base del «consenso informato» ― e attenerci a questo solo principio. Piuttosto dobbiamo tenere, come un giocoliere, in movimento più palle ― più principi ― tutti quanti insieme; sapendo già in anticipo ― commenta in maniera realistica lo studioso inglese ― che succederà prima o poi che una palla cada a terra e tutti quelli che sono attorno additeranno la palla caduta, non quelle che siamo riusciti a tenere in movimento. Tutti diranno: «Ah, ecco, hai infranto il principio dell'autonomia del paziente, hai infranto il principio della giustizia», senza considerare quali e quante acrobazie abbiamo fatto per salvare il maggior numero di valori in gioco...

Per quanto interessante possa essere questo approccio teorico, molto più solida appare la teorizzazione dei principi proposta dallo studioso spagnolo Diego Gracia 12. Gracia sostiene che è pienamente difendibile la tesi che questi quattro principi possono essere considerati come il sunto di tutta la storia culturale dell'occidente relativamente all'etica medica. Tuttavia non dobbiamo pensarli come posti sullo stesso piano e neppure ― secondo l'immagine di Raanan Gillon ― dobbiamo cercare di giocarli tutti quanti contemporaneamente, ma è necessario stabilire tra loro una gerarchia. Ci sono dei principi che configurano un dovere più fondamentale e irrinunciabile.

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Il primo dovere è quello, che si impone sopra tutti in medicina, di non recare detrimento al paziente. Si tratta del primum: non nocere, già identificato dall'etica ippocratica. Il non fare il male a una persona è un principio non negoziabile, che per di più è sottratto alla disposizione del soggetto stesso. Ciò vuol dire che anche se un paziente pienamente capace di intendere e di volere chiedesse qualche cosa che alla valutazione della sensibilità morale della società risulta un male, siamo autorizzati a non concederlo. Il male non si deve fare neppure a chi lo chiede.

Ugualmente non negoziabile è l'altro principio fondamentale, quello della giustizia. Anche questo non dipende dalla volontà delle persone. La richiesta essenziale della giustizia è che tutti nella nostra società debbano essere trattati con uguale considerazione e rispetto. Non c'è una vita che vale di più o una vita che vale di meno. A questo principio arriviamo sia attraverso la definizione di persona, sia attraverso la via kantiana del rispetto dell'individuo, che va trattato come fine, non come mezzo.

Diverso invece è il secondo livello regolato dai principi dell'autonomia e della beneficità. L'autonomia della persona richiede che siano rispettati i valori e le preferenze di ognuno. E la beneficità, cioè fare il bene del malato, dipende da quello che il malato, o la singola persona, valuta come il proprio bene.

La non-maleficità e la giustizia sono principi assoluti, che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. In questa accentuazione possiamo individuare l'apporto dell'Europa, che ha una coscienza infelice nei confronti di quello che è riuscita a perpetrare conculcando queste fondamentali esigenze di rispetto dell'umanità. Infliggendo deliberatamente il male, violando l'integrità personale e la giustizia (pensiamo soltanto ai campi di sterminio nazisti), l'Europa è scesa sotto il minimo morale. Il non procurare danno agli altri e dare a tutti uguale considerazione e rispetto sono i «minima moralia» (Adorno), sotto i quali non c'è etica, anche se tutta la società, per ipotesi, fosse d'accordo. Questa prospettiva rende inaccettabile un contrattualismo in cui basta cercare il bene della maggior parte delle persone, se ciò è ottenuto ai danni di qualcuno

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o non attribuendo a qualche attore sociale uguale considerazione e rispetto.

La beneficità, invece, tutelata dall'autonomia, è la ricerca del massimo morale. La non-maleficità e la giustizia sono il minimo morale al di sotto del quale ogni società non deve scendere; anche se vi scendesse col consenso di tutti, sarebbe una società immorale. L'autonomia e la beneficità domandano, invece, quei massimi morali che siano stabiliti con il contributo della persona, che è soggetto delle scelte.

Ciò implica che un'etica medica, che sì presenti in versione aggiornata di una bioetica tutta rivolta alla difesa del minimo morale (per esempio, della difesa a oltranza di un'etica della sacralità della vita) non è sufficiente. Volenti o nolenti, siamo entrati in un'epoca in cui nelle nostre scelte dobbiamo fare i conti con il massimo morale, ovvero con quello che, soggettivamente, ciascun attore morale coniuga con la ricerca della felicità o del bene, con la vita morale, così come emerge dai valori e dalle preferenze individuali.

