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Sandro Spinsanti
IL LIMITE: ECONOMIA, ETICA, ASCETICA
in Il limite
Atti degli incontri con la cittadinanza promossi dall'ADVAR
Treviso, 2003
pp. 7-16; 31-33; 35-36
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Ci lasciamo introdurre al tema del limite da una storia. Una vicenda con due protagonisti, uno piccolo e uno grande. Quello piccolo è un bambino di 11 anni che si chiama Jacoby Howard; gli amici e quelli di famiglia chiamano Coby. Abita nello Stato americano dell’Oregon. L’altro protagonista è un soggetto importante: il Senato dello Stato americano dell’Oregon. La storia si è svolta nel 1987. Coby ha la leucemia. E avrebbe bisogno, per avere una qualche chance di guarire, di un trapianto di midollo. Il Senato dell’Oregon, nella primavera del 1987, si deve confrontare con un
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problema di budget. A disposizione c’è una determinata cifra, che deve essere allocata. Con quel determinato importo si possono fare due cose: prolungare un programma di aiuto per una decina di bambini leucemici, assicurando loro i trapianti necessari, oppure si può estendere l’assistenza di base a circa duemila donne e bambini attualmente senza copertura sanitaria, offrendo loro dei servizi che non potrebbero pagare con le proprie risorse. Il Senato nella primavera del 1987 ha preso una decisione sofferta: interrompere il programma di trapianti per leucemici e destinare la somma disponibile alle cure primarie di donne e bambini. La famiglia di Coby, non potendo più disporre dell’assistenza pubblica, comincia una colletta per raggiungere i 100.000 dollari necessari per questo intervento; sono arrivati a 70.000 dollari quando, verso Natale del 1987, prima di riuscire a completare la somma richiesta per l’intervento, Coby muore.
Questa storia personale ― privata, privatissima ― ha acquistato un significato di ampia portata. È stato suggerito di considerare la morte di Coby come la prima vicenda nata da un deliberato ed esplicito razionamento delle risorse in sanità. Quando la piccola storia privata è diventata di dominio pubblico qualcuno è andato a rivedere il discorso che aveva fatto il Presidente del Senato dell’Oregon al momento della decisione di politica sanitaria. Aveva affermato: "La tecnologia medica ha superato e continuerà a superare la nostra capacità di pagarla. Questa è la dura realtà: dobbiamo limitare il denaro che spendiamo nella cura della salute!".
Dobbiamo riconoscere che il discorso sul limite in medicina è entrato attraverso l’economia. Non tutti i Paesi hanno preso la via del razionamento esplicito, decidendo quali servizi alla salute vengono concessi ai cittadini e quali negati. Anche in Italia negli anni ’90 abbiamo preso questa strada, benché l’idea stessa di razionamento all’inizio sia stata presentata sotto forma di razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale. Ma il modello dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), introducendo la distinzione tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è, va esattamente nella
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direzione di una limitazione per via amministrativa, e quindi di un razionamento.
Dal punto di vista culturale, invece, la medicina ci aveva abituato a sfidare l’idea stessa di limite, diffondendo piuttosto la convinzione che tutto quello che noi possiamo fare per la cura della salute sia doveroso, e quindi dobbiamo farlo. La medicina che noi conosciamo si è presentata sempre di più come una frontiera che avanza continuamente, spostando in avanti i confini delle sue possibilità. Crea attesa e ci dà l’illusione di poter fare sempre di più; vivere sempre più a lungo, in uno stato di sempre maggiore salute. In breve, ci presenta la vita come un campo di conquista della medicina, con la promessa di trovare sempre nuovi metodi per sconfiggere le malattie.
