- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- Stagioni dell'etica e modelli di qualità in medicina
- La formazione del personale delle aziende sanitarie
- Trapianti ed equità nel ridisegno dello stato sociale
- Formarsi alla nuova sanità
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
- La qualità nei servizi sociali e sanitari: tra management ed etica
- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- La cultura del limite nell'agire medico: quando meno è meglio
- Is prevention an ethical problem?
- EBM e EBN: interrogativi etici
- Problemi etici in una sanità aziendalizzata
- Quale mediazione etica tra domanda e offerta nella sanità
- L'azienda sanitaria e i malati
- L'azienda sanitaria e i malati
- Leggi di mercato ed etica professionale
- Quaderni di sanità pubblica
- Rilancio della salute per tutti
- L'umanizzazione del servizio assistenziale
- L'umanizzazione dell'ospedale
- Il limite: economia, etica, ascetica
- Limiti e qualità in medicina
- L'ospedale è un luogo etico?
- Il processo di cambiamento nella sanità italiana
- Salute oggettiva, salute percepita e benessere
- Etica e management
- Problemi di giustizia in sanità nell'orizzonte della bioetica
- Il buon ospedale: modelli di qualità in prospettiva storica
- L'ospedale del futuro sarà un luogo etico?
- L'etica della prevenzione
- Etica della prevenzione tra diritto individuale e dovere collettivo
- Rapporto sanità '97
- Esperienza multicentrica di coinvolgimento degli operatori sanitari
- Il cittadino, il medico e l'Aids
- AIDS la sindrome misteriosa
- Il malato di tumore in Lombardia
- Questioni etiche in oncologia
- Miglioramento della qualità
Sandro Spinsanti
L'azienda sanitaria e i malati
in Quaderni di Bioetica
Macro Edizioni, Cesena 1999, pp. 85-107
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L'AZIENDA SANITARIA E I MALATI
Il «buon» ospedale in prospettiva storica
«Abbiamo un sogno: trasformare gli ospedali italiani in ospedali». Lo slogan a effetto, apparso come inserzione pubblicitaria su diversi giornali a cura del Tribunale dei diritti del malato, mirava a ottenere un consenso e un sostegno economico da parte dei cittadini per il programma politico della nota associazione. La giustificazione razionale della necessità di modificare la realtà degli ospedali italiani veniva data con poche pennellate a tinte fosche («Gli ospedali non saranno mai un luogo di villeggiatura, ma non possono neanche continuare a essere, come spesso accade in Italia, un luogo da incubo»). L'abilità del messaggio consisteva nell'abbinare all'evocazione di scenari disumani l'utopia alata del periodo d'oro del movimento per i diritti civili (niente meno che il «sogno» con cui Martin Luther King ha rivendicato la parità dei diritti per i neri, considerati cittadini di seconda classe!). Lo slogan giocava anche sull'implicita assunzione che esista un consenso generalizzato su ciò che è necessario fare per portare gli ospedali a essere quello che dovrebbero essere, e che non sono: come se il problema non fosse quello di stabilire che cosa costituisce un buon ospedale, ma solo di decidersi a realizzarlo. La realtà, invece, non è così lineare come lo slogan pretende.
La sicurezza di conoscere la natura dell'ospedale è illusoria. È vero che l'ospedale è agevole identificarlo. La denotazione è facile: chiunque può indicarlo con un dito, anche perché nella città moderna tende ad assumere l'evidenza architettonica che in quella medievale spettava alle cattedrali. In senso denotativo, l'ospedale di una città è quello di cui possiamo domandare l'indirizzo, identificarlo sulla piantina, chiedere al tassista di portarci. La connotazione, invece, è molto complessa. Nella linguistica la connotazione di una parola riguarda i significati, compresi quelli simbolici, e le emozioni connesse con l'uso della parola. Numerosi significati sono depositati sull'ospedale come istituzione, sedimentandosi gli uni sugli altri. I più recenti non hanno sostituito quelli precedenti. In una stessa realtà convivono l'ospedale del passato e del presente, nonché quello che ― osiamo sperarlo ― sarà l'ospedale del futuro.
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Un luogo ospitale per le persone fragili
Per dare alla nostra analisi il supporto di uno schema, possiamo immaginare che in ogni struttura ospedaliera siano contemporaneamente presenti almeno quattro ospedali, che si sono succeduti nello sviluppo storico dell'istituzione. All'inizio troviamo l'ospedale hospitium, il luogo ospitale pensato per la protezione dei più vulnerabili. L'ospedale, quale primitiva realizzazione storica dell'Occidente, è nato come una casa di accoglienza per tutti i disgraziati, quale spazio per l'uomo fragile. L'obiettivo di questa istituzione era di esercitare la pietas verso le persone diseredate.
L'idea basilare dell'hospitium come luogo dove si è bene accolti perché si è sofferenti, o perché si è andati a finire sotto le ruote del carro della vita, è stata rinnegata dalla rivoluzione francese. Non solo perché era collegata con l'idea della carità cristiana, ma anche per motivi non ideologici: semplicemente per il fatto che le istituzioni ospedaliere in pratica spesso si allontanavano in modo stridente dall'ideale. L'ospedale premoderno era un luogo indifferenziato in cui si trovava il bambino abbandonato accanto al vecchio, lo storpio accanto al demente, la partoriente accanto al morente. Non solo la realtà dell'ospedale non rispondeva alle più elementari condizioni igieniche, ma spesso era in contrasto con il rispetto dovuto alle persone. La critica della rivoluzione francese a quel modello d'ospedale fu così radicale che il Direttorio cambiò perfino il nome: invece di hôpital propose di chiamarlo hospice.
