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Sandro Spinsanti
QUALITÀ DELLA VITA O SANTITÀ DELLA VITA? OLTRE IL DILEMMA
in Medicina palliativa e qualità della vita
Rivista di medicina intensiva transdisciplinare
n. 5, aprile 1990, pp. 21-24
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Nel dibattito contemporaneo l’espressione «qualità della vita» ha progressivamente acquisito una semantica peculiare, che si discosta da significati più tradizionali. Siamo lontani, in particolare, da quella ricerca della qualità che è quasi sinonimo di consistenza e omogeneità di un progetto etico, nell’uso del termine accreditato da Robert Musil ne L’uomo senza qualità Ulrich, il protagonista del romanzo, ha singole qualità, ma non ha «la» qualità; Musil lo assume perciò a simbolo dell’uomo del Novecento, che ha subito la perdita del centro e, di conseguenza, la direzione finalistica del suo progetto esistenziale («Con meravigliosa acutezza egli vedeva in sé ― ad eccezione del saper guadagnare denaro, che non gli occorreva ― tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la possibilità di applicarle»).
La ricerca della qualità percorre oggi altre strade. «Qualità della vita» ha assunto, in senso descrittivo, un significato che fa equivalere l’espressione a un sinonimo di vita umana. L’interrogativo che essa veicola è quello relativo alla presenza della «qualitas» umana nelle diverse espressioni della vita. Specialmente all’inizio e alla fine del segmento dell’esistenza, si creano sempre più frequentemente situazioni in cui ci si domanda legittimamente se la vita abbia ancora, o abbia già, la qualità umana. Sono gli interrogativi che si affacciano in alcune situazioni-limite. Solo per riferirci a quelle che ricorrono con più frequenza: si può parlare ancora di vita umana in stati di coma apallico, quando le funzioni cerebrali sono compromesse in modo irreversibile e quelle vitali possono essere prolungate solo artificialmente? È già presente la qualità umana nelle primissime fasi di sviluppo di un embrione derivante da fecondazione dei gameti in vitro?
La difficoltà di trovare un consenso su questi problemi non deriva solo dal pluralismo delle antropologie. Il fatto è che il linguaggio relativo alla «qualitas» umana della vita solo apparentemente è descrittivo: in realtà, implicitamente è valutativo, e quindi veicola una funzione prescrittiva.
Il linguaggio prescrittivo è quello di cui si serve l’etica, nel suo intento di determinare la qualità morale delle azioni. I verbi che esso usa non sono coniugati all’indicativo, ma all’imperativo. La «qualità di vita» in questo senso è intesa come norma di moralità e criterio per l’azione. Indica che cosa va fatto od omesso in determinate situazioni conflittuali.
Per esemplificare alcune di tali situazioni, possiamo riferirci al prolungamento di cure rianimative a pazienti in coma irreversibile, o che si avvicinano ai criteri clinici della morte cerebrale; oppure alla omissione di interventi terapeutici a neonati con gravissime malformazioni. Notevole clamore ha suscitato, in questo senso, la proposta di un gruppo francese ― che si è attribuito la denominazione di «Associazione per la prevenzione dell’infanzia handicappata» ― di sopprimere, o lasciar morire, i bambini più gravi entro i primi tre giorni di vita, nei casi in cui «il bambino presenti una infermità inguaribile e tale da far prevedere che non potrà mai avere una vita degna di essere vissuta». È chiaro che in questo caso il criterio della qualità della vita viene equiparato a quello della fruibilità della vita stessa.
L’equivalenza del criterio della qualità della vita con la desiderabilità del nascituro si riscontra praticamente nel ricorso all’aborto selettivo, in caso di embrioni geneticamente alterati o di feti con gravi malformazioni. La decisione di interrompere la gravidanza in questi casi viene abitualmente motivata con la bassa qualità di vita che si prevede per il nascituro. Anche il dettato della legge italiana 194 del 1978, relativa all’interruzione volontaria della gravidanza, la quale prevede la possibilità di intervento abortivo «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», viene per lo più interpretato in pratica come fondante un diritto ad avere un figlio sano.