Da questa impostazione si può trarre una conseguenza, relativa alla pratica del «consenso informato». C'è un modo molto discutibile di lasciar entrare nel mondo della medicina ciò che è maggiormente caratteristico dell'èra della modernità, dei diritti e dell'autonomia dell'individuo, ed è l'uso burocratico del consenso informato, ridotto a un modulo da far firmare al paziente prima di un intervento diagnostico o terapeutico. L'accento qui cade sul consenso, visto soprattutto come una pratica finalizzata all'autotutela del professionista nei confronti di possibili sequele di tipo giuridico giudiziario. Una «liberatoria» ― in parole povere ― da ottenere dal paziente.

Ma non è questo il centro di gravità della nuova medicina. Il baricentro è l'informazione, non il consenso (anche perché sappiamo benissimo che il consenso un medico lo può ottenere in tante maniere; anche senza pensare a mezzi scorretti, come l'estorsione o la circonvenzione, il medico può sempre far pesare in maniera inappropriata la propria autorità sulla paura del paziente!). Non è il consenso, ma l'informazione che rende possibile la partecipazione attiva

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del paziente nelle decisioni che lo riguardano, cosicché possa strutturare le sue scelte secondo i propri valori.

Dobbiamo procedere oltre e affermare che neppure l'informazione sarà il primo atto. La nuova medicina ― simile in questo alla buona medicina di ieri e di sempre ― comincia dall'ascolto. L'informazione, infatti, non può essere data in maniera discriminata. Bisogna cominciare con lo stabilire chi è la persona che deve essere informata, quale è il suo mondo morale, come articola la ricerca della felicità, quali sono le sue preferenze, quale è la buona vita e la buona morte per questo singolo individuo. Siamo così costretti a passare al di là del pluralismo delle culture, per confrontarci con l'unicità degli individui.

All'inizio di ogni buona pratica medica c'è un ascolto differenziato che, con una leggera forzatura, potremmo ricondurre alla domanda: «Tu a che tribù appartieni?». Perché all'interno di un'omogeneità culturale dobbiamo riconoscere tante tribù, che articolano diversamente i propri linguaggi morali. Alla medicina di oggi domandiamo ben più della tolleranza che nasce dal riconoscimento del pluralismo delle culture: domandiamo la capacità di modellarsi sulle diverse sfaccettature dei mondi morali che nascono dai diversi modi di concepire la vita, il dolore, il ruolo della famiglia, lo spazio riservato alla scienza medica e quello proprio della religione o delle ideologie personali.

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4. Sanità pubblica ed equità

Per delineare la fisionomia che dovrà avere la sanità in Europa sul declinare del nostro secolo è stata organizzata un'ampia ricerca ―«Il futuro della sanità in Europa» ― coinvolgendo 3000 esperti di 10 paesi (cfr. Salute Europa n. 131, 6 luglio 1993). L'inchiesta ha permesso di identificare due sfide comuni a tutti i sistemi sanitari: contenere i costi e migliorare la qualità dei servizi offerti.

Sistemi sanitari e scarsità delle risorse

Le cause della scarsità delle risorse da destinare alle cure sanitarie sono note. La situazione è stata determinata dall'azione congiunta di tre fattori principali: la modifica del profilo demografico (allungamento dell'età media e concentrazione della patologia negli anni della vecchiaia), i costi crescenti delle tecnologie e dei farmaci (macchinari sempre più sofisticati, farmaci prodotti mediante costosi procedimenti di ingegneria genetica) e le richieste rivolte al servizio sanitario pubblico da cittadini sempre più consapevoli dei loro diritti e indotti al consumo di beni e servizi finalizzati alla salute.

In regime di risorse limitate si affacciano in medicina problemi etici che non hanno riscontro in nessun'altra epoca precedente. Diventano urgenti i dilemmi sociali circa l'estensione delle cure: che cosa dobbiamo offrire e a chi? Che tipo di scelte dobbiamo fare (dobbiamo distinguere, per esempio, tra servizi alla salute essenziali e non

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essenziali)? In che modo dobbiamo fare delle scelte (affidandoci, per ipotesi, a una visione unicamente tecnico-organizzativa o a valori condivisi dalla nostra società)?

