La prevenzione: ruolo dell’individuo e della società

Sandro Spinsanti

LA PREVENZIONE: RUOLO DELL'INDIVIDUO E DELLA SOCIETÀ, CONSIDERAZIONI ETICHE

in Les nouvelles stratégies de prevention en Santé Publique

Atti Europe blanche XIX, Institut des Sciences de la Santé

Roma, 10-11 ottobre 1997

pp. 92-103

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SUNTO  ―  All'etica non possiamo domandare di giustificare la medicina preventiva, o addirittura di sostenere la sua aspirazione a rivendicare un primato rispetto a quella curativa. L'assunto «È meglio prevenire che curare» costituisce, in ultima analisi, una affermazione autoreferenziale («È meglio essere sani che malati o morti. Questo è l'inizio e la fine del solo argomento reale a favore della medicina preventiva. È sufficiente»: Geoffrey Rose).

In questo ambito l'etica rivela la sua utilità se confrontiamo quanto viene intrapreso in nome della prevenzione e promozione della salute con i valori che l'etica propone. Esistono almeno tre modelli di etica riferiti alla medicina, ognuno con un valore dominante:

1. Il modello dell'etica medica, centrato sul principio del «bene del paziente».

In questo contesto la medicina preventiva si propone di assicurare una vita senza malattie e morti precoci e di contribuire, positivamente, a sviluppare la «piena salute».

L'etica ci guida a domandarci se le azioni preventive portano un beneficio e a chi nella società viene riservato il beneficio.

È utile sviluppare un sano sospetto su quanto viene proposto al paziente «per il suo bene». Anche la prevenzione, come la medicina curativa, deve sottoporsi al rigore della «evidence», cioè delle prove di efficacia.

2. Il modello della bioetica, che presuppone l'introduzione in medicina della «rivoluzione liberale», valuta le azioni riferendosi al principio di autonomia.

È buona medicina preventiva quella che propone di dare ai cittadini/consumatori il controllo della propria salute («empowerment»).

Il rispetto dell'autonomia della persona può essere violato in molti modi : da quelli coercitivi (come interventi ispirati all'eugenismo), all'invasione della «privacy», con misure preventive che interferiscono con gli stili di vita, fino ad interventi educativi che usano la manipolazione e la colpevolizzazione («victim blaming»).

Il modello dell'etica sociale si orienta secondo il valore della equità, cercando di rendere effettiva una eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini di fronte al diritto della salute.

Le medicina preventiva consiste nel promuovere una società «salutogenica», contro una società «patogenica».

Anche la medicina preventiva si deve confrontare con il problema dell'uso responsabile delle risorse. Nel nostro tempo anche la sanità deve essere pensata nell’orizzonte del limite. Da ora in poi la qualità etica e quella economico-gestionale negli interventi, sia di cura che di prevenzione, si implicano reciprocamente.

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1. Modelli di etica e prevenzione

Quando nella formulazione del tema accostiamo prevenzione ed etica, non possiamo sottrarci alla questione previa: l'etica ha qualcosa da dire sulla prevenzione che non sia riconducibile a preoccupazioni di efficacia (quali misure preventive ottengono i risultati auspicati e quali no?), di economia (quanto costa fare prevenzione? Valutando i costi e i benefici, da quale parte pende la bilancia?) o di politica sanitaria (che tra i vari sistemi di organizzazione della sanità induce a privilegiare quello che promuove nel migliore dei modi la prevenzione). Quando si fa appello all'etica, si presuppone che, oltre a questi punti di vista, ne esista uno specifico correlato con le questioni che ci poniamo relativamente a ciò che è bene/male, giusto/ingiusto, auspicabile/deplorabile: questo è il metro con cui, in termini molto generici, valutiamo eticamente i comportamenti. Le considerazioni etiche che proporremo su quello che spetta all'individuo e alla società nella prevenzione delle malattie e nella promozione della salute ruotano precisamente intorno ai valori etici che ci permettono di portare un giudizio sulle scelte comportamentali.