Nel corso del secolo XIX è avvenuta, in realtà, un'evoluzione che ha portato a differenziare due tipi di istituzioni: l'hospice è diventato il luogo deputato a raccogliere i derelitti ― vecchi, trovatelli, malati inguaribili e affetti da malattie contagiose ― mentre l'hôpital ha assunto la funzione di luogo dove si dispensano le cure finalizzate alla guarigione. La stessa evoluzione semantica è avvenuta anche in Italia. L'ospedale è stato sempre più identificato come il luogo della guarigione, mentre l'ospizio era il luogo della cronicità (anche se una venatura di diffidenza nei confronti dell'ospedale è rimasta nella cultura popolare; la risentiamo in un sonetto del Belli: «Ma nun sai ch'a lo spedale ce se more?», risponde un popolano a chi, vedendo che era malato, gli consigliava di andare in ospedale. Si è conservata a lungo l'idea che andare all'ospedale significava esser avviato su un binario morto).
È molto interessante che alla fine del nostro secolo ricompaia, in modo del tutto inatteso, il bisogno di «ospizio», inteso come luogo di accoglienza per quelli che non possono essere guariti. Mi riferisco
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al «movimento degli hospice», nato nei paesi anglosassoni una ventina d'anni fa. Noi abbiamo una difficoltà quasi insormontabile ad adottare questo termine, in quanto connota l'«ospizio» nel suo significato più deteriore di emarginazione e discriminazione. Nel significato che ha assunto all'interno del movimento delle cure palliative, l'hospice è piuttosto il luogo in cui sono assistiti e curati i malati che non possono più essere avviati per la via della guarigione. In particolare, ai malati in fase terminale viene offerto un ambiente dove è possibile esercitare la pietas e l'accoglienza, dove la palliazione e la cura dell'intero nucleo familiare hanno la precedenza sugli sforzi terapeutici. L'hospice è un luogo dove si cerca di rendere operativo il programma racchiuso nello slogan fatto proprio dall'Associazione italiana per le cure palliative: «curare anche quando non si può guarire».
Anche le R.S.A. (Residenze Sanitarie Assistenziali) per anziani sono una variante moderna del concetto originario di hospitium. Dobbiamo reinventarci oggi il luogo dell'accoglienza per i più fragili, proprio quando ci accorgiamo che l'ospedale non è fatto per i lungo-degenti. Siamo assediati da una marea crescente di persone anziane che l'allungamento della vita ― felice, ma anche tremendo risultato della medicina moderna ― rende inadatte a vivere nella propria casa, mentre l'ospedale si rivela, a sua volta, inappropriato, per motivi economici e umani, a ospitare un declino che diventa sempre più lungo. Questi anziani e malati cronici, bisognosi di assistenza ma per i quali il ricovero ospedaliero non è appropriato, ci pongono una sfida: dobbiamo trovare varianti moderne dell'ospedale nella sua accezione originaria, quale luogo accogliente per l'uomo fragile, un luogo dove sta di casa la pietas.
Parallelamente, le esigenze degli utenti abituali degli ospedali nei confronti del comfort alberghiero sono notevolmente accresciute (cfr. Guzzanti, Mastrilli, 1993; Bernabei, 1993; e, in generale, tutto il dossier de L'Arco di Giano, n. 3, 1993, dedicato a «La casa per l'uomo fragile»). Il senso comune riconosce facilmente che «gli ospedali non saranno mai un luogo di villeggiatura», come dice lo slogan proposto dal Tribunale per i diritti del malato; tuttavia non ci rassegniamo facilmente a uno standard che si discosti troppo dal livello di vita a cui siamo abituati nelle nostre abitazioni: qualità del cibo e pulizia degli ambienti, accessibilità dei familiari e riservatezza ― le camere singole o a due letti al posto delle corsie affollate dei vecchi reparti ― fanno parte ormai della qualità minima che il cittadino si attende dall'ospedale.
Tutte le richieste di qualità che oggi vengono abitualmente avanzate
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in nome dell'«umanizzazione» dell'ospedale (cfr. Marchesi, Spinsanti, Spinelli, 1985) non sono altro che un'attualizzazione dell'antico modello dell'ospedale come luogo accogliente per l'uomo fragile. Sempre di più, inoltre, chi va in ospedale si attende di essere trattato bene non in forza di un atteggiamento compassionevole, ma in nome dei diritti propri di un cittadino in una società democratica. Significativa, a questo proposito, è la richiesta di informazione, quale logico presupposto di un consenso ai trattamenti diagnostici e terapeutici che si ricevono. La capacità di un ospedale di fornire informazioni ― non in modo episodico o occasionale, ma sistematico ― è sempre più percepita come una condizione di qualità.
L'ospedale come cittadella della scienza
Passiamo ora a considerare un secondo modello di ospedale: il luogo di cura come cittadella della scienza medica. Questo passaggio è avvenuto nel corso del XIX secolo. L'opera di Michel Foucault ― La nascita della clinica ― l'ha spiegato in modo ineccepibile. Per la prima volta nella sua lunga storia la medicina ha acquisito la capacità di modificare il corso naturale della malattia. L'ospedale diventa così il luogo dove la medicina come scienza dispensa cure efficaci, miranti alla guarigione.