Dobbiamo renderci conto anzitutto della novità di questi problemi, che sconvolgono il modo tradizionale di percepire la responsabilità dei sanitari. Tradizionalmente i problemi etici delle scelte in sanità si ponevano ― quando si ponevano ― in una prospettiva individuale. Una rappresentazione letteraria del modo in cui potevano sorgere conflitti nell'allocazione delle risorse è quella offerta da G.B. Shaw nella pièce Il dilemma del dottore, andata in scena a Londra nel 1906. Il dilemma di cui si tratta è di fatto una questione di priorità, legata a un potere di vita o di morte: quando le risorse sono scarse e non bastano per curare tutti, è compito del medico decidere quale vita meriti di essere salvata?

Il «dilemma» del dottore ― ossia dover scegliere tra la vita di un giovane pittore geniale e quella di persone senza rilievo sociale ― offre materia caustica a Bernard Shaw, quanto mai scettico circa la capacità della professione medica di risolvere i suoi problemi secondo coscienza e determinato a mettere in guardia i possibili pazienti dall'affidarsi ad essa. Novant'anni dopo la prima messa in scena della commedia, ci sentiamo autorizzati a vedervi un'anticipazione di dilemmi di ben altro spessore che si pongono oggi alle società industriali avanzate, in questo scorcio di secolo.

Ci stiamo affacciando su scelte drammatiche che non riguardano più solo le «micro-allocazioni» (scegliere tra diversi candidati, che hanno ugualmente bisogno di un trattamento disponibile in misura limitata, e quindi entrano in conflitto tra di loro), bensì le «macro-allocazioni»: quante e quali risorse la nostra società è disposta a destinare alle cure sanitarie? In che maniera garantire l'accesso ai servizi che la società decide di fornire a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro capacità economiche? In questo più ampio scenario i dilemmi non sono più solo quelli del singolo dottore, ma della società intera.

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Efficienza e qualità come risposta alla crisi dello stato sociale

La crisi legata alla necessità di contenere la spesa sanitaria ― presa nella forbice costituita dall'aumento delle richieste e dei costi, da una parte, e dalla necessità di ridurre l'indebitamento pubblico, dall'altra ― non deve tradursi solo in lotta agli sprechi, razionalizzazione delle risorse, tagli alle spese, scelte prioritarie. Se così fosse, avremmo perso l'occasione offerta dal momento culturale attuale di rivedere in profondità i comportamenti, tanto dei sanitari, quanto dei cittadini che ricorrono ai servizi offerti dalla medicina. Non si tratta solo di un problema amministrativo di risanamento della finanza pubblica: è necessario arrivare e cambiare il modello di civiltà sanitaria. Per questo non possiamo limitarci a offrire meno servizi o prestazioni. Bisogna fornire un «meno» che sia qualitativamente «di più». Si tratta, quindi, di un problema di qualità, che si sposa all'efficienza come risposta globale nella crisi dello stato sociale. In questo senso si orienta esplicitamente il Piano sanitario nazionale 1994-1996, che intende dare le indicazioni per tradurre in atto il riordino della sanità italiana che è stato avviato agli inizi degli anni novanta (decreti legislativi 502/1992 e 517/1993).

Gli slogan che riassumomo presso il grande pubblico il riordino in atto nel nostro sistema sanitario ruotano intorno all’aziendalizzazione e al ruolo attivo svolto dai manager nella conduzione delle aziende sanitarie. Ospedali-aziende e medici-manager, due fantasmi più adatti a creare equivoci che a ricondurre il progetto di riordino della sanità pubblica a un più alto modello di civiltà sanitaria. La conduzione aziendale delle istituzioni che erogano servizi sanitari viene così associata a una ricerca di profitti a ogni costo. È naturale sollevare obiezioni in nome dell’etica: la salute non può essere trattata come una merce, né i servizi sanitari sottoposti alle leggi del mercato, regolato dalla domanda e dall'offerta.

Avviene molto raramente, invece, che il termine «azienda» applicato all'organizzazione del servizio sanitario, invece che al profitto e all'interesse della proprietà,

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induca associazioni mentali positive, quali: una sana attenzione ai vincoli economici, che porti a identificare ed eliminare gli sprechi; un senso di appartenenza tra tutti coloro che operano nell'azienda, nato dalla consapevolezza che l'obiettivo (in questo caso: servizi alla salute efficaci, che producano dei pazienti/clienti soddisfatti) richiede l'interdipendenza di tutti coloro che lavorano nell'azienda; lo sviluppo di una «mission» comune (quella che la Carta dei servizi pubblici sanitari formula come: «fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti»); una nuova cultura organizzativa, che premi la creatività nella ricerca di soluzioni che abbinino economia ed etica, efficacia, efficienza e qualità percepita; nuove regole tra strutture che erogano servizi sanitari e popolazione, tra professionisti e dirigenza, un nuovo equilibrio ― in breve ― tra diritti e doveri di tutti. Finché l'evocazione dell'azienda non ci porterà ad associare questi obiettivi, l'aziendalizzazione della sanità sarà osteggiata da coloro che vedano nel progetto una minaccia per i valori sui quali la medicina tradizionalmente si regge.