Va subito chiarito che all'etica non dobbiamo domandare troppo. In particolare, non possiamo attribuirle il compito di giustificare la medicina preventiva, o addirittura di sostenere la sua aspirazione a rivendicare un primato rispetto a quella curativa. Quando si ripete: «È meglio prevenire che curare», quel «meglio» non fa riferimento a una preferenza personale (molte persone non sono disposte ad adottare stili di vita molto restrittivi, per poter... morire sani! I vantaggi della prevenzione, inoltre, non sono sempre percepibili all'individuo: per salvare una sola vita in un incidente stradale, 400 persone devono allacciare le cinture di sicurezza per tutta la loro esistenza; 399 persone dunque, non otterranno alcun beneficio dal loro comportamento: Vineis, 1997, p. 163), né a un vantaggio economico (l'analisi dei costi della cura e della prevenzione non dimostra la convenienza di quest'ultima in modo inequivocabile), né a una giustificazione clinica (la sempre maggiore capacità diagnostica può rilevare patologie che sarebbero rimaste silenti, e quindi dar luogo a un interventismo che è causa di patologie iatrogeniche), né ― infine — a una chiara indicazione di politica sanitaria (a causa del paradosso inerente alla medicina preventiva: tanto maggiore è l'efficienza di un intervento per la collettività, tanto minore è la rilevanza che esso assume per il singolo: cfr. Tombesi, 1997). Affermare che la prevenzione è un obiettivo privilegiato rispetto alla cura costituisce — in ultima analisi — una affermazione autoreferenziale. Per dirlo con le parole di conclusione a cui giunge Geoffrey Rose dopo l'accurata analisi a cui sottomette quel «meglio» nel volume The strategy of preventive medicine: «È meglio essere sani che malati o morti.

Questo è l'inizio e la fine del solo argomento reale a favore della medicina preventiva. È sufficiente» (Rose, 1992).

Il richiamo all'etica ha dunque una funzione più modesta che fornire un fondamento o una giustificazione razionale per la medicina preventiva. Cerchiamo, più semplicemente, di confrontare quanto viene intrapreso in nome della promozione della salute con i valori che l'etica propone. Medicina ed etica non sono in coppia solo da quando sono esplose le problematiche della bioetica: costituiscono da sempre due poli che si attraggono reciprocamente. Il rapporto tra l'arte terapeutica e i valori che permettono di qualificare l'operato come buono/giusto/auspicabile non è però così univoco come appare a prima vista. Più precisamente, possiamo individuare almeno tre diversi modelli di etica riferita alla medicina, ognuno con un valore dominante. Ognuno dei tre modelli, che si sono strutturati in successione cronologica, richiede ai diversi soggetti — l'operatore sanitario, il paziente, la società nei suoi rappresentanti politici — comportamenti adeguati, che si presentano come una «Gestalt» coerente e omogenea. Schematicamente, possiamo rappresentarci nel modo seguente i modelli di etica in medicina (vedi tabella).

A seconda del modello che consideriamo, cambiano le questioni che poniamo alla pratica della medicina in generale, e alla medicina preventiva in particolare. Analizziamo i tre modelli separatamente.

2. La prevenzione e i suoi benefici

Il principio che regola il modello tradizionale di etica in medicina è essenzialmente riconducibile a una proposizione che si presenta armata della forza dell'evidenza: è bene fare tutto ciò che produce un beneficio al paziente. Trasposto dalla medicina curativa — dove il bene da procurare al paziente equivale alla diagnosi accurata e alla terapia efficace della patologia in atto — alla medicina preventiva, il principio comporta l'attribuzione di un valore positivo a tutte le azioni rivolte ad assicurare una vita senza malattie e a impedire morti precoci. C'è anche chi si spinge a richiedere alla medicina che non miri solo a sconfiggere le malattie e a prevenirle, ma tenda a promuovere la «piena salute», cioè lo sviluppo delle potenzialità umane al loro massimo, avendo come parametri di riferimento non gli scostamenti patologici dalla normalità, ma le realizzazioni umane eccellenti (Lombardi Vallauri, 1989).

L'enfasi posta sui compiti positivi della medicina ― dalla lotta alle malattie alla loro prevenzione, dalla tutela della salute alla promozione della «piena salute» — va probabilmente corretta. È questa una delle conclusioni a cui è giunta l'importante ricerca internazionale sui fini della medicina, promossa recentemente dallo Hastings Center. Ponendosi la questione

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Tabella

Epoca pre-moderna

Etica medica

Epoca pre-moderna

Bioetica

Epoca post-moderna

Etica dell'organizzazione

La buona

medicina

«Quale trattamento porta maggior beneficio

al paziente?»

«Quale trattamento

rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte?»

«Quale trattamento ottimizza l'uso delle risorse e produce un paziente/cliente soddisfatto?»

Il valore

dominante

Principio di beneficità

Principio di autonomia

Principio di giustizia

(uguaglianza sostanziale

di tutti i cittadini di fronte

al diritto alla salute)

Il buon

paziente

Obbediente

(compliance)

Partecipante

(consenso informato)

Cliente giustamente

soddisfatto e consolidato

Il buon

rapporto

Alleanza terapeutica

(il dottore

con il suo paziente)

Partnership

(professionista-utente)

Stewardship

(fornitore di servizi-cliente) Contratto di assistenza:

Azienda/popolazione

La medicina

preventiva

Assicurare una vita

senza malattie e morti precoci. Sviluppare la «piena salute»

Dare

ai cittadini/consumatori

il controllo

della propria salute

(«empowerment»)