Il modello dell'ospedale come cittadella fortificata della salute, dove si svolge la lotta organizzata ed efficace contro tutte le forme della malattia, continua a essere più che mai attuale. Non potremo mai considerare «ospitali» gli ospedali che fossero al di sotto dello standard di cure efficaci che la medicina oggi è in grado di fornire (quand'anche fossero eccellenti dal punto di vista alberghiero e del comfort offerto ai degenti). Qualunque sia il livello di gradevolezza dell'ambiente e di attenzione alla persona, se l'infarto, per esempio, non viene curato in modo efficace secondo quanto le acquisizioni consolidate della scienza medica internazionale danno per acquisito, non potremmo dare a quell'ospedale la qualifica di «umano».
In questo modello di ospedale come cittadella della scienza l'umanizzazione equivale sostanzialmente a una richiesta di cure efficaci, abbinate alla sicurezza. L'attualità di questa problematica può essere collegata al dibattito relativo alla permanenza di piccoli ospedali decentrati. Il piccolo ospedale di pochi letti è magari ideale dal punto di vista dell'ospitalità: i malati possono essere trattati in modo non impersonale e burocratico, i medici e gli infermieri stabiliscono rapporti molto familiari tra di loro e con i malati. Tuttavia dal punto di vista dell'efficacia il piccolo ospedale può costituire un
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vero e proprio pericolo per la salute e per la vita stessa.
Che cosa fare dei presidi ospedalieri di piccole dimensioni è attualmente un argomento di politica sanitaria molto scottante in Italia. La popolazione di cittadine di provincia in cui, secondo le indicazioni del governo centrale e in accordo con la programmazione regionale, è stata deliberata la chiusura del piccolo ospedale scendono in piazza, operatori sanitari in testa: «Il nostro piccolo ospedale, così umano, non si tocca!». La popolazione sostiene queste rivendicazioni. Ma di fronte alla patologia seria, la preferenza va naturalmente all'ospedale che garantisca sicurezza ed efficacia. È un'esigenza imprescindibile di ciò che ci aspettiamo oggi da un buon ospedale: deve avere le conoscenze e le tecnologie per dare una risposta efficace alla patologia. La qualità medica che l'ospedale deve garantire comprende essenzialmente l'efficacia delle cure. Credo che ciascuno di noi, dovendo scegliere tra un ospedale dove ci trattano bene ma non ci sanno curare e uno dove invece ci sanno curare, sceglierebbe il secondo, anche se in questo il comfort e l'attenzione alla persona lasciassero a desiderare.
Il modello dell'ospedale come luogo della scienza medica continua a essere quanto mai attuale. La scienza in ospedale non sarà mai troppa. Semmai il problema oggi è quello di una scienza troppo sbilanciata sul versante delle scienze naturali, che non sa integrare il sapere che deriva dalle scienze dell'uomo. La medicina tratta le patologie come se queste riguardassero solo il corpo, e non l'insieme della persona. Anche se, per ipotesi, la pratica di questa medicina fosse ineccepibile dal punto di vista filantropico, del rispetto dei diritti umani e della correttezza gestionale, sarebbe pur sempre carente, qualora non tenesse conto di quanto dell'uomo malato ci dicono la psicologia, la sociologia, l'antropologia culturale.
Le patologie più diffuse nella nostra società non riescono a essere curate efficacemente con una medicina che ignora sistematicamente queste dimensioni dell'essere umano. Per fare solo qualche esempio, pensiamo al problema della cura delle tossicodipendenze; oppure al crescente diffondersi di disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia e l'anoressia: l'incapacità della medicina di trattare queste patologie, galoppanti nella nostra società, illustra le carenze intrinseche di risultati efficaci di una scienza medica che ignora le componenti psicologiche, relazionali, antropologiche e simboliche dei fatti patologici. Pensiamo anche al dolore cronico: i fallimenti medici nel tenerlo sotto controllo, malgrado il sofisticato arsenale terapeutico a disposizione della medicina contemporanea, dipendono dalla negligenza nel considerare il ruolo che esso gioca nella rete
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dei rapporti che lega il malato alla famiglia e alla società. È la prospettiva che ha indotto Arthur Kleinman, antropologo medico di Harvard, a parlare di malattie «sociosomatiche» (Kleinman, 1993).
La carenza dell'ospedale concepito come cittadella del sapere medico è che questo sapere è un sapere dimidiato: conosce solo una parte dell'uomo. Un ospedale «umano» è quello che sa integrare questo sapere completo sull'uomo non solo in modo teorico, ma pratico. Ciò implica il ricorso a professioni che si basano appunto su queste conoscenze umanistiche, come lo psicologo, l'assistente sociale, il cappellano o assistente spirituale, non visti come professionisti di secondo livello, che si occupano delle piccole cose, ma come parte integrante di un unico progetto terapeutico. L'ospedale umano, secondo questo modello, è quello che sa dare risposte efficaci alle patologie. A tutte, comprese quelle tipiche della società moderna, che non possono essere modificate senza Un ricorso sistematico alle scienze dell'uomo, oltre che a quelle della natura.