Non minori sono gli equivoci generati dal termine manager. A cominciare da quelli semantici. Come ci ricorda Beppe Severgnini, un «italiano con la valigia» che viaggiando ha imparato a conoscere gli strani destini delle parole: «Manager non vuol dire "alto dirigente" (che si dice executive); in Inghilterra si può essere manager di un negozio di bottoni» 13. Ma in Italia il manager, identificato con il non plus ultra del sapere organizzativo, viene per lo più sentito come lontano dal livello decisionale dei professionisti sanitari che stanno in prima linea sul fronte operativo. La sanità in mano ai manager suona come un'ulteriore espropriazione, mentre il senso del riordino in atto nella sanità è proprio il contrario: riportare l'accento sulla centralità dei decisori finali nelle scelte, per avere un sistema sanitario che garantisca non solo efficacia e qualità, ma anche efficienza ed equità distributiva.

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Bisogna riconoscere che i fraintendimenti sono favoriti da espressioni poco meditate. Quando, ad esempio, capita di imbattersi in frasi quali: «Obiettivo fondamentale del progetto "medico-manager" deve essere quello di mettere il primario in condizione di gestire il proprio business»; oppure: «Il primo passo da compiere è quello di costruire un modello di riferimento ― basato su componenti sia di efficienza sociosanitaria sia di efficienza economica ― il cui obiettivo sia rappresentato dall'equilibrio socio-economico» 14, la reazione di rifiuto dei medici più consapevoli del loro mandato ― «Medico-manager? No, grazie» ― appare pienamente giustificata.

Se invece di lasciarci guidare dagli slogan cerchiamo di ricostruire i grandi tratti della congiuntura culturale in cui nasce il progetto di riordino della nostra sanità, individuiamo in primo luogo la necessità di rendere più europea la nostra amministrazione, ponendo gli uffici pubblici al servizio degli utenti. Secondo l'analisi autorevole di Sabino Cassese, il ministro della funzione pubblica che nel governo Ciampi ha coraggiosamente affrontato la questione amministrativa, «la sfiducia nelle istituzioni che ha aperto la quinta fase costituzionale dell'Italia unita, dopo quella oligarchica (dall'unità alla fine del secolo scorso), quella liberaldemocratica (dall'inizio del secolo al 1922), quella fascista (1922-1943) e quella democratica (1943-1994), non si deve solo ai pessimi voti raccolti dai partiti che sono scomparsi, ma anche alla brutta pagella dell'amministrazione italiana» 15. La questione amministrativa, fino all'aprile 1993, attirava scarsa attenzione. Non che l'inefficienza dell'amministrazione non fosse percepita dal pubblico, ma la politica mostrava disinteresse verso l'amministrazione: «Come tutto ciò che non interessa, il funzionamento dell'amministrazione rimaneva affidato alla buona volontà di poche persone. Si può dire che l'amministrazione era lasciata

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esistere (...). Proprio perché staccata dalla società, l'amministrazione era introflessa, poco attenta a quello che accadeva intorno, alle esigenze degli utenti» 16.

L'inversione di tendenza consisteva nel puntare a un'amministrazione al servizio del cittadino e degli utenti, consumer oriented, operante non solo nell'interesse pubblico, ma nell'interesse del pubblico. L'impulso che il breve ma deciso ministero di Sabino Cassese imprimeva all'amministrazione pubblica in Italia intendeva far allineare il nostro paese con le riforme amministrative già in atto negli Stati Uniti d'America (decisivo è stato, a questo proposito, il rapporto a cui è stato attribuito il programmatico «Reinventare il governo. In che modo lo spirito aziendale sta trasformando il settore pubblico» 17, nel Regno Unito (in particolare con i controlli di efficienza e la «Carta dei cittadini») e in Francia 18. L'operazione di ridare sovranità agli utenti non poteva non coinvolgere in modo prioritario la sanità, uno dei pubblici servizi erogati dallo stato di maggiore importanza nella lista delle priorità.