Promuovere una società «salutogenica»

(vs «patogenica»)

L'ideale

medico

Paternalismo benevolo (scienza e coscienza)

Autorità democraticamente condivisa

Leadership morale,

scientifica organizzativa

se il compito per eccellenza della medicina non sia quello di potenziare l'autodeterminazione individuale per permettere a ciascuno di vivere pienamente la propria vita, il documento risponde: «Se è vero che la salute accresce la possibile libertà, è tuttavia un errore pensare che tale libertà sia un fine della medicina. La salute è necessaria, ma non è condizione sufficiente per l'autonomia, e la medicina non può fornire ciò che è necessario a tal fine. Siccome molte altre istituzioni, come l'educazione, promuovono quella libertà, la medicina non è l'unica in grado o capace di promuovere il bene dell'autonomia, anche se a volte può dare importanti contributi per accrescerla» (The goals of medicine..., 1996, p. 16).

Per quanto si voglia ridimensionare il compito della medicina di contribuire alla piena realizzazione dell'essere umano, resta tuttavia indiscutibile che, da quando l'epidemiologia e la biostatistica hanno fornito strumenti analitici a favore della salute, individuante i cambiamenti da introdurre nella società e nei comportamenti individuali per impedire lo sviluppo di fenomeni patologici, la medicina ha aggiunto un nuovo compito a quelli tradizionali. I migliori tra i medici si sono sentiti impegnati non solo a curare i pazienti per l'enfisema o il cancro ai polmoni, ma a prevenire le malattie respiratorie lottando per la salubrità dei posti di lavoro ed educando i pazienti ad astenersi dal fumo; non si limitano ad assistere i traumatizzati da incidenti stradali, ma fanno pressione per ottenere maggiore sicurezza nelle auto da parte delle case produttrici e l'imposizione dell'obbligo delle cinture di sicurezza da parte delle autorità civili. Questa è la medicina preventiva cresciuta sul tronco della medicina del passato e ispirata al suo stesso valore fondamentale: fare ciò che è nel migliore interesse dell'individuo e della sua salute.

I bilanci dei risultati ottenuti dall'impegno profuso, come sappiamo, non sono sempre positivi. Da che cosa dipende? Una risposta facile è quella formulata da Harold Fruchtbaum: «È forse inevitabile in una società capitalista che ogni progetto rivolto a proteggere la salute pubblica che minacci un interesse economico trovi opposizione» (Fruchtbaum, 1978, p. 1397). La relativa inefficacia della medicina preventiva nell'impedire i comportamenti nocivi alla salute viene così ricondotta a un conflitto di interessi, nel quale la medicina, animata dalle migliori intenzioni e rivolta verso fini ineccepibili, svolge il ruolo positivo, mentre alla società — capitalista! — spetta la parte del «cattivo».

La citazione è tratta da un articolo della prima edizione della «Encyclopedia of bioethics», curata da Warren Reich, del 1978, dedicato alla «Public health». All'inizio della riflessione bioetica la difficoltà a introdurre i cambiamenti necessari per la promozione della salute viene addebitata esclusivamente all'inerzia o resistenza attiva del corpo sociale. Può essere istruttivo notare che nell'articolo su «Health promotion and health education» della seconda edizione, completamente rifatta, della stessa opera, apparsa nel 1995, l'estensore voce giunga a esprimere dei dubbi sulla qualità etica di molte attività di promozione

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della salute. Esse non sarebbero — in altre parole — così totalmente finalizzate a promuovere il bene della persona cui sono rivolte, così come pretendono e così come appare «prima facie». A un esame spassionato, le motivazioni che guidano le attività di promozione ed educazione alla salute possono apparire meno allineate sul valore del bene del paziente («benevolence»). Tali iniziative, infatti, possono sostituire iniziative pubbliche efficaci rivolte a eliminare rischi per la salute: omettendo di introdurre normative circa la sicurezza di certi prodotti, lo stato si potrebbe limitare ad addestrare i consumatori all'uso oculato di tali prodotti; invece di proibire sostanze tossiche, come il tabacco, le autorità preposte alla tutela della salute pubblica si accontenterebbero semplicemente di ammonire il pubblico a non abusarne... In altre parole: richiamandosi all'educazione sanitaria, le autorità pubbliche avanzerebbero la pretesa di star difendendo la salute, mentre di fatto evitano di intraprendere azioni efficaci che confliggono con gli interessi di coloro che traggono profitti da comportamenti non sani (Wickler, Beauchamp, 1995, p. 1127). L'educazione sanitaria come alibi, dunque: porta un beneficio ai destinatari, ma solo come surrogato del vero beneficio che una politica sanitaria efficace sarebbe in grado di produrre, qualora lo volesse; costituisce un palliativo, non la cura radicale dei mali che minacciano la salute.