Presidio dello stato sociale
Il terzo modello di ospedale è quello del welfare state. Dagli anni '40 del nostro secolo in poi, molti paesi dell'area occidentale, a cominciare dall'Inghilterra, hanno socializzato la medicina, come pilone portante del welfare state. Uno dei frutti meno discutibili del XX secolo ― il «secolo breve» che lo storico inglese Hobsbawm ha analizzato nel libro dal titolo omonimo nelle sue poche luci e tante ombre (Hobsbawm, 1995) ― è quello di aver liberato tanta parte dell'umanità dal bisogno e averla avviata al benessere. Il riconoscimento del diritto alla tutela della salute, indipendentemente dalla capacità delle persone di pagarsi i servizi sanitari di cui hanno bisogno, è riconosciuto come un diritto ampio quanto il diritto stesso di cittadinanza.
In questo quadro generale l'ospedale diventa il luogo dove si concentra l'impegno dello stato a fornire a tutti i cittadini l'assistenza sanitaria. Non per motivi di filantropia, ma di giustizia. L'assistenza sanitaria diventa uno dei diritti civili e sociali esigibili da ogni cittadino. Assicurare a tutti l'assistenza sanitaria in caso di malattia, indipendentemente dalla capacità economica di pagarsela, diventa l'impegno prioritario dello stato sociale.
Nell'ospedale tutti i cittadini hanno uguale diritto di accesso, tutti possono pretendere considerazione e rispetto, e soprattutto una cura adeguata alle loro necessità. La cura della salute promossa dallo stato sociale si è tradotta in una modalità che, di per sé, avrebbe dovuto essere evitata: l'ospedale ha preso il posto centrale e quasi unico di
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tutto il sistema delle cure. In quel progetto generoso, con venature di utopia, in cui lo stato si impegnava a promuovere il benessere di tutti i cittadini occupandosi di loro dalla «culla alla tomba», l'ospedale era il luogo deputato a questa assistenza totale.
Attualmente ci troviamo nella necessità di ridisegnare lo stato sociale. Sappiamo che le risorse di cui disponiamo non sono sufficienti ― e mai lo saranno, per quanto allochiamo le risorse a favore della sanità ― per dare tutto a tutti. Siamo perciò costretti a stabile una scala di priorità: a chi dare, cosa dare, con quali criteri. In questa fase di transizione l'ospedale è sottoposto a un forte cambiamento, che rimette in discussione l’ospedalocentrismo a cui siamo abituati.
In questo nuovo stato sociale, verso il quale ci stiamo incamminando, la priorità numero uno è l'efficienza. Mentre nell'ospedale come cittadella della scienza l'imperativo dominante era ed è l'efficacia (all'ospedale chiediamo che guarisca le malattie, facendo ricorso a quanto di più aggiornato può offrire il progresso tecnologico e scientifico), nel nuovo stato sociale l'ospedale deve mirare a distribuire le risorse scarse in modo che con esse si ottenga di più e il meglio. In altre parole, l'ospedale deve essere efficiente, per poter rispondere ai bisogni sanitari non solo di qualcuno, ma di tutti.
L'efficienza è importante come valore economico, ma esprime anche un'esigenza etica. Possiamo illustrare l'assunto con un esempio. Se l'imperatore del Giappone si ammala ― come è successo con il vecchio imperatore Hirohito ― per curarlo si può spostare un ospedale nel suo palazzo, compresa la TAC e tutta la tecnologia più sofisticata. L'efficacia sarà la stessa, ma non si può dire che questa organizzazione delle risorse sia efficiente. Possiamo dare tutto a una persona e ottenere risultati brillanti in termini di efficacia, mandando però deluse le legittime aspettative di tanti altri che avevano diritto di contare su quelle stesse risorse. Come corollario del nuovo stato sociale, dobbiamo esigere che l'organizzazione delle cure in ospedale tenga in debita considerazione il criterio dell'efficienza. Se manca, l'ospedale non può qualificarsi come un buon ospedale, per quanto elevato sia, dal punto di vista della scienza medica, il livello delle prestazioni che fornisce.
Curare i malati e fare quanto è possibile allo stato attuale del sapere medico per restituire loro la salute, non può più essere l'unico obiettivo di una buona medicina: mentre cercano di curare e guarire, i sanitari devono anche fare il miglior uso delle risorse. Ciò implica anche una limitazione nell'uso stesso dell'ospedale. Se viene utilizzato per motivi impropri, facendo in ospedale trattamenti che possono essere fatti altrove o in regime di Day hospital, si realizza uno spreco
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di risorse, e quindi una medicina inefficiente (oltre che, molto spesso, una medicina che calpesta le attese di chi vorrebbe che l'ospedale fosse anche «ospitale»).
Questa preoccupazione si traduce in progetti molto concreti. Uno di questi può essere la promozione del Day hospital o della Day surgery. Organizzare gli interventi diagnostici e terapeutici in un giorno solo, evitando il ricovero, porta al risparmio su tutti i piani: da quello economico a quello del disagio inflitto ai malati. Anche molte operazioni chirurgiche possono essere fatte in ciclo giornaliero, se ben programmate e organizzate. Le stesse cure domiciliari diventano un programma essenziale di un ospedale che mira all’efficienza. Naturalmente queste vanno programmate: non sono tali quelle improvvisate, magari perché i sanitari, diventati sensibili ai costi, decidono a un certo punto di mettere il malato con la sua valigetta degli effetti personali fuori dalla porta dell'ospedale, quasi che, una volta concluso il compito istituzionale dell'ospedale, la sorte del paziente non riguardi più gli operatori ospedalieri. Anche la continuità delle cure e il legame organico con la medicina del territorio fa parte integrante di un ospedale concepito come presidio dello stato sociale.