L’idea di un limite nella vita, dal punto di vista della sua estensione nel tempo, e di carenze intrinseche che si traducono in fragilità, perché la salute prima o poi ci tradisce, sembra che non faccia più parte della nostra cultura. Può farci riflettere una considerazione di carattere generale proposta da qualcuno che al momento attuale conosce il limite da un punto di vista diverso da quello di cui ci stiamo occupando, perché sperimenta una radicale limitazione della libertà personale. Mi riferisco ad Adriano Sofri che, come tutti sanno, si trova confinato in prigione. Nel suo libro Altri hotel (Mondadori, 2001), parlando nel contesto di un dibattito sollevato da Montanelli sull’eutanasia ovvero sulla decisione di mettere un limite alle cure mediche che tengono in vita, Sofri prende posizione affermando: "Ho fatto in tempo ad appartenere ad una cultura umana millenaria, solo da poco abbandonata, per la quale (non solo nella sua versione cristiana) il timore nei confronti della violazione della natura, il senso del sacrilegio era forte e profondo. La natura, e per essa il tempo, il tempo che uccide o risana, erano sentiti come inviolabili e pronti a prendersi una rivincita. Non ho nostalgia di questa cultura, al contrario. Bisogna che tutti gli esseri viventi vengano liberati quanto è possibile, dal dolore e dalla debolezza. Ma so che nel modo di questa liberazione c’è un prezzo alto...". Adriano Sofri coglie acutamente il centro
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del problema: l’idea che ci sia una natura che ci mette dei limiti non fa più parte della nostra cultura, né religiosa né laica. Al contrario, è considerato come tipico della natura umana infrangere la natura, andare al di là, non accettare limiti; la natura dell’uomo è di essere culturalmente innaturale. Non esiste una vita autolimitata, ma dove scopriamo delle barriere ai nostri progetti siamo piuttosto autorizzati a vedere una sfida. Aspettiamo che la medicina, che ha come suo ambito di attività la salute, ci dia sempre nuovi orizzonti.
Il tema del limite, entrato attraverso la porta dell’economia e della scarsità delle risorse, ci apre in realtà a questioni antropologiche molto delicate. Anche se avessimo a disposizione tutte le risorse che ci servono, sarebbe auspicabile la prospettiva che la vita umana non debba avere un limite, che non si possa più parlare di natura, in quanto il proprio dell’uomo ― la sua natura ― è di essere artificiale, non naturale? Noi siamo quello che noi facciamo di noi stessi; abbiamo un compito: quello di trascenderci sempre. È sostenibile dal punto di vista umano, e soprattutto etico? Per costringere la questione entro un interrogativo espresso in termini colloquiali: viviamo meglio o viviamo peggio se non adottiamo un limite?
Al di là delle dimensioni inevitabili dell’economia sanitaria, ci troviamo a riformulare il tema del limite in maniera nuova: non è questione di risorse economiche scarse, ma di che cosa ci aspettiamo dalla medicina. Dobbiamo rimettere in questione il punto di partenza, cioè che l’idea del limite nasca in medicina dall’economia sanitaria, per il fatto che non possiamo più permetterci di pagare tutte le cose che la medicina ci promette di dare o di fatto ci dà. Ciò che emerge sono piuttosto i limiti interni della medicina. Quando ci liberiamo dalla seduzione che esercita l’economia, ci rendiamo conto che in realtà il problema del limite in medicina era cominciato molto prima che nascessero i problemi generati dalla scarsità delle risorse. Almeno potenzialmente, il limite era apparso in medicina due secoli fa, anche se quella potenzialità non aveva avuto la possibilità di esprimersi. Due secoli fa, infatti,
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è avvenuta nella cultura dell’Europa una svolta molto importante: la rivoluzione liberale. Questa ha impostato i rapporti tra gli esseri umani sulla base dei diritti delle persone a essere considerate come uguali. Era la netta antitesi a un’impostazione dei rapporti interpersonali di tipo paternalistico e autoritario. Ciò valeva anche per la medicina. In buona sostanza: la medicina veniva intesa come un’attività esercitata da qualcuno che aveva un potere sul corpo dell’altro, un potere benefico. Il paternalismo non aveva una connotazione negativa, come nell’uso linguistico attuale, dove il paternalismo evoca il sospetto di un abuso di potere. La madre, che ha un potere assoluto sul suo bambino piccolo, non agisce male se prende decisioni per il bene del bambino. Lo stesso valeva per il medico che decideva che cosa andava fatto per il bene del paziente. Il suo era un potere assoluto.