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Possiamo rilevare che, a rigore, questo tipo di interruzione della gravidanza solo impropriamente può essere chiamato «aborto terapeutico». La legge stessa, infatti, riserva questa denominazione agli interventi abortivi effettuati dopo i primi 90 giorni di gravidanza in presenza di «imminenza di un pericolo di vita» della donna (art. 7). Resta il fatto che la diffusione di interruzioni della gravidanza nel caso in cui la diagnosi prenatale rilevi anomalie nel feto, anche in assenza di pericolo di vita per la madre, viene correntemente motivata con il ricorso al criterio della qualità della vita.
Lo stesso argomento ricorre frequentemente come motivazione per proposte di introdurre la legalizzazione della cosiddetta eutanasia passiva, che prevede in determinati casi la rinuncia al proseguimento degli interventi che tengono in vita una persona in fase terminale. Anche qui il criterio decisivo è quello della povera qualità della vita, che rende il continuare a vivere non più desiderabile.
Tra i cultori dell’etica bio-medica c’è una diffusa diffidenza nei confronti della qualità della vita, adottata come criterio per prendere delle decisioni etiche in campo sanitario. Tale criterio appare come inaffidabile, impreciso nei suoi contenuti e connivente con il lassismo morale della civiltà consumista che è la nostra. Ad esso si contrappone, soprattutto ad opera dei moralisti cattolici, il criterio della «santità della vita». Questo ricorso non è esclusivo della morale religiosa; può essere condiviso dai sistemi etici a fondazione deontologica.
Il criterio della santità della vita può essere ricondotto al principio secondo il quale è bene tutto quello che va a favore della vita, male ciò che la mette in pericolo. Nel modo più stringato, così P. Giacomo Perico formula il criterio: «la vita umana, per se stessa, indipendentemente cioè dai suoi livelli di qualità, resta il valore più alto». I moralisti di ispirazione religiosa tendono a far coincidere il principio con il rispetto della vita in quanto dono di Dio, sottratta alla disponibilità dell’uomo, quale bene al quale non si deve attentare.
Cercando di passare dalla considerazione generica del valore sacro della vita a un criterio operativo, nell’orientamento ispirato alla santità della vita possiamo individuare i seguenti elementi: 1. la vita è un bene prezioso; 2. deve essere rispettata e protetta; 3. di ogni essere umano vivente si presume che abbia diritto alla vita; 4. nessuno ne deve essere privato senza adeguata giustificazione. Su tali valori è facile trovare un consenso. Difficile è invece tradurli in regole di comportamento.
A un esame più ravvicinato, infatti, il criterio della santità della vita si dimostra molto meno operativo di quanto promette di essere. La vita è un valore conflittuale. La volontà di proteggerla e affermarla può scontrarsi con valori etici (come l’altruismo e la solidarietà: è considerata virtù aiutare chi ha bisogno, anche a rischio della propria vita) e con valori sociali (ad esempio la tutela della collettività: con questi argomenti si è tradizionalmente trovata una giustificazione dal punto di vista morale sia alla pena di morte, sia alla guerra giusta). La religione, infine, apre un altro fronte che può anch’esso entrare in collisione con la tutela della vita. La Chiesa, ad esempio, venera come martiri coloro che non esitano a rinunciare alla vita per non venir meno all’adorazione di Dio. Ancor più, essa considera la stessa difesa della verginità un valore superiore, a cui può essere subordinata la vita fisica.