Una seconda critica che si può rivolgere alle campagne preventive ed educative è che corrono parallele alle divisioni esistenti di classe e di razza, anzi finiscono per rafforzarle. Ciò significa che gli interventi di educazione hanno portato beneficio soprattutto alle classi medio-alte, che già godono di un migliore stato di salute. In America, i poveri fumano tre volte più dei ricchi, benché negli anni 60 — quando iniziarono sul serio le campagne contro il fumo — la proporzione fosse la stessa. La correzione delle disparità di classe richiederebbe dalle pubbliche autorità di decidere di allocare più denaro per raggiungere i poveri, togliendo fondi dall'educazione delle classi più agiate (Wickler, Beauchamp, ibi). La domanda spregiudicata con cui bisognerebbe confrontare i risultati di interventi di prevenzione indubbiamente benefici è: a chi nella società portano beneficio?

Un altro aspetto dell'etica orientata al «bene del paziente» merita di essere sottolineato: essa è caratterizzata da un tratto marcatamente «paternalistico». Nel modello culturale paternalistico il beneficio che viene al soggetto da un intervento di terapia — in questo caso, di prevenzione — è stabilito da una «auctoritas» scientifica della quale il cittadino non è un interlocutore attivo, ma il presunto beneficiario. Così avviene, ad esempio, negli screening di massa. Quando si decide di intervenire su ciascun individuo di una popolazione definita mediante idonei test clinici, strumentali o di laboratorio, con lo scopo di identificare particolari fattori di rischio o patologie in fase preclinica, la popolazione oggetto dell'intervento (donne in una determinata fascia d'età per la prevenzione di carcinomi dell'utero o della mammella, uomini per il carcinoma della prostata...) viene mobilitata in nome di una autorità scientifica che ha deciso — per il bene delle persone interessate — che cosa deve essere fatto. Nei casi più felici la proposta di screening è corredata di una dimostrazione di efficacia (documentata riduzione di mortalità totale o almeno specifica; assenza di eventi invalidanti) e di appropriatezza (il test di screening deve essere accettabile, non pericoloso, economico e dotato di buona sensibilità). Ma talvolta così non avviene. È il caso, ad esempio, dello screening HCV — per l'epatite C — proposto ai cittadini italiani. La vicenda supera l'aspetto aneddotico per acquistare un significato esemplare di cattivo uso della prevenzione, discutibile non solo dal punto di vista scientifico ma anche etico.

Nel febbraio 1996 televisione e giornali diffondono spot e locandine nei quali si invitano tutti i cittadini a controllare le transaminasi. Non ci si può fidare di sentirsi bene, in quanto — insinua la campagna pubblicitaria — i sintomi dell'epatite C sono subdoli: «aspetto sano, appetito normale, assenza di dolore». L'iniziativa, promossa dalla Lega per la lotta contro le malattie virali, riceve l'appoggio del Ministero della sanità. La stampa per medici e quella rivolta al pubblico riferiscono l'iniziativa con devozione. I dubbi espressi da qualche medico di famiglia vengono trattati in modo sprezzante dall'infettivologo promotore, che definisce «trogloditiche» le valutazioni critiche del progetto. La campagna procede come previsto, con incursioni in nove città italiane di roulotte della Croce rossa per dosare le transaminasi ai passanti fermati per strada. Solo un anno dopo l'avvio della campagna i promotori indicono una «conferenza di consenso» per valutare se sia opportuno condurre uno screening nella popolazione generale. La risposta — a sorpresa — è negativa e la campagna viene revocata (per il resoconto dettagliato della vicenda: Satolli, 1997). Non si tratta solo di uno spiacevole incidente provocato da un eccesso di zelo per il «bene del paziente»: è un episodio emblematico di quanto possa spingersi lontano nell'«espropriazione della salute» (per riprendere l'espressione classica di Ivan Illich in Nemesi medica) una medicina preventiva pensata sul modello paternalista.

Lo slittamento di finalità della medicina è intrinseco al passaggio dalla medicina curativa a quella preventiva. Sullo sfondo ideologico di quest'ultima individuiamo la concezione di salute quale pieno benessere fisico, psichico e sociale, e non solo assenza di malattia, diffusa dall'OMS (nel cui statuto è