Troviamo una chiarissima testimonianza di questa concezione in un medico del XVII secolo, vissuto quindi prima della rivoluzione liberale. Si chiamava Rodrigo De Castro. In un trattato, Medicus politicus, riassumeva tutta la filosofia della medicina in questa frase: "Il medico ha il potere di governare il corpo umano, così come il monarca governa lo stato e Dio governa il mondo”. Questo potere di governo è un potere che non ha rapporto con il concetto di limite. Ognuno nel proprio ambito, ha un potere non soggetto a vincoli, quindi ab-solutus, assoluto. Di fronte al medico non esisteva un altro soggetto, qualcuno che limitava la sua autorità, ma una persona in necessità, un “povero cristo”. Se il medico riteneva che il paziente avesse bisogno, era autorizzato a fare tutto quello che riteneva giusto per il paziente. Non era limitato da un’altra volontà; l’unico limite era eventualmente quello delle risorse, che gli impediva di fare per il paziente tutto quello che aveva in mente.
La volontà del malato quanto contava? Nella cultura che abbiamo ereditato, e che trovava l’espressione nell’etica medica, la volontà del malato non era presa in considerazione. In un celebre trattato giuridico del 1914 di Grispigni, intitolato: La volontà del paziente nel trattamento medico-chirurgico, troviamo la seguente
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affermazione: "Nel caso in cui la malattia costituisca un pericolo grave e imminente alla persona, si può compiere il trattamento medico chirurgico nonostante che manchi il consenso, ovvero nonostante che questo sia invalido, e perfino nonostante che il paziente opponga un divieto; e questo, magari, cerchi di far valere ricorrendo alla resistenza". Si poteva fare buona medicina senza tenere in considerazione la volontà del paziente, anzi addirittura violandola. In questo atteggiamento vediamo in atto il potere assoluto del medico. Non esisteva, davanti a lui, qualcuno che gli ponesse un limite, contrapponendogli un’altra volontà; non c’era un soggetto con un suo ideale di buona vita, che potesse dire dei sì e dei no, che indicasse delle restrizioni.
Nel vasto mondo c’erano però dei semi almeno di un altro tipo di relazione tra medico e paziente. Nello stesso anno in cui in Italia veniva pubblicato il trattato di Grispigni, il 1914, in America ha luogo una vicenda medico-legale che si sviluppa sotto tutt’altro segno. Una signora va da un medico per un problema a un piede e l’ortopedico dice: "Qui bisogna operare". E la signora si fa operare. Dopo un po’ ritorna dall’ortopedico, accusando una zoppia al piede operato. Il medico le spiega che è un effetto collaterale indesiderato: l’operazione è fatta bene, ma si poteva prevedere anche questo esito. "Ma lei non me l’ha detto” ― obietta la signora ― "No, io non ero tenuto a dirglielo"; "Ma se io l’avessi saputo non mi sarei fatta operare"; "Io non dovevo dirglielo". La cosa va davanti a un giudice. Il giudice si chiamava Benjamin Cardozo; con una sentenza celebre, il giudice dà torto al medico, affermando: "Ogni essere umano adulto e capace di intendere e di volere ha diritto di decidere che cosa viene fatto al suo corpo".
Nella pratica della medicina è successo in questo ultimo tempo che quell’impostazione che, almeno teoricamente in alcuni processi era stata formulata negli USA, il Paese che costruiva i rapporti sociali sulla base del liberalismo e della difesa dei diritti della persona, progressivamente si è affermata anche in altri paesi della vasta area culturale che chiamiamo l’Occidente. Anche in Italia comincia a farsi strada. Di fronte all’operatore sanitario si
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profila così quel limite che nasce dall’autonomia di un’altra persona. Davanti al medico non c’è soltanto una persona che ha bisogno: c’è un paziente, che è un soggetto, un cittadino, una persona che può e deve decidere insieme al medico che cosa è meglio per lui. Il modello proposto dal testo di Grispigni, che di fronte al medico colloca un malato che ha bisogno, un professionista autorizzato a decidere e a mettere in atto ciò che ritiene opportuno per il bene del paziente, si sta sgretolando. Emerge un pluralismo di soggetti, con diversi orientamenti culturali e preferenze.