Anche in ambito medico il principio della santità della vita ha potuto diventare un criterio per le concrete scelte morali solo grazie a una decisiva mitigazione delle sue pretese assolute. La dottrina che distingue tra mezzi ordinari e straordinari è servita per un lungo periodo egregiamente a tale scopo. Quando si tratta di mettere in atto interventi medici che prolungano la vita, solo i primi sono obbligatori, mentre i secondi sono solamente facoltativi. «Normalmente ― affermava autorevolmente già Pio XII ― si è obbligati a usare solo mezzi normali ― secondo circostanze di persone, luoghi, tempi e cultura ― cioè mezzi che non implichino nessun grave peso perse stesso o per gli altri. Un obbligo più stretto sarebbe troppo pesante per la maggior parte degli uomini e renderebbe il raggiungimento del bene più alto e più importante troppo difficile. La vita, la salute, tutte le attività temporali sono infatti subordinate ai fini spirituali».
Nelle condizioni attuali dello sviluppo della medicina, che ha elaborato la capacità di prolungare quasi indefinitamente le funzioni vitali dell’organismo, anche quando la funzionalità corticale e la vita relazionale sono definitivamente compromesse, il criterio della santità della vita può facilmente degradarsi, se non è opportunamente mitigato. Se fosse spinto all’estremo, ne deriverebbe un vitalismo riduttivo, ovvero una celebrazione della vita ricondotta ai soli parametri biologici. Ciò risulta contrario sia allo spirito dell’umanesimo, sia alla stessa visione cristiana dell’uomo. Sarebbe infatti paradossale che il cristianesimo, dopo aver per secoli tradizionalmente mostrato una certa indifferenza verso la vita terrena (pensiamo solo alle schiere di giovanissime educande e religiose che, fin verso i primi decenni del nostro secolo, andavano gioiosamente verso una morte prematura, dispensando parole di conforto ai genitori, che restavano in un mondo da esse percepito come estraneo allo spirito: questo anelito alla vita oltre il corpo era considerato un modello di esemplare virtù cristiana), diventasse ora un difensore a oltranza del prolungamento incondizionato della vita fisica. Più che un’evoluzione della morale cristiana, dovremmo vedere in un simile cambiamento di fronte una frattura profonda con la tradizione.
Un’osservazione ulteriore va riservata al fatto che nella santità della vita come criterio non emerge il valore del soggetto, in quanto specifico della vita umana. Anche il riferimento ai mezzi ordinari e straordinari si richiama più a ciò che viene
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messo in atto per mantenere la vita, che alla considerazione della vita che ha la persona stessa. Anche nella considerazione più accurata di che cosa è obbligatorio fare e che cosa è lecito omettere, il valore morale della vita nella prospettiva del soggetto è toccato solo in obliquo.
Nella riflessione etica il criterio della qualità della vita è emerso progressivamente, attraverso diversi tentativi di ricerca di un linguaggio più adeguato. Nella stessa morale cattolica si è sentito il bisogno di un superamento della distinzione tradizionale tra mezzi ordinari e straordinari, per introdurre una valutazione soggettiva della vita. La dichiarazione sull’eutanasia della pontificia Congregazione per la dottrina della fede (1980) ratifica lo spostamento di accento: «Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale risposta, sebbene valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”».
L’idea di “proporzionalità” rimanda necessariamente a un fine, a una gerarchia soggettiva di valori, al tipo di vita che si considera conciliabile o no con essa. Entriamo così pienamente nell’ambito della qualità della vita.
Per rendere la qualità della vita un criterio praticabile anche per chi si orienta verso una concezione etica di tipo deontologico o si muove in un ambito segnato dalla esperienza religiosa della vita come dono, bisogna demarcarlo da interpretazioni riduttive. Una di queste è quella che mette il criterio a servizio di un utilitarismo egoista. Tanto più pericoloso, quando non è il soggetto stesso, ma altri a decidere per lui se, nelle concrete circostanze e considerata la proporzione tra costi e benefici, la sua vita conservi ancora la qualità che la rende degna di essere vissuta.
Lo stesso linguaggio costi/benefici, per quanto possa sembrare raggelante al primo impatto a un umanista, è passibile di un’interpretazione non riduttiva. Basta considerare tra i «benefici» non solo quelli economici, ma quelli di natura simbolica. Per un gruppo sociale, infatti, l’impiego anche di grandi risorse umane e tecnologiche per salvare una vita umana o prolungare un’esistenza può essere passivo dal punto di vista economico, ma molto produttivo rispetto a valori di cui la società ha bisogno per la propria coesione, quali altruismo, abnegazione, solidarietà.