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inclusa la dichiarazione che «il godimento della salute al più alto livello è uno dei diritti fondamentali dell'essere umano, senza distinzione di razza, di religione, di ideologia politica, di condizione economica e sociale»). A differenza della malattia, la presenza della salute non è oggettivamente verificabile. O meglio: lo stato di salute o malattia è funzione dell'impegno diagnostico profuso. Se già nel 1923 la commedia di Jules Romains sul dottor Knock poteva mettere in dubbio l'utilità sociale di un «trionfo della medicina» che trasforma i sani in malati — secondo il credo del dottor Knock: «I sani sono dei malati che si ignorano»... —, la situazione si è radicalizzata con l'impegno dei medici a rendere la pratica della medicina economicamente compatibile con i suoi costi. È un fenomeno particolarmente vistoso nei paesi che hanno adottato sistemi di pagamento a tariffa, DRG, managed care o altre modalità che incentivano l'accanimento diagnostico. Secondo una brillante descrizione di ciò che sta avvenendo negli ospedali americani, «un paziente in buona salute è solo uno che non è stato sottoposto ad adeguati accertamenti. Una volta in ospedale, gli accertamenti «confermeranno» problemi multipli di salute e sostanziali opportunità per un DRG creep — cioè l'insidioso scorrimento verso l'alto delle categorie di DRG — per massimizzare le entrate» (Maynard, Bioor, 1995).

Non possiamo impedirci di sviluppare un salutare sospetto sistematico che quanto viene presentato al paziente dalla medicina curativa e da quella preventiva «per il suo bene» sia veramente nel suo migliore interesse. Saranno necessarie volta a volta delle prove di efficacia, tanto per l'una quanto per l'altra medicina: accanto alla «evidence based medicine», dunque, anche una «evidence based prevention».

3. Sotto il segno dell'autonomia

Il secondo modello di etica in medicina al quale ci possiamo riferire per valutare eticamente ciò che viene intrapreso per guarire o prevenire le malattie è quello che ha come principio guida il rispetto dell'autonomia della persona. Secondo questo modello, che caratterizza il passaggio dall'epoca premoderna a quella moderna — e quindi dall'etica medica alla bioetica — non basta fare il bene del paziente, ma bisogna farlo con il suo consenso, in modo da rispettare il diritto a gestire le scelte che riguardano il corpo e la salute. In una parola, la medicina deve rispettare il diritto all'autodeterminazione personale.

Anche la medicina preventiva può infrangere i valori tutelati dall'autonomia della persona. Il ventaglio delle violazioni è molto ampio e differenziato. In ordine di gravità, il primo posto spetta alle misure preventive che ricorrono alla coercizione violenta per impedire il sorgere delle malattie o la trasmissione di caratteri genetici indesiderati. L'eugenismo — soprattutto quello praticato in Germania dal regime totalitario nazista — si è guadagnato la triste fama di aver calpestato i diritti fondamentali della persona in nome della tutela della razza. Ci piacerebbe poter dire almeno che questa modalità di prevenzione sia stato un caso isolato, al quale la coscienza morale dell'occidente ha tolto ogni diritto di cittadinanza. Purtroppo non è così. Sono trapelate di recente informazioni secondo le quali la sterilizzazione forzata è stata praticata per legge nei Paesi scandinavi fino a non molto tempo fa. Le leggi per la sterilizzazione di «tipi razziali inferiori» sono entrate in vigore in Danimarca nel 1929, in Norvegia nel 1934 e in Svezia nel 1935, e hanno continuato a giustificare interventi su soggetti — soprattutto donne con handicap e «indigenti di razza mista» — che ufficialmente risultavano sottoporsi alla sterilizzazione volontariamente. La legge in Svezia è stata abolita in sordina solo nel 1976. A quasi 100.000 donne nei tre Paesi scandinavi sarebbe stato negato, in modo coercitivo, il diritto alla riproduzione, per ridurre la probabilità che tra le generazioni future vi fossero persone non sane, che potessero quindi pesare sulla società. Anche sulla Francia si è estesa l'ombra della violazione sistematica di diritti umani: stando alle denunce della stampa, nel paese si è praticata e si continua a praticare la sterilizzazione forzata di handicappati e minorati mentali, contro la loro volontà o a loro insaputa.

Il problema della tutela dei diritti, abbinato al rispetto della privacy, è emerso a proposito dello screening per l'HIV, da praticare obbligatoriamente su quanti vengono a contatto con operatori sanitari, per proteggere questi ultimi dai rischi di infezione. Sono state proposte anche indagini obbligatorie sui sanitari, per tutelare i pazienti dalla trasmissione del virus da parte di operatori infetti. La tendenza prevalente è stata quella di non far ricorso a misure coercitive. Per i sanitari è sembrata meno dirompente nei confronti del rapporto fiduciario con i pazienti l'indicazione di prendere in ogni caso le precauzioni prescritte quando nella pratica medica o di nursing vengono a contatto con i liquidi organici dei pazienti che possono trasmettere l'infezione. Per quanto riguarda i pazienti, dal momento che il rischio è estremamente ridotto, il bene pubblico può richiedere loro di non esercitare il diritto di sapere se il medico che li cura è sieropositivo, se questo intervento nella privacy dovesse peggiorare la situazione di tutti, compromettendo la qualità dei rapporti (Daniels, 1992).