Non è detto che tutti vogliono quello che la medicina di oggi può proporre. Quello che va bene per uno può non andare bene per un altro. Qualcuno può puntare tutto sul prolungamento della vita a qualsiasi condizione, qualcun altro invece certe condizioni di sopravvivenza non le accetta. Per qualcuno il prolungamento della vita è il bene superiore, per qualcun altro è l’autonomia, è la dignità, è il non soffrire, qualunque cosa possiamo immaginare. Quindi la medicina viene intrinsecamente limitata, prima che dai problemi dell’economia sanitaria, dal fatto che si contrappongono due soggetti, e il progetto di vita del paziente è importante quanto quello che la medicina gli può dare. La buona medicina richiede oggi un necessario chiarimento, prima di un trattamento diagnostico o terapeutico, con il paziente: che cosa gli stiamo proponendo, le condizioni, i rischi, i benefici, gli effetti collaterali. Davvero tutti vogliono ciò che la medicina oggi potrebbe dare? Quante volte vedendo certi trattamenti medici di fine vita abbiamo detto: “Io, per me, non vorrei mai che facessero quello che hanno fatto a mio padre, a mio zio?” Quanti operatori sanitari che frequentano abitualmente gli ospedali, medici e infermieri, hanno molto chiaro che vorrebbero mettere dei limiti se fossero essi stessi i pazienti, dal momento che certe condizioni di sopravvivenza non sono disposti ad accettarle?
Mettere dei limiti a quello che la medicina potrebbe fare è un atteggiamento molto diffuso. Non esistono molte ricerche empiriche a sostegno di osservazioni occasionali. Una almeno merita di essere citata. È stata pubblicata nel New England Journal of
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Medicine alcuni anni fa. Oggetto della ricerca sono stati due gruppi di pazienti maschi con un’ipertrofia prostatica benigna. A un gruppo di questi è stato fornito il trattamento abituale in questi casi; all’altro gruppo è stata offerta un’informazione molto più dettagliata sui possibili trattamenti, lasciando poi scegliere ai pazienti il trattamento. Lo studio concludeva osservando che "i livelli correnti di utilizzazione di tecnologie mediche molto sofisticate sono più alti di quelli voluti dai pazienti, perché quando occorre sottoporsi ad un rischio per ridurre i sintomi o per migliorare la qualità della vita i pazienti tendono a essere più riluttanti di quanto non lo siano i medici. Se viene loro offerta una possibilità di scelta i pazienti optano, in genere, per strategie meno invasive di quanto facciano i medici. Se così è, la libera espressione di preferenze del paziente dovrebbe comportare un abbassamento della domanda. Ciò sembrerebbe vero anche nelle cure rivolte a pazienti terminali, in quanto di fronte all’inevitabilità della morte i pazienti, in molte situazioni, preferiscono che si faccia di meno piuttosto che di più. Una migliore informazione sugli esiti clinici, un migliore dialogo tra pazienti e medici sulle opzioni possibili può, dunque, far diminuire la domanda di trattamenti più costosi".
Non lasciamoci condurre su una falsa strada dall'ultima frase: non è che dobbiamo informare di più perché i pazienti informati chiedono prestazioni meno costose, e quindi a fini di risparmio. Essere informati è un diritto. Anche se è vero che gli interventi più invasivi sono anche i più costosi, non è per evitare questo tipo di intervento ― che gravano pesantemente sul budget della sanità ― che bisogna fornire l’informazione. Per attenerci all’esempio dell’ipertrofia prostatica benigna, la decisione del paziente è diversa se viene informato che con la prostatectomia si esclude la probabilità che degeneri in cancro, ma c’è un alto rischio di impotenza e di incontinenza urinaria. Oggi possiamo e dobbiamo essere più consapevoli dei benefìci che la medicina ci offre: tutto l’arsenale chirurgico e terapeutico di cui disponiamo non è un beneficio a prezzo zero. Spesso ha dei prezzi pesantissimi, non in termini economici, ma in termini di qualità di vita. Se siamo informati,
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se siamo messi in grado di scegliere probabilmente sceglieremmo in maniera molto diversa da quello che i professionisti sanitari tendono a scegliere per noi.