L'ospedale «azienda»
I tre modelli di ospedale che abbiamo analizzato, presenti sotto forma di eredità del passato, devono essere completati da un quarto: l'ospedale del futuro. Il quale non è solo un pio desiderio, in qualche modo è già presente come esigenza e potenzialità che domanda di essere realizzata: è, o sarà, l'ospedale-azienda, così come è disegnato dai decreti legislativi che disegnano il profilo della nuova sanità italiana.
Qualcuno paventa in questo modello di ospedale un tradimento della sua natura e vocazione originaria. Bisogna anzitutto chiarire un equivoco: non si tratta solo di trasporre nell'ospedale che cura le malattie la filosofia dell'azienda nata per produrre e commercializzare beni e servizi, obbedendo a una logica di profitto. Così inteso, l'ospedale azienda sarebbe davvero un tradimento. Il riferimento invece è a quella filosofia dell'azienda che è stata sviluppata in questi ultimi anni a partire dal concetto di «qualità totale». L'hanno inventata i giapponesi, che grazie a essa sono giunti a una posizione di leadership in molti ambiti del mercato mondiale. Le aziende occidentali, se vogliono sopravvivere e non essere escluse dalla competizione, sono costrette ad abbandonare la vecchia mentalità aziendalistica e
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ad adottare anch'esse la filosofia della «qualità totale». In questa prospettiva l'obiettivo prioritario non è quello di aumentare il fatturato, ma di avere «clienti consolidati», perché soddisfatti. Questa filosofia è risultata vincente nel settore delle automobili; tanto più, quindi, se si tratta di un servizio personalizzato come la cura della salute.
Un cambiamento di questo genere, destinato a orientare le aziende verso il modello della qualità «eccellente», richiede più di un lifting superficiale: implica un ripensamento totale, che si traduce in un atteggiamento diverso di coloro che producono beni o servizi nei confronti del cliente. Applicato all'ospedale, il modello richiede di mettere al proprio centro il paziente-cliente, imparando un modo diverso di lavorare. La centralità del paziente, un tema caro a coloro che hanno a cuore l'«umanizzazione» dell'ospedale, cambia di segno: non è più soltanto un'esortazione morale a comportarsi bene con il malato ― riconducibile, più o meno direttamente, a una concezione deontologica che richiede a chi lavora in sanità un atteggiamento carico di umanità e di valori etici ― ma diventa una strategia di gestione manageriale del nuovo ospedale. Perché l'ospedale possa essere giudicato un buon ospedale, bisognerà guardare alla qualità dei servizi che fornisce. Un indicatore di buon servizio è la giusta soddisfazione di chi ne usufruisce. Il paziente-cliente dovrà uscire dalla struttura ospedaliera non solo curato ― e curato bene, secondo i più alti standard della scienza medica ― ma anche soddisfatto. Altrimenti preferirà, nel regime concorrenziale che si andrà stabilendo, un'altra struttura fornitrice di servizi sanitari. Fornire servizi di qualità, valutati come tali da coloro che ne usufruiscono, equivale a mettere in atto misure strategiche necessarie perché l'ospedale-azienda possa sopravvivere.
È una rivoluzione che non produce soltanto migliori servizi, ma fa sì che gli operatori siano più soddisfatti del loro lavoro. Nella filosofia della «qualità totale» non si può fornire un prodotto eccellente se coloro che lo producono non sono attivamente coinvolti: non come piccole ruote di un ingranaggio, ma come protagonisti attivi che pensano le soluzioni e le propongono, fanno progetti e li realizzano, ottengono piccoli miglioramenti costanti. Il cliente soddisfatto presuppone un fornitore di servizi soddisfatto. Con delle persone frustrate e demotivate non si può fare un'azienda che abbia l'«eccellenza» come obiettivo.
Nell'ospedale azienda il criterio di valutazione non è più solo l'efficacia o l'efficienza, ma diventa l'eccellenza (per il concetto di «azienda eccellente» vedi Peters Waterman, 1992). La scommessa per il futuro è il passaggio a quell'ospedale azienda che realizzi le potenzialità
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di umanizzazione che ha in sé, quasi una sintesi delle esigenze implicite nei modelli di ospedale hospitium, ospedale-cittadella della scienza e ospedale-presidio del welfare state. Dovrà essere, contemporaneamente, un luogo ospitale dove le malattie vengono curate in modo efficace, con l'efficienza che permette di rispondere con risorse limitate ai bisogni di tutti i cittadini, puntando insieme ― erogatori dei servizi e cittadini ― alla qualità eccellente.
Qualità, soddisfazione ed etica
Oggi, alla fine del XX secolo, cerchiamo una «buona» medicina per rispondere ai nostri problemi di salute, non meno di quanto abbiano fatto i nostri antenati o i nostri padri, soltanto una generazione fa. Ma la nostra idea di ciò che corrisponde a buona o cattiva medicina è cambiata, così come sono cambiate le nostre attese nei confronti di un ospedale o del servizio sanitario pubblico.