La casistica delle situazioni in cui, in nome della salute e della sicurezza, vengono richiesti dei test relativi alla salute del personale nell'ambito del lavoro, è molto ampia (Murray, 1995). Si possono ricercare informazioni sullo stato di salute attuale o

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futuro (individuando la predisposizione genetica a determinate malattie); test appropriati possono rilevare se la persona nella sua vita privata fuma, beve alcolici o fa uso di droghe; in alcuni posti di lavoro si va a ricercare — sotto l'etichetta di «rischi riproduttivi» — se le donne sono incinte o, più generalmente, fertili. La giustificazione di intrusioni così pesanti nella vita delle persone può assumere una triplice forma: il test può essere motivato o come protezione offerta al lavoratore, per il suo stesso bene (una motivazione tipicamente paternalistica); o per proteggere terze parti (questa ragione ha più potere persuasivo, anche se in pratica è rilevante sono in pochi casi eccezionali negli ambienti di lavoro); oppure per tutelare il datore di lavoro da eventuali costi per spese sanitarie.

La tentazione di ricorrere — in chiave preventiva — a sistematiche misure di indagine sul personale dipendente o su quello da assumere andrà sicuramente crescendo. Per questo è necessario che, in nome del principio etico dall'autodeterminazione, si vigili per assicurare a tutti uguale trattamento e uguali opportunità. In particolare quando le misure preventive interferiscono con gli «stili di vita». Con questa espressione spesso si considerano insieme comportamenti relativi al fumo e al consumo di alcol e droghe, nonché pratiche sessuali associate al rischio di HIV. Dal momento che questi comportamenti, a differenza del patrimonio genetico, sono considerati dipendenti dalla volontà, i test relativi non sono disapprovati dall'opinione pubblica tanto fortemente quanto le indagini genetiche. È un motivo per proteggere con più attenzione l'ambito della vita privata da controlli etichettati come medicina preventiva, che da intrusività molesta potrebbero degenerare in totalitarismo soft da «Grande Fratello» orwelliano. In nome della salute, del benessere sociale o del controllo dei costi si rischia di esercitare una pressione, inconciliabile con i valori democratici della libertà e della dignità, su intere classi di persone.

Con il principio dell'autodeterminazione — infine — dobbiamo confrontare una serie di interventi di prevenzione ed educazione sanitaria che, senza essere né coercitivi, né intrusivi — come gli esempi che abbiamo preso in considerazione — possono tuttavia compromettere la libertà personale. «Nella misura in cui la promozione della salute e l'educazione sanitaria sono intese come alternative alla regolazione coercitiva dei comportamenti, esse non minacciano l'autodeterminazione degli individui, bensì la potenziano. Di fatto l'educazione aumenta l'autonomia, in quanto fa emergere le conseguenze del proprio comportamento e le possibili alternative. Tuttavia c'è una zona grigia tra l'innocua offerta di informazioni e la coercizione sfacciata, e in questa categoria vanno inclusi alcuni degli strumenti utilizzati dagli educatori della salute» (Wickler, Beauchamp, 1995, p. 1127). Non è necessario giungere a forme di coercizione non democratica perché si ravvisi un uso inaccettabile delle conoscenze mediche per far pressione su larghi gruppi di popolazione, affinché cambino i loro comportamenti «non sani».

Le campagne di educazione sanitaria non sono una neutra esposizione di fatti; esse cercano di convincere a modificare comportamenti e abitudini, e perciò frequentemente si servono della manipolazione. I più efficaci programmi «educativi» riescono a far sentire in colpa o a disagio il soggetto quando assume comportamenti giudicati non sani (l'utopia di un mondo capovolto immaginata da Samuel Butler nel celebre Erewhon si muoveva nella stessa direzione: il malato era indotto a sentirsi colpevole per la sua malattia; compreso il malato di cui nel cap. XI viene raccontato il processo, che si conclude con la severa condanna per il «grave delitto di tubercolosi polmonare». Anche questo nella logica della prevenzione: «Il giudice era fermamente convinto che la punizione inflitta al debole e all'ammalato fosse il solo modo di prevenire il diffondersi del decadimento fisico e delle malattie e che, alla resa dei conti, l'apparente severità della sentenza avrebbe risparmiato alla società una sofferenza dieci volte maggiore di quella subita dall'accusato: Butler, p. 89). Il paradosso del malato colpevolizzato è stato realizzato nella nostra società dal diffondersi dell'atteggiamento etichettato come «victim blaming».