Un secondo tratto del rivolgimento culturale nel quale va collocato il riordino della sanità in atto nella nostra società è la fine, voluta e prevista, di quella vistosa degenerazione che il sistema pubblico di erogazione delle cure ha subito progressivamente, dopo l'introduzione della riforma sanitaria della Legge 833 nel 1978, ad opera dei partiti politici. Gli osservatori della sanità non avevano difficoltà a denunciare senza mezzi termini la situazione come patologica: «La politica ha prestato alla sanità i suoi uomini, il simbolismo della sua parola ― nella versione più fatua, quella caratterizzata da logorrea e vacuità ― e, purtroppo,

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il più importante dei suoi vizi: il clientelismo» 19, il progetto originario sottostante alla riforma sanitaria e all'introduzione del Sanitario nazionale è stato deviato, dando origine alla sanità dei partiti.

L'invasione dei politici sulla scena della sanità è stata qualificata da voci autorevoli come una colonizzazione. Il processo correttivo per riportare la sanità alla sua originaria vocazione equivale, quindi, a una «decolonizzazione». Il senso metaforico di questa parola esprime con sufficiente chiarezza il bisogno di fare piazza pulita con personaggi che nella sanità si sono comportati come funzionari coloniali nelle terre occupate. Ma il riferimento alla decolonizzazione, intesa come un processo culturale, può essere interpretato in modo molto più proprio di quanto è concesso a una metafora.

Sulla decolonizzazione si è dovuto riflettere intensamente quando, circa tre decenni fa, sono giunti al tramonto gli ultimi regimi coloniali. Agli inizi degli anni sessanta il libro di Frantz Fanon I dannati della terra costituiva la lettura d'obbligo degli intellettuali progressisti. Fanon, psichiatra e politico, era arrivato alla conclusione che la colonizzazione non cessa automaticamente il giorno in cui si dichiara l'indipendenza politica di un paese. Cambia il regime, ma le strutture più profonde che reggono il modo di pensare e di comportarsi rimangono le stesse. Con la sua solita abilità a fornire formule trasparenti, Jean Paul Sartre riconduceva il tema della decolonizzazione a una questione psicopatologica: «L'indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con il loro consenso» 20.

Non sembri sproporzionato mettere in rapporto questi processi con quello che avviene nella sanità in Italia. Se è vero che il sistema sanitario è stato colonizzato dal lato peggiore della politica, è ipotizzabile che nei sanitari si riscontrino

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le deformazioni tipiche dei coloni. Come tratti caratteristici della nevrosi del colonizzato si possono menzionare la propensione al lamento sterile, l'autodenigrazione, le recriminazioni velleitarie e l'impressione di essere straniero a casa propria. La decolonizzazione è effettiva solo quando i coloni si liberano dalla strutture mentali che hanno interiorizzato. Per i professionisti sanitari ciò implica l'abbandono di quella impotenza consensuale ― anche se opera a livello inconscio, come tutte le nevrosi ― che porta ad attendere la soluzione dei problemi dal di fuori: dai politici e dagli amministratori. La quintessenza di questo processo di decolonizzazione è la rinuncia da parte di chi lavora professionalmente in medicina alla condizione psicologica di indigeno e la riappropriazione del ruolo che gli compete nella gestione quotidiana del sistema di somministrazione delle cure. Questa è, ricondotta all'istanza di fondo che la regge, la svolta verso la managerialità con cui si intende rispondere ai mali della nostra sanità.

La solidarietà necessaria e nuove forme di fragilità

Il ridisegno dello stato sociale, che è il presupposto della «riforma della riforma» avviata nella sanità italiana, lascia emergere fragilità nuove accanto a quelle di sempre. La cronicità e l'handicap, l'infanzia con problemi e la condizione dei malati mentali sono altrettante situazioni minacciose, che portano iscritto il rischio di una inarrestabile discesa al di sotto del livello di protezione sociale. Nessuna fragilità, tuttavia, è paragonabile a quella dei malati che si stanno avvicinando alla fine della vita (quelli che, con espressione molto discutibile, vengono chiamati «malati terminali»). La solidarietà necessaria nei loro confronti ha un nome: sono le cure palliative.