Più precisamente, possiamo dire che ci troviamo presi in un processo storico che ha visto il susseguirsi di almeno tre grandi modelli di buona medicina, ognuno dei quali prospetta in modo coerente come si devono comportare i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, la società nel suo insieme.
Ogni modello che si sussegue nel tempo ci obbliga a ripensare ogni volta la medicina intera sotto una diversa luce di qualità. In modo sintetico, possiamo dire che i tre modelli rappresentano tre diverse stagioni dell'etica in medicina.
L'etica medica come etica dei medici
Per illustrare i cambiamenti di tutto ciò che associamo all'idea di «buona» medicina, ci serviremo di uno schema. Come ogni schema, introduce una certa semplificazione nella realtà delle cose, ma ha il vantaggio di concentrare l'attenzione sui punti nevralgici del cambiamento.
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Stagioni dell'etica in medicina
|
Epoca premoderna Etica medica
|
Epoca moderna Bioetica |
Epoca postmoderna Etica dell'organizzazione |
La buona medicina |
Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente? |
Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte? |
Quale trattamento ottimizza l'uso delle risorse e produce un paziente/cliente soddisfatto? |
L'ideale medico
|
Paternalismo benevolo (scienza e coscienza) |
Autorità democraticamente condivisa |
Leadership morale, scientifica, organizzativa |
Il buon paziente
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Obbediente (compliance) |
Partecipante (consenso informato) |
Cliente giustamente soddisfatto o rimborsato) |
Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente) |
Partnership (professionista-utente) |
Stewardship (fornitore di servizi-clienti) Contratto di assistenza: azienda/popolazione
|
Il buon infermiere
|
«Paramedico»; esecutore delle decisioni mediche; supporto emotivo del paziente |
Facilitatore della comunicazione, a beneficio di un paziente autonomo
|
Manager responsabile della qualità dei servizi fomiti |
Chi prende le decisioni
|
Il medico, in «scienza e coscienza» |
Il medico e il malato insieme (decisione consensuale) |
La direzione aziendale, assieme ai dirigenti delle unità operative (negoziazione)
|
Il primo modello presentato dallo schema può essere chiamato premoderno. Ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente risale almeno a Ippocrate. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli.
Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall'epoca di Ippocrate fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.
La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell'epoca premoderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?» Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione. I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all'imperativo di fare
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il bene del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista. «Paternalismo» in questo contesto non equivale a un giudizio di valore: vuol essere solo la descrizione di una modalità di rapporto. Vuol dire che tra chi cura e colui che riceve le cure c'è lo stesso rapporto asimmetrico che esiste tra un buon padre e una buona madre e i figli del cui bene sono responsabili. Il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e tutta la sua dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se stessi l'obbligo di prendere le decisioni «in scienza e coscienza». Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio della beneficence, ovvero di beneficità.
Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all'atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare «paziente», in tutti i significati del termine. Il buon paziente è il paziente «osservante». A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la compliance. Come affermava l'illustre spagnolo Gregorio Maranon, che ha rappresentato nella prima metà del secolo il permanere dell'ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».
In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all'opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine «alleanza» fa parte della tradizione religiosa.
Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell'alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze. La guarigione in medicina, secondo questo modello, si ottiene mediante l'unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza.
Il seguire la prescrizione medica è la condizione essenziale perché
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l'alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Questo modello riconduce la qualità etica di un atto medico a un unico parametro: quello costituito da un vettore che visualizza la maggiore o minore rispondenza di ciò che si fa al paziente a ciò che gli porta un beneficio, in quanto è clinicamente indicato. Graficamente lo possiamo raffigurare in questo modo:
Modello premoderno
I valori sono rappresentati in maniera scalare per alludere al fatto che il bene procurato al paziente può essere maggiore o minore (e anche, nei casi estremi, nullo o addirittura costituire un fatto nocivo; per questo l'etica medica ippocratica ha messo come guardiano di tutto l'edificio costituito dai doveri del medico l'imperativo fondamentale: Primum non nocere).
Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia dei professionisti che lavorano in sanità, sia dei pazienti. Soltanto quando diventiamo «moderni» il modello entra in crisi.
La stagione della bioetica
Quando comincia l'epoca moderna? I manuali di filosofia e di storia generalmente fanno iniziare la modernità con l'illuminismo, nel XVIII secolo. Ci dicono che nella storia è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell'esistenza. L'Illuminismo ha modificato l'insieme della vita politica e sociale; solo in un ambito non è entrato: in medicina. Nei rapporti sociali che si stringono attorno a chi somministra e a chi riceve le cure sanitarie, l'epoca moderna non è incominciata fino a pochissimo tempo fa. Soltanto da una ventina di
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anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica che la medicina è entrata nell'epoca moderna. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di «buona medicina» proprio dell'epoca premoderna.
Il fine generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte. Nell'epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di autodeterminare le proprie scelte. L'autonomia della persona è fondamentale nell'epoca moderna. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel famoso saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? L'Illuminismo comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità dovuta all'uomo stesso, intendendo per minorità «l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza servirsi di un altro». Il primo paragrafo dello scritto, che sintetizza il programma di vita dell'uomo moderno, termina con l'esortazione: Sapere aude (abbi il coraggio di servirti dell'intelletto come guida).
Il malato dell'epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui nella medicina tradizionale il malato è per definizione uno che non può autodeterminarsi. Dire che la medicina entra nell'epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione il paradigma paternalista, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (essendo le scelte di queste ultime determinate dalle prime).