Per salvare il criterio della qualità della vita dai rischi di utilizzazione a servizio dell’egoismo, basta ricorrere a un riferimento antropologico più ampio, che consideri anche elementi di cui l’approccio esclusivamente biologico-medico non tiene conto. Può essere utile, a tal fine, la formula proposta da Antony Shaw: Q Vi = CN (F+S).
La qualità della vita non è funzione esclusiva delle capacità naturali (CN) dell’individuo. Bisogna tener conto anche di due altri elementi: famiglia (F) e società (S). Se, per ipotesi, le capacità naturali fossero uguali a zero (come nel caso di un bambino anencefalo), la qualità della vita sarà sempre nulla, per quanto grande sia l’impegno della famiglia e della società. Questi due fattori influiscono sulle capacità naturali, tanto negativamente che positivamente. Un bambino, pur dotato del migliore corredo genetico e salute fisica, ma che non abbia il minimo supporto familiare (nasca, per esempio, nel ghetto urbano di una grande metropoli da una madre minorenne, non sposata, dedita agli stupefacenti...), possiamo prevedere che avrà una bassissima qualità di vita. Secondo la formula, se la famiglia è zero, la somma sarà zero. A meno che la società non supplisca la famiglia, prendendosi cura del bambino. Questa variabile può ancora modificare positivamente la futura qualità di vita dell’individuo, conferendo valori più alti alla formula di equazione.
Come si può rilevare, la prospettiva della qualità di vita ha esiti contradditori. Può condurre a una svalutazione dell’esistenza di una persona, qualora come punto di riferimento per valutare la qualità di vita sia adottato il criterio dello standard sociale, escludendo il punto di vista soggettivo della persona, oppure quello delle capacità naturali, prescindendo dalla famiglia e dalla società. Per contro, la preoccupazione per la qualità può produrre esiti indiscutibilmente positivi per il soggetto.
È quanto si può riscontrare, ad esempio, nell’indirizzo che ha portato allo sviluppo delle cure palliative per i malati per i quali non si può più prevedere una guarigione. Questa pratica si basa su una visione antropologica che dà la priorità alla qualità rispetto alla quantità («quando il problema principale non è la quantità, ma la qualità»: è il motto programmatico della Società italiana di cure palliative).
È vero che l’approccio della qualità della vita può essere soggetto ad abusi. Lo stesso può avvenire, però, con l’adozione del principio della santità della vita. Sarà pur sempre necessario tracciare una linea tra mezzi ordinari e straordinari (o proporzionati e sproporzionati); e la linea può passare troppo al di qua o troppo al di là del giusto confine.
La contrapposizione tra il criterio della qualità e quello della santità della vita è, in ultima analisi, artificiale. Ognuno dei due è inadeguato, da solo, a offrirci indicazioni valide per risolvere i dilemmi etici che incontriamo; se condotto all’estremo, senza gli aggiustamenti correttivi che vengono dall’altro criterio, provoca scelte etiche in violento contrasto con il senso comune. L’esortazione del moralista cattolico Richard McCormick a considerare i due criteri come complementari è perciò quanto mai opportuna: «Il criterio della qualità della vita si deve considerare a partire dalla riverenza e dal rispetto
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per la vita, come un’estensione del rispetto stesso per la santità della vita. Tuttavia ci sono occasioni in cui preservare la vita di colui che si trova incapacitato per gli aspetti della vita che consideriamo umani è una violazione della santità stessa della vita. Pertanto, separare i due aspetti e chiamare uno santità della vita e l’altro qualità della vita è una falsa spaccatura intellettuale e molto facilmente suggerisce che il termine “santità della vita ” sia usato in forma esortativa».