C'è voluto molto tempo. E soprattutto la sofferenza di innumerevoli persone. Sono state necessarie delle battaglie, ingiuste ed eccessive come tutte le battaglie. Ci si è scagliati contro i medici, accusandoli di indulgere all'«accanimento terapeutico», di aver perso il senso della misura e addirittura l'originaria ispirazione della loro

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professione. Si è dovuto passare attraverso massicce campagne di opinione, che hanno fatto sorgere organizzazioni rivolte a rivendicare all'individuo il diritto a una morte degna, sottraendosi all'arbitrio dell'apparato medico. È stato necessario che si arrivasse addirittura a proposte di una legislazione favorevole a certe forme di eutanasia, in nome di un'umanizzazione del morire. Siamo dovuti passare per queste strade ambigue e tortuose, ma alla fine qualcosa è successo.

Ci siamo accorti, finalmente, di quanto si muoia male nella nostra società. Per tanti motivi: non ultimo quello culturale, vale a dire la rimozione della morte come momento inevitabile e necessario della vicenda umana. Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue inefficienze, bensì ― paradossalmente ― a causa della sua efficacia. Abbiamo oggi nell'occidente sviluppato e tecnologico una medicina idealmente efficace, che riesce a procurare la guarigione in una quantità di malattie, che in passato sarebbero risultate fatali. Ma questa medicina non può guarire sempre: è inevitabile. Per quante volte si riesca a salvare la vita di una persona, alla fine ci sarà pur sempre un malato che non guarisce e che va verso la morte. Ora, la nostra straordinaria medicina curativa ― di cui siamo giustamente fieri, che vogliamo promuovere e potenziare ― non è adatta ad assistere il paziente che muore. Per questo motivo oggi si muore così male. Ce ne siamo accorti e abbiamo cominciato a cambiare strada. Questo è il fatto nuovo, di enorme importanza

Sono note le cure palliative, soprattutto per la diffusione che hanno avuto nei paesi anglosassoni e in nord Europa. Nella realtà italiana invece sono una novità. Non mancano alcune sporadiche iniziative per cambiare la qualità della vita restante alle persone che non guariscono. Tuttavia quello che si sta facendo è poco più di un secchio d'acqua per annaffiare il deserto.

Coloro che sono impegnati su questo fronte sono semplicemente medici (e infermiere, psicologi, assistenti sociali, cappellani, volontari...) che hanno coscienza di compiere ciò che è richiesto dalla loro professione, quando questa si rivolge a questa categoria particolare di malati.

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Non hanno formule risolutive, anche se cercano di trarre tutto il profitto possibile dalle esperienze che in alcuni Paesi sono in corso da parecchi anni. Non fanno crociate. Però hanno fiducia di far parte di un «movimento»; sì, proprio una di quelle inarrestabili tendenze di pensiero e di azione che nascono quando i tempi sono maturi, rompono schemi culturali che sembravano intangibili, si impongono con la ovvietà delle cose che avrebbero sempre dovuto essere. Un movimento trascina. I pionieri delle cure palliative oggi in Italia osano esprimere il desiderio, con modestia ma con fermezza, che il loro esempio sia contagioso.

Forse si può pensare che il termine «cure palliative» non sia felice. Qualcuno lo ha detto. Nel gioco delle associazioni linguistiche «palliativo» rimanda a qualcosa di inefficace. E poi, come si colloca questo tipo di attività medica rispetto al resto della medicina? È una specialità medica? Una disciplina? Oppure, addirittura, l'opposto della medicina, in quanto rinuncia a guarire? Si tratta forse di creare, sotto l'egida della medicina palliativa, un'agenzia umanitaria su cui scaricare gli insuccessi della medicina curativa? Gli interrogativi sono legittimi, le riserve giustificate.

Il ricorso alla terminologia collaudata e accettata in altri paesi ― in primo luogo quelli anglosassoni, che parlano correntemente di «Palliative Medicine» e di «Palliative Care» ― ha il vantaggio di legittimare l'appoggiarsi alle realtà, scientifiche e istituzionali, che altrove hanno preceduto le nostre realizzazioni. Le riserve nei confronti del nome sono particolarmente giustificate se qualcuno interpretasse la palpazione come un'attività opposta rispetto a quella terapeutica. Perché la medicina palliativa non è altro che la medicina tout court. L'aggettivo «palliativo» è strumentale: vuol aiutare la medicina a recuperare una sua dimensione, che è stata messa in ombra dagli sviluppi recenti. Quando la medicina se ne sarà riappropriata, l'aggettivo potrà scomparire nel sostantivo, come il lievito nella pasta. E chi farà della palliazione potrà dire che sta semplicemente esercitando l'arte medica. Prima però di rinunciare all'aggettivo qualificativo, dovremo essere sicuri

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che la «controrivoluzione» necessaria per far ritrovare alla medicina la strada che la porta al paziente come essere umano sia stata compiuta.