Altre strategie manipolative sono quelle di sovrastimare il rischio (per esempio, per indurre le persone a vaccinarsi volontariamente, mentre i non vaccinati sono in genere protetti dalla vasta maggioranza di quelli che lo sono) e di nascondere il grado di cambiamenti necessari per promuovere la salute, se questa informazione rischia di tradursi in non «compliance». Senza voler sostenere che qualsiasi manipolazione «educativa» sia incompatibile con il principio etico del rispetto dell'autonomia personale, bisogna tuttavia riconoscere che non è questo l'ideale verso il quale si muove quella promozione della salute che vede il suo obiettivo nell'«empowerment» dei consumatori. Secondo Domenighetti, il necessario contrappunto e antidoto all'insufficienza delle conoscenze mediche e alle incertezze che dominano la pratica professionale è la responsabilizzazione dei consumatori (Domenighetti, 1996). Questa comporta sia una auto-gestione della salute (quanto meno nella forma dell'automedicazione semplice), sia un accesso più consapevole alle prestazioni, sia un atteggiamento adulto verso i professionisti della salute (Fig. 1).

In senso positivo il principio dell'autodeterminazione diventa rilevante nella medicina preventiva in rapporto alla situazione che si crea quando si dispone di informazioni di natura probabilistica e si è costretti a prendere delle decisioni in condizioni di incertezza.

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Autogestione

della salute

Promozione della salute

(fattori di rischio, di protezione ecc.)

Prevenzione

Automedicazione semplice

Accesso più consapevole alle prestazioni

Informazione su:

«meccanismi» e conflitti d'interesse, efficacia e incertezza

della medicina pratica medica

Promozione del «secondo parere» medico

Diffusione pubblica

dei risultati di studi

sulla qualità e l'adeguatezza

delle prestazioni e dei servizi

Creazione di centri informatori

Atteggiamento adulto

verso i professionisti della salute

Diritti dei pazienti

Promozione della consapevolezza

che la totalità della «fattura» sanitaria

è pagata direttamente e/o indirettamente

dai consumatori

Figura 1. - Empowerment dei consumatori» (da Domenighetti, 1996)

         Lo storico della medicina Diego Gracia ha osservato che il passaggio dall'etica medica alla bioetica è accompagnato da una profonda trasformazione che riguarda il sapere medico, nella sua dimensione scientifica e logica: «A una logica deterministica e casualistica sta subentrandone un'altra, statistica e probabilistica (...). La medicina deve prendere continuamente delle decisioni in conformità con quella che viene definita «teoria della decisione razionale», che ci insegna a decidere in situazioni di «incertezza», senza poter arrivare alla certezza. Queste decisioni si basano sempre sul calcolo delle probabilità. La decisione razionale è ovviamente la più probabile. Ma non si può esigere niente di più da nessuno» (Gracia, p. 210).

Ciò vuol dire che al posto della prognosi sicura («dire la verità») e al posto della diagnosi certa subentra un ventaglio di probabilità diagnostiche, di prognosi e di terapie riferite al singolo caso. Questo è l'orizzonte in cui sì muove, in particolare, la «medicina predittiva». È fuorviarne immaginare che la «predittività»vada intesa come previsione di un evento clinico certo: ci muoviamo sempre nell'ambito delle probabilità. L'incertezza rimane l'orizzonte connaturale alla decisione clinica, anche quando vi introduciamo le conoscenze rese disponibili dalla genetica medica e dal counseling genetico. La dimensione etica che la caratterizza è sostanzialmente riconducibile all'ippocratico «giudizio difficile» (secondo il primo e più celebre degli Aforismi attribuiti a Ippocrate, cinque sono i tratti che caratterizzano la pratica della medicina: «La vita è breve, l'arte lunga, l'occasione fuggevole, l'esperienza fallace, il giudizio difficile»). La difficoltà del giudizio deriva dalla incertezza del sapere su cui le decisioni devono essere prese.

La medicina predittiva ci costringe a confrontarci con questioni etiche che erano implicite anche nella decisione clinica del passato, ma che ora non possono più essere disattese. Il processo di decision making acquista una maggiore complessità e risulta «difficile» in una misura impensabile in una prospettiva

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ippocratica tradizionale. Non si tratta solo di prendere delle decisioni in quella particolare forma di sapere che è la probabilità statistica (quale guida all'azione si ricava dal fatto di conoscere che il feto ha il 50 o il 75 per cento di probabilità di contrarre la malformazione indesiderata? La mente umana, a differenza dei computer e dei «sistemi esperti», è molto povera quando si tratta di lavorare con una serie di probabilità); la medicina predittiva apre la porta a una quantità di fattori umani che intervengono nella decisione, rendendo l'esito imprevedibile. La decisione non deriva, per un processo lineare, dalla diagnosi o dalla prognosi, ma si modella sulle convinzioni sociali e morali dei protagonisti. Non è un'entità astratta e neutra — «la medicina» — che determina le decisioni, ma sono piuttosto le convinzioni sull'uomo, sulla vita, sul mondo, sulla felicità e sulla «buona vita», sul futuro. Sono decisive le scelte filosofiche incarnate nei nostri credi personali e nelle nostre ideologie collettive. Proprio la medicina predittiva ci costringe a renderci conto di quanta normatività implicita sia presente nelle cosiddette «indicazioni mediche», che pretendono di rivestire con l'autorità della medicina decisioni che non dipendono dalla sola medicina.