Si tratta, in altre parole, di fare un giudizio di qualità della vita in modo tale che esso esprima e rinforzi il nostro interesse per la santità della vita. Concretamente, bisogna cercar di tracciare la linea che demarca l’impegno a proteggere la vita in modo che esso non tradisca la vita stessa, né per eccesso, né per difetto. Ciò avverrà secondo un criterio sintetico, che potremmo approssimativamente chiamare «criterio della ragionevolezza».
Stabilito questo orientamento generale, bisognerà volta a volta esplicitare i parametri che le persone ragionevoli usano per prendere le decisioni. E anzitutto distinguere tra le decisioni che riguardano il soggetto stesso e quelle invece che concernono altre persone.
Le prime sono relativamente più semplici. Se consideriamo, ad esempio, la decisione del soggetto relativa a quel prolungamento di cure, essenziali a mantenere in vita, che possa essere ritenuto ragionevole, ci accorgiamo quanto variano da persona a persona le opzioni moralmente accettabili. Tre valori fondamentali vanno presi in considerazione: la preservazione della vita, la libertà umana e l’assenza di dolore. Nel suo ruolo di protagonista del proprio morire, il soggetto può modulare i valori in conflitto in modi diversi. Tra la difesa della propria libertà e la lotta al dolore, qualcuno potrà scegliere di massimalizzare la libertà, rifiutando il ricorso ad analgesici che deprimono la vigilanza cosciente, anche a costo di sopportare dolore; qualcun altro, invece, opterà per minimizzare il dolore a prezzo della riduzione del grado di libertà che si esprime nella consapevolezza, e magari anche di un abbreviamento della durata della vita.
Per alcuni il prolungamento della vita, anche solo di pochi giorni, è l’obiettivo supremo; altri, invece, preferiscono una vita di minore durata, ma di cui possano essere fino alla fine gli artefici orchestranti. Il mondo soggettivo si dispiega con tutta la sua poliedrica varietà, con motivazioni di ordine spirituale (la fede in un’altra vita può essere una variabile importante), psicologico e affettivo (il desiderio di abbreviare la durata della propria fine può nutrirsi di intenzioni altamente altruistiche, come il desiderio di non gravare sui propri cari o non trascinarli alla rovina economica con spese sanitarie insensate).
Quando lasciamo emergere la soggettività, il bene del paziente non può più essere stabilito a priori e in modo esterno al suo mondo di valori, sulla base di parametri esclusivamente organici. Questo confronto con il soggetto è una sfida per l’approccio medico. Esso si ispira tradizionalmente al principio della «beneficità», in quanto cioè mira a evitare ogni nocività (primum non nocere) e a procurare il maggior bene del paziente. Questo criterio, pur continuando ad essere valido, deve integrarsi con quello moderno dell’«autonomia». L’azione medica deve, in altre parole, tutelare e favorire l’autodeterminazione del paziente, evitando quel paternalismo che consiste nel decidere al posto dell’altro ciò che costituisce il suo miglior beneficio.
Il rispetto dell’«autonomia» dell’oggetto diventa un’impresa di enorme difficoltà quando la persona non è in grado di decidere per se stessa. È il caso dei malati in coma, o ridotti a una condizione di degrado psichico che li rende incapaci di prendere delle decisioni su se stessi; è quanto avviene regolarmente quando medici e genitori devono prendere delle decisioni circa la vita di neonati o bambini. Se per gli adulti, anche se incapaci di intendere e di volere, possiamo ancora basarci su una volontà precedentemente espressa o sul trattamento che presumibilmente la maggior parte delle persone desidererebbe per sé, se si trovasse in quelle condizioni, nel caso dei bambini mancano anche questi punti di riferimento. Il criterio sintetico della ragionevolezza non può qui assumere la funzione di una formula matematica da applicare meccanicamente.
La duplice considerazione della qualità e della santità della vita fa assomigliare la decisione morale a un’opera di creatività spirituale, dalla quale tuttavia non si può sempre escludere a una parte di male necessario.