In questo scenario di cambiamento aggiungiamo ancora una considerazione su un cambiamento ancora più radicale che la medicina ha davanti. Saremo in grado, sempre di più, di conoscere il nostro futuro, compreso il nostro futuro patologico. Quello che si sta oggi delineando all’orizzonte come il frutto più importante della svolta avvenuta nell’ambito della biologia molecolare e della decodificazione del genoma è correlare la nostra eredità genetica, di ogni individuo particolare, con certe patologie. Sempre di più saremo in grado di conoscere se abbiamo un corredo genetico che ci predispone alla cardiopatia, o al cancro, o all’Alzheimer. Ancor prima di avere i primi sintomi di una malattia, sapremo se abbiamo o non abbiamo la predisposizione genetica a una determinata patologia.
Cominciamo appena a immaginare che cosa sarà la medicina del futuro. In parte almeno, quella medicina è già diventata realtà. Oggi non c’è donna che non si sottoponga, nell’ambito di una gravidanza, a ecografia; frequentemente si ricorre anche all’amniocentesi, per avere informazioni sulla salute e sullo stesso corredo cromosomico del feto. Nell’interpretazione più benevola, la diagnostica prenatale si propone di individuare le patologie e di trattarle il più precocemente possibile. Nella realtà da queste diagnosi ha origine per lo più la decisione di portare avanti o interrompere la gravidanza, quando la vita concepita non corrisponde a un criterio di salute, o ancor più di perfezione auspicata.
Possiamo chiederci, in modo radicale: è un bene conoscere tutto quello che possiamo conoscere? Ovvero, vivremo meglio se sapremo in anticipo quali patologie ci spettano da adulti o da vecchi? Una vicenda letteraria ci può aiutare ad articolare una risposta. Si tratta di un episodio dell'Orlando Furioso. Il cavaliere Rinaldo è ospite di un cavaliere, in un castello. A cena il castellano gli mette davanti un calice informandolo che si tratta di un calice magico: se chi lo porta alla bocca ha una moglie infedele,
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non riesce a bere, perché il vino gli si versa sul petto. Rinaldo prende il calice, sta per bere, poi lo rimette giù ed esclama:
"Lasciam star mia credenza come stasse.
Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova;
che poss’io migliorar per farne prova? "
Credere che mia moglie mi è fedele mi è stato bene; forse migliora la mia vita se so mia moglie fedele o no? Il castellano lo loda:
"Tu tra gli infiniti sol sei stato saggio
che far negasti il periglioso saggio".
Nell’approvazione del castellano possiamo leggere un elogio dell’ascetismo conoscitivo. Ascetismo: una parola quasi scomparsa dal nostro vocabolario. La tradizione religiosa e umanistica affermava invece che l’ascetismo ci migliora la vita; essere ascetici, nel senso di rinunciare a dei piaceri anche leciti, irrobustisce il carattere, ci dà più padronanza. Oggi ci troviamo di fronte a una promessa di conoscenza che non è più soltanto quella relativa alla fedeltà coniugale, se la moglie o il marito ci tradiscono. Ben altre conoscenze ci aspettano. Potremo conoscere di noi e dei nostri figli molte più cose che riguardano la vicenda futura del corpo. Tanto più la medicina prenderà questa via della predittività, tanto più avremo quasi una specie di fotografìa del nostro futuro. Non possiamo sfuggire a questa domanda: vivremo meglio quando berremo questo calice? Oppure vivremo peggio?
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Mi piacerebbe tornare sopra le considerazioni fatte dalla dottoressa Palermo, perché possono essere sviluppate anche in altra direzione.