Nell'epoca moderna i valori del malato, intesi come un quadro di riferimento che guida l'autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale del fare «buona» medicina. Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: «Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?» Non basta stabilire ― per esempio ― che l'atto medico ha di fatto prolungato la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo parlare di buona medicina. L'autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente), diventa un criterio di qualità. L'intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico che si basa sul sapere della sua professione, ma deve essere individuato assieme al paziente, spesso con un faticoso processo di contrattazione.
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Superato il paternalismo benevolo, l'ideale medico in questo modello diventa un'autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il consenso informato. L'idea di qualità dell'atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l'intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche che lo riguardano.
Questa è la nozione di consenso informato che troviamo nell'importante documento dottrinale proposto dal Comitato Nazionale per la Bioetica: Informazione e consenso all'atto medico (20 giugno 1992): «Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società. Si ritiene tramontata la stagione del "paternalismo medico" in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell'esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente, e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l'indicazione clinica in senso stretto». La sottolineatura che specifica la natura del consenso informato quando lo consideriamo dal punto di vista etico ― «una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano» ― ci permette di dissociarci dall'uso del consenso informato che si va diffondendo anche in Italia, concepito per lo più in funzione difensiva del medico, non finalizzato a promuovere l'autonomia del paziente.
Nella prospettiva che abbiamo adottato, il paziente non ha più solo diritti ma anche dei doveri. La sua posizione non è esclusivamente di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire piuttosto delegare la decisione, affidandola interamente al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di diventare un buon paziente. Per diventarlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha anche un compito etico: deve realizzare tutto quello che è necessario per essere un buon paziente. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.
L'idea di qualità, dunque, include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica, usato per designare questo modello di qualità dell'atto medico, è un neologismo, indicato per un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina, appropriata per la stagione dell'etica in medicina che abbiamo chiamato
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«moderna». Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell'ambito dell'etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell'accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, assieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell'ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l'etica civile, l'accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli «stranieri morali».
Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare in questo modello. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale, che sposta l'accento della qualità da un modello a un altro, inaugurando un'altra epoca della qualità e dell'etica nella medicina.
Per evitare facili equivoci e smantellare almeno alcune riserve ― quelle che nascono dal timore che intenda abbandonare l'etica medica tradizionale ― è necessario sottolineare che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici. In altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere. Le scelte in medicina si collocano su un piano a due dimensioni, dove la contrattazione tra l'indicazione clinica e le preferenze del paziente crea il punto d'incontro.
Piano della contrattazione beneficio-preferenze
Modello moderno
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Quando l'ospedale si organizza come un'azienda di servizi
Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l'epoca postmoderna. Ci stiamo muovendo, infatti, verso l'introduzione dello «stile azienda» in sanità. Il modello di qualità comporta anche un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente possiamo dire che non solo il malato deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un «cliente». Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.
Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con il riordino del nostro servizio sanitario pubblico e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un'esigenza strategica per la sopravvivenza dell'azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all'altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell'azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un'altra struttura, l'azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per motivi ideali (carità cristiana o filantropia), oppure per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell'azienda.
Il modello di qualità postmoderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l'azione sanitaria. Innanzi tutto l'interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte, ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l'uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell'interrogativo etico viene modificata.
Nell'etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l'azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l'azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l'azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l'equità sociale, sia l'attenzione agli interessi dell'azienda.
La qualità, ovvero il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli
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precedenti, ma integrarsi con essi. La «buona» medicina è quella che deve mirare a guarire in maniera rapida, efficace e duratura. Ma questo non basta: deve anche preoccuparsi di essere «giusta», rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste considerazioni si aggiungono poi anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell'orizzonte della giustizia in considerazione dell'accesso ai servizi ― che la concezione dello stato sociale apre a tutti coloro che hanno bisogno, indipendentemente dalla loro capacità economica ― e dell'equa distribuzione delle risorse.
La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall'integrazione delle esigenze che nascono dall'etica medica, da quelle della bioetica, e delle esigenze, infine, di quella nuova stagione dell’etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell'economia, e che possiamo chiamare etica dell'organizzazione. Per la precisione, da tutt'e tre contemporaneamente. Le stagioni dell'etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell'assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali. Lo schema seguente, che pone le scelte in uno spazio tridimensionale, può visualizzare la complessità della situazione attuale:
Spazio della contrattazione beneficio-preferenze-appropriatezza
Modello postmoderno
Idea grafica di Patrizio Pasqualetti
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Finché la qualità dell'intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca premoderna), maggiore era il beneficio che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui, maggiore era la qualità, anche etica, dell'atto medico. La modernità, con l'introduzione dell'autonomia del paziente, ha introdotto un altro parametro, indicato nello schema come asse delle preferenze. La buona scelta medica dovrà tener conto contemporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che spesso produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze, o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).
A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungerne una terza, così che la decisione clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo considerare, infatti, anche l'appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell'appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.
La buona medicina ci appare così come il frutto di una «contrattazione» molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l'indicazione clinica (il «bene» del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il «consenso informato») e infine l'appropriatezza sociale. L'assistenza sanitaria, dovendo conciliare nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare alle esigenze della scienza, ci appare più che mai un'arte.