La medicina delle cure palliative è la medicina di sempre. È un modo di esercitare l'arte terapeutica che, rispetto a ciò che conosciamo sotto il nome di medicina, ha tuttavia un carattere di complementarità. Così come il maschile e il femminile sono due modi diversi, ma complementari, di realizzare la comune natura umana.

L'accenno al femminile non è fatto per caso. La medicina palliativa deve molto alle donne. Sono donne le leaders carismatiche del movimento: Dame Cicely Saunders, la fondatrice del St. Cristopher's Hospice; Elisabeth Kubler Ross, che ha elevato a conoscenza scientifica la psicologia del morente 21. È «femminile» la sensibilità che ha permesso di vedere la sofferenza del malato terminale: una sofferenza che non si limita al dolore fisico provocato dalle malattie degenerative, ma comprende dimensioni psicologiche, sociali, spirituali. Una sofferenza che era tanto ben nascosta, proprio in quanto era sotto gli occhi di tutti...

Possiamo chiamare «femminile» una medicina che non si limita a curare, ma si prende cura. Ricorre in modo privilegiato ai più antichi ed essenziali strumenti terapeutici: la parola e la mano. Ambedue come ponti, per creare un varco di comunicazione. E se qualcuno avesse il cattivo gusto di fare dell’ironia sulla medicina delle cure palliative, presentandola come «la medicina del tener la mano», gli si ricordi che il contatto fisico è il primo dei bisogni dell'essere umano quando viene al mondo: nessuno stupore che sia anche l'ultimo a scomparire.

Questa medicina di sapore materno non va semplicemente contrapposta all'altra, quella curativa. Se non altro perché il controllo del dolore, che è il primo imperativo delle cure palliative, rimane un atto medico che non può fare a meno delle conoscenze cliniche e farmacologiche più sofisticate. Il trapasso dalla dimensione curativa a quella palliativa della medicina è graduale. Il discernimento

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dei tempi e dei modi della transizione dall'una all'altra è riservato più all'«esprit de finesse» che all'«esprit de géometrie» del terapeuta.

Per cogliere i rapporti che intercorrono tra le due dimensioni ci può essere utile ancora una volta il parallelismo tra il maschile e il femminile. Queste sono, sì, due modalità diverse e complementari di realizzare la natura umana, ma hanno bisogno l'una dell'altra. Non solo nell'umanità come genere, ma anche nella stessa persona: la donna migliore è quella che non ha represso il suo «animus», ma piuttosto quella che l'ha accettato e integrato. Lo stesso vale per l'uomo con la sua «anima». Analogamente, possiamo dire che la dimensione curativa e quella palliativa della medicina non devono escludersi, ma completarsi reciprocamente.

Queste due dimensioni della medicina costituiscono, insieme, la dimensione della «piena salute». Inserire la medicina per chi muore nell’ambito della piena salute non è una forzatura. Al contrario, i due temi si richiamano e si illuminano a vicenda. La salute non è piena, se è costruita sulla rimozione della morte, se esclude il naturale procedere del corpo verso la propria fine. La salute, invece, che sappia guardare in faccia la morte e assumerla, si trova chiamata a sublimarsi nella «salvezza», in armonia con il duplice significato di salus. La medicina per il malato che non va verso la guarigione, ma verso la morte, trova a sua volta nella salute un importante orientamento. La medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non, dunque, una medicina per il morente o per aiutare a morire, ma una medicina per l'uomo, che rimane un vivente fino alla morte. Anzi, in una prospettiva antropologica spirituale, rimane ― piuttosto ― un vivente anche dopo la morte.

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5. Conclusione: l'ideale e le virtù del buon paziente

Il nuovo profilo della pratica medica che abbiamo tracciato non richiede solo un sanitario diverso, ma anche la formazione di un paziente più consapevole del compito che incombe su di lui nel cercare la giusta risposta ai problemi di salute in collaborazione con il sanitario. Affinché queste considerazioni abbiano il tono della concretezza, presentiamo in conclusione un elenco di consigli al paziente.