Vorrei mettere in evidenza che stiamo trattando due dimensioni diverse dell’atto medico, dal punto di vista del rapporto medico-paziente. Quella da cui è partita, in maniera molto eloquente e chiara, la dottoressa Palermo, è il problema della medicina sicura. Ha anche prospettato il pericolo di andare verso una medicina di autodifesa, con i medici posti in posizione di tutela della propria sicurezza. È la situazione che si crea quando il medico si pone come principale domanda: “Cosa devo fare per non incorrere nelle ire del giudice o nella denuncia del famigliare?”. Non voglio assolutamente nascondere che oggi è diventato un grande problema per i medici, e di riflesso per i direttori sanitari, per i direttori delle aziende, per gli assicuratori. Stiamo andando verso una medicina sempre più litigiosa, sempre più rivendicativa. Mentre in passato la professione medica era praticamente impunita e impunibile, anche quando sbagliava, oggi rischia di essere condannata anche quando fa bene. Quello della medicina sicura è diventato un problema di grande rilevanza sociale.
È necessario che i giuristi affrontino di petto le relazioni conflittuali che si creano in medicina, chiarendo quanto c’è ancora di incerto e confuso. Tra i magistrati stessi non vi è consenso. Mi è capitato di sentire un giurista che, parlando a dei medici riguardo al problema dei Testimoni di Geova, riassumeva la sua posizione dicendo: “Ecco, stando alla dottrina giuridica, se il Testimone di
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Geova, adulto, capace di intendere e di volere rifiuta la trasfusione voi non dovete trasfonderlo; ma, cari medici, io vi consiglio di guardarvi intorno e cercare di sapere il magistrato con cui avrete a che fare”. Questioni prudenziali, se vogliamo, perché abbiamo bisogno di chiarire qual è la medicina sicura. Ma la sicurezza non esaurisce il problema. A tutti noi sta a cuore la medicina buona. E medicina sicura e medicina buona sono due cose diverse.
L’etica ha a che fare con la medicina buona. Quanto alle direttive anticipate, sono anch’io d’accordo sul fatto che enfatizzarle oggi in Italia è prematuro e rischioso. Il pericolo è quello di prendere la strada della burocratizzazione. Basta guardare che cos’abbiamo fatto, in Italia, del consenso informato. Abbiamo moltiplicato le cartacce! Non è cambiato per niente l’atteggiamento del medico nei confronti del paziente: oggi nelle nostre istituzioni abbiamo la medicina di sempre, in cui il medico decide lui quello che c’è da fare, più la firma di un paziente sotto un foglio. Quindi se la prospettiva è quella di andare ad aggiungere ancora altre cartacce ai consensi informati, sotto il nome di direttive anticipate, sono anch’io contrario.
Tuttavia dobbiamo subito aggiungere che le direttive anticipate sono una perfetta illustrazione dei limiti come abbiamo cercato di parlarne oggi: il limite che nasce la fatto che sono due le persone che in un rapporto terapeutico si confrontano. Mi è piaciuto moltissimo l’esempio dei due suoceri; avevano due valori diversi, due preferenze diverse. Quindi la volontà dell’altro è un limite o è un’opportunità? È vero che l’altro mi limita. Prendiamo il caso migliore: “Io, medico, voglio fare il tuo bene, penso che il trattamento migliore per te sia questo, e tu mi dici no, o mi dici B mentre io di dico A”. Certo, mi limiti, perché non ho più un potere assoluto, ma un potere che devo condividere con il tuo potere. Il limite della volontà dell’altro, che si annuncia come una realtà negativa, non è forse, di fatto, un’opportunità? Perché, se io prendo in considerazione la tua volontà, ho una medicina migliore. Se io cerco di arrivare a una decisione condivisa con te, che comprenda la mia competenza medica ma anche i tuoi valori e le tue
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preferenze, non abbiamo forse una medicina più rispettosa della persona? Dal punto di vista etico quello che è decisivo è che utilizziamo la volontà dell’altro, i valori dell’altro come un’opportunità per prendere le decisioni insieme. In vista di una medicina migliore.