L'ideale medico dell'epoca postmoderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell'azienda postmoderna: è necessario dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell’équipe.
Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma il nostro obiettivo non è il cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì il cliente «giustamente soddisfatto». Il buon rapporto è la
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stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio. È il presupposto che sta alla base della «Carta dei servizi pubblici sanitari», predisposta nel 1995 dai ministri della Funzione pubblica e della Sanità. La Carta ― leggiamo nella presentazione ― intende assegnare «un ruolo forte sia agli enti erogatori dei servizi, sia ai cittadini nell'orientare l'attività dei servizi pubblici verso la loro <missione>: fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti».
I problemi etici della soddisfazione del paziente
Il terzo modello, quello che abbiamo chiamato «aziendale» o postmoderno, è particolarmente insidioso. Quando portiamo nella sanità lo stile azienda e consideriamo il rapporto con il paziente come cliente, dobbiamo essere consapevoli che abbiamo anche posto le premesse per affossare i valori importantissimi, come l'orientamento al bene del paziente, che ci sono stati trasmessi da secoli di medicina ippocratica. Promuovendo il paziente-cliente, non dobbiamo dimenticare che la soddisfazione del paziente non è un imperativo assoluto, sciolto cioè da vincoli morali. Qualsiasi azienda, ma soprattutto l'azienda sanitaria, deve essere sottoposta alle esigenze dell'etica. Il paziente non va soddisfatto in qualsiasi modo, ma solo in un modo giusto. Un supporto sistematico per visualizzare i problemi della soddisfazione in rapporto con le esigenze dell'etica può essere fornito dal seguente schema.
Il quadrilatero della soddisfazione
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giustamente soddisfatto
giustamente insoddisfatto
ingiustamente soddisfatto
ingiustamente insoddisfatto
Le ragioni dell'insoddisfazione sono diverse. È ovviamente insoddisfatto il paziente a cui, per incuria o incompetenza, non sia stato diagnosticato e trattato il suo male: egli ha diritto che, secondo il
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modello dell'etica medica, sia messo in atto tutto ciò che gli procura il beneficio che è autorizzato ad aspettarsi. Ma sarà insoddisfatto anche il paziente diabetico ― per fare un esempio ― che venga «messo a insulina» d'autorità, senza che gli sia spiegato il significato e la necessità della decisione terapeutica, i vantaggi che ne ricava e le esigenze di compliance. La soddisfazione del paziente non può diventare un assoluto, ma va confrontata con alcune esigenze imprescindibili, in base alle quali possiamo dire che il paziente è giustamente soddisfatto. Per portare un esempio tratto dal nursing: come sanno gli infermieri che lavorano in ambito geriatrico, gli anziani spesso non sentono lo stimolo della sete e rifiutano di bere. Sarebbe soddisfatto, ma ingiustamente, l'anziano che fosse lasciato semplicemente alle sue preferenze e non trattato secondo le esigenze della scienza infermieristica. In questo caso ciò che determina se la soddisfazione soggettiva del paziente, sia giusta o ingiusta, è il sapere che è proprio del professionista.
I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti. Alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a dargli delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio), altri a danno di terzi (è chiaro che il paziente a cui faccio, per un privilegio, saltare la lista d'attesa è soddisfatto; ma è ingiustamente soddisfatto se considero le esigenze di equità).
Se la soddisfazione non è l'ultimo criterio di qualità, ma va piuttosto misurata con le esigenze dell'etica, la stessa cosa possiamo dire dell'insoddisfazione. Ci sono casi in cui il paziente è ingiustamente insoddisfatto. Questo è il caso del paziente che va dal medico di medicina generale con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al vicino o di cui si parla di più), oppure vuole un trattamento di compiacenza, come un certificato falso di malattia. Se questo paziente non viene soddisfatto, cioè gli si nega ciò che richiede in modo illegittimo, allora è ingiustamente insoddisfatto.
La prospettiva interessante che apre il «quadrilatero della soddisfazione» è quella di proporre una visione dinamica dell'etica. Troppo spesso identifichiamo l'etica con un'istanza che giudica i comportamenti ― buono o cattivo, giusto o ingiusto, appropriato o non appropriato ― ma meno adatta a ottenere delle trasformazioni significative dei comportamenti.
La prospettiva cambia se, tenendo a mente il quadrilatero della soddisfazione, ci domandiamo: quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente, che nel grafico si trova in un quadrante inferiore, passi in uno superiore? L'obiettivo ideale è che si collochi
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nel primo a sinistra, tra coloro che sono giustamente soddisfatti; ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia giustamente insoddisfatto (questa possibilità di una insoddisfazione insanabile ci libera da un complesso di onnipotenza: non possiamo far sì che tutti siano soddisfatti, ma possiamo evitare almeno che lo siano ingiustamente).
L'etica ci appare così uno strumento operativo: ci stimola a fare qualcosa per modificare una situazione. L'etica è essenzialmente un insieme di interventi dinamici, tesi a un risultato. La qualità dell'intervento sanitario, infine, sta nella sua capacità di integrare i diversi elementi: ciò che la scienza medica ritiene assodato e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del «cliente» che ha sempre ragione), ciò che è conciliabile con le esigenze dei diritti umani e con l'autodeterminazione del paziente, ciò che promana dall'orizzonte dell'ottimizzazione delle risorse che inaugura l'era delle aziende sanitarie.
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