Il «buon paziente» dei nostri tempi non è solo colui che tace, si sottomette e segue alla lettera le prescrizioni. Essere un buon paziente oggi richiede intelligenza, volontà e un certo numero di virtù. Per questo, quando si è malati occorre ricordare che:

― un buon medico non esiste senza un buon paziente. Si può fare molto, in quanto pazienti, per migliorare lo stato della medicina, cominciando a disporsi ad essere un buon paziente. Gli orientali dicono: «Quando il discepolo è pronto, arriva il maestro»;

― il buon paziente non è quello che sopporta e tace. Parlare della propria malattia non è soltanto un diritto, ma un dovere;

― non ci si deve lasciare intimidire dalle apparecchiature diagnostiche e delle macchine. Anche il medico più orientato in senso tecnologico ha bisogno del racconto del paziente per capire che cosa la malattia significa per lui;

― il medico non è né il padrone, né il robot. Lui non può esigere un atteggiamento servile; il paziente non deve cercare di ridurlo a un puro esecutore dei suoi desideri;

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― non bisogna fare del medico il proprio complice per piccole frodi (certificati compiacenti, ricette «facili» ecc.): quello che si potrebbe guadagnare sul piano dei vantaggi immediati, lo si perderebbe su quello della stima reciproca e della qualità del rapporto;

― la medicina oggi può fare molto. Qualche volta può fare perfino troppo, per esempio prolungando la vita in condizioni che il paziente considera indegne. Per prevenire queste situazioni, far conoscere al medico qual è il proprio confine accettabile tra la buona terapia e l'accanimento terapeutico;

― tra il paziente e il medico ci possono essere divergenze insanabili in materia di scelte etiche. Il medico non deve fare violenza alla coscienza del paziente, ma neppure quest'ultimo deve farla alla coscienza del medico. Esaurite tutte le possibilità di dialogo, non resta che cambiare medico.

NOTE

1 Illich I., Nemesi medica. L'espropriazione della salute, Mondadori, Milano 1976.

2 Susser M., Ethical components in the definition of health, in Caplan H., Engelhardt H. T. (ed.), Concepts of health and disease, Addison Wesley, Reading 1981, pp. 93-105.

3 Schipperges H., Homo patients. Zur Geschichte des kranken Menschen, Piper, München 1985.

4 Toulmin S. «How medicine saved the life of Ethics», in Perspectives in Biology and Medicine, n. 25, 1982, pp. 736-750.

5 Gracia D., Fondamenti di bioetica, San Paolo, Cinisello Balsamo, p. 174.

6 Faden R., Beauchamp T., A history and therapy of informed consent, Oxford UP, New York, 1986, pp. 123-125.

7 R. Fox, «Training for uncertainty», in Merton R. K., Reader G. (ed.), The Student-Physician, Harvard UP, Cambridge 1957, pp. 207-241.

8 R. Fox, «The process of professional socialization: Is there a "new" medical student? A comparative view of medical socialization in the 1950s and in the 1970s», in Tancredi L. R. (ed.), Ethics of medical care, National Academy of Science, Washington 1974.

9 S. Spinsanti, «Certezze e incertezze del sapere medico», in Bioetica e antropologia medica, Nuova Italia Scientifica, Roma 1991, pp. 71-81.

10 R. FoxThe evolution of medical uncertainty, Milbank Memorial Fund, New York 1980.

11 R. Gillon, «Medical Ethics: four principles plus attention to scope», in British Medical Journal, 309, 1994, pp. 184-188.

12 Op. cit.

13 Severgnini B., L'inglese. Lezioni semiserie, Rizzoli, Milano 1992, p. 22.

14 Bernardon R., Il medico manager, Il Sole 24 Ore Libri, Milano, p. 52.

15 Cassese S., «La riforma amministrativa all'inizio della quinta Costituzione dell'Italia unita», in Il Foro italiano, maggio 1994, pp. 250-271.

16 Ibidem.

17 Osborne D., Gaebber T., Reinventing Government. How the entrepreneurial spirit is transforming the public sector, Haddies-Wesley, Reading Mass., 1992.

18 Cassese S., «Aggiornamenti sulla riforma amministrativa negli Stati Uniti d'America, nel Regno Unito e in Francia», in il Corriere Giuridico, 8 agosto 1994, pp. 1029-1039.

19 Di Michele N., «Politiche sociali», in L'Arco di Giano, 1,1993, pp. 113-119,p. 116.

20 Fanon F., I dannati della terra, introduzione di Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino, 1962, p. XVII.

21 Cfr. Kübler-Ross E., La morte e il morire, Cittadella Ed., Assisi, 1984.