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Mi è molto difficile affrontare questa provocazione, perché mi costringete a mettere in pubblico un disagio profondo che ho, non soltanto come essere umano, ma anche come studioso dell’etica. Posso sintetizzarla in questi termini: mi sembra che gli sforzi che noi facciamo di essere etici, rispettando l’altro, il soggetto, la vita, la volontà, il consenso informato, equivalga a un tentativo illusorio di essere etici in un luogo non etico! Perché il mondo non è etico. Dal punto di vista della suddivisione dei beni, dal punto di vista della tutela della vita. Il nostro mondo è profondamente, insanabilmente, inguaribilmente immorale. La salute dei poveri e la salute dei ricchi si vanno sempre più divaricando. Non possiamo non essere sconcertati dalla diversità di beni tra la nostra medicina e la medicina dei Paesi dove si muore per dissenteria, per malattie banali che potrebbero essere guarite con investimenti economici minimi, ma che non hanno a disposizione.
Tuttavia vi sono anche tanti altri aspetti di povertà e di differenza, che non riguardano più soltanto la divaricazione fra il mondo dello sviluppo economico e il mondo, crescente, del sottosviluppo, o piuttosto della miseria (perché è una presa in giro parlare di sottosviluppo: è miseria e basta!). Ci sono anche altre articolazioni della medicina dei poveri e della medicina dei ricchi, che ci riguardano anche un po’ più direttamente, in casa nostra. L'ingiustizia non c’è soltanto tra noi e il Burundi, o noi e l’Honduras. L’ingiustizia è diffusa anche a casa nostra. Un esempio concreto: prendete una mappa della distribuzione, in Italia, di Centri della terapia del dolore; guardate dove stanno i Centri di terapia del dolore e dove non esistono. E vedrete che, in Italia, non c’è uniformità sul territorio. C’è una divaricazione tale per cui in alcune regioni i Centri di terapia del dolore, pubblici o privati, sono maggiori della media, in altre nella media e ci sono regioni in cui i Centri di terapia del dolore sono scarsissimi. Almeno quelli
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pubblici; quelli privati, no. Ciò vuol dire, allora, che mentre abbiamo messo nella Costituzione e nei principi costitutivi del Servizio sanitario nazionale che tutti siamo uguali di fronte al diritto alla salute, in pratica non è per niente così. Se possiamo ipotizzare che il cancro sia cieco e colpisca indifferentemente poveri e ricchi, colti e ignoranti, giovani e vecchi, dobbiamo dire che il dolore non è così. Non è così cieco, è molto selettivo: colpisce quelli che stanno al Sud e sono poveri, perché se uno è ricco va nei Centri di terapia del dolore a pagamento.
Ho voluto citare un esempio: ma è soprattutto lo scenario che mi preoccupa. Che cosa succederà quando avremo sganciato le Regioni da uno standard di servizi sanitari uguali per tutti? Saremo ancora uguali come italiani? Non vi nascondo che ho molta paura. Tra le varie forme di povertà che si ripercuotono sulla salute, senza essere povertà economiche, vorrei menzionare almeno la povertà di istruzione. È un fatto consolidato che le persone più istruite hanno più accesso ai servizi, riescono a tutelarsi meglio; un livello basso di istruzione è anche correlato con una maggiore mortalità. E poi c’è la povertà di potere, che alcuni vivono drammaticamente sulla propria pelle sottoforma di mobbing. Le povertà sono tante. E se possiamo dire in maniera grossolana che i poveri muoiono prima, questo vale nel Terzo Mondo e nel Quarto mondo rispetto al nostro, ma vale anche da noi.
I poveri muoiono prima, gli ignoranti muoiono prima, i deboli muoiono prima, le persone senza tutela muoiono prima. Pensate soltanto alla povertà di relazioni. Pensate alle maggiori chances che ha chi può contare su una famiglia allargata rispetto alle persone sole, che non hanno relazioni famigliari. E non sempre questa forma di povertà la si può compensare con i soldi. È importante menzionare a questo punto il ruolo che ha la scoperta di altre forme di relazione, come il volontariato. Nel volontariato siamo in casa, qui, con l’ADVAR. Anche questo è un modo di compensare le povertà e le discriminazioni, non occupiamoci solo dei nostri, ma anche degli altri.