Questa prospettiva ha costretto la clinica tradizionale ad ampliare l'orizzonte di riferimento entro cui si era soliti prendere le decisioni. L'ampliamento è consistito nell'introdurre la considerazione della «qualità della vita» come criterio per le decisioni cliniche. Nella bioetica contemporanea questa prospettiva si è imposta con forza nelle decisioni che riguardano i trattamenti che prolungano la vita. Un gruppo di lavoro dell'autorevole Hastings Center ha elaborato, già alcuni anni fa, delle linee guida per scelte cliniche centrate sulla valorizzazione del criterio della qualità della vita. Il documento prodotto afferma, tra l'altro: «La qualità della vita è un concetto etico essenziale, che prende in considerazione il bene dell'individuo, il genere di vita possibile, considerate le condizioni della persona, e se tale condizione permette all'individuo di avere la vita che egli considera degna di essere vissuta (...). Permettendo al paziente e a chi lo rappresenta di fare scelte che considerano la «qualità della vita», diminuiamo il rischio di imporre vite di dolore, indegnità o pesi insostenibili a coloro che sono incapaci di difendersi» (Guidelines..., 1987).

Il dibattito sulla «qualità della vita» evoca uno scenario che ribalta il significato che siamo soliti attribuire all'azione medica, facendo apparire una medicina che si presenta come costrizione violenta, invece che come beneficio; un apparato ostile e insensibile al vissuto soggettivo, invece che simpatetico aiuto nelle situazioni più drammatiche; una struttura autoritaria con cui si deve lottare per avere il diritto di uscirne, piuttosto che rivendicare il privilegio di entrarvi. Anche se il criterio della «qualità della vita» è stato inizialmente utilizzato con riferimento alle scelte che si pongono sul versante del prolungamento («artificiale») della vita, la sua applicazione si è generalizzata a contesti sempre più ampi e a momenti sempre più precoci dell'esistenza. Anche nell'ambito della medicina predittiva la considerazione della «qualità della vita» è il perno attorno a cui ruotano le decisioni, di natura clinica e inscindibilmente anche etica.

Il riferimento «alla qualità della vita» obbliga a riconsiderare in profondità concezioni tradizionalmente acquisite, ma non più appropriate alla situazione attuale, circa gli scopi stessi della medicina. La lotta contro la malattia e la morte deve integrare anche il controllo del dolore e mirare a prevenire le indegnità della condizione patologica; il prolungamento della medicina deve far posto alla capacità di adattarla alle esigenze soggettive di fruibilità. La preoccupazione tradizionale a far coincidere il fine della medicina con la volontà di procurare al paziente il bene della salute — identificato in ciò che la scienza, di cui il sanitario è portatore, sa e può fornire — deve commisurarsi con il diritto del paziente stesso a determinare (o per lo meno a co-determinare, all'interno dell'alleanza terapeutica che struttura il rapporto fondamentale) il proprio bene. Ritroviamo così ancora una volta il «principio di autonomia», che completa e controbilancia il tradizionale «principio di beneficità». Più che contrapposti, i due principi vanno integrati. Senza il correttivo che l'uno apporta all'altro, ambedue possono guidare l'azione verso scelte estreme, alle quali la maggior parte delle persone ragionevoli negherebbe il proprio consenso morale.

4. Per una società «salutogenica»

Il terzo modello di etica riferito alla medicina è quello che dà maggior risalto, quale valore-guida, alla giusta distribuzione delle risorse in modo da promuovere la salute come bene di tutta la società. In questa prospettiva il rapporto considerato non è quello che lega il paziente singolo al suo medico di riferimento, bensì l'intreccio di fattori sociali che sono all'origine delle malattie e che determinano la loro trasmissione, oppure — se si interviene su di essi — possono produrre un miglioramento della salute nell'insieme della popolazione o in sue parti rilevanti.

La percezione della dimensione sociale della salute non è nuova. Per mantenerci nell'epoca a noi più prossima, possiamo risalire almeno alla metà del secolo scorso e all'opera pionieristica nella medicina pubblica svolta da Rudolf Virchow (l'assunto fondamentale del quale era di considerare la medicina come una «scienza sociale e la politica nient'altro

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che medicina su vasta scala»). Nel nostro secolo gli impulsi decisivi alla medicina nel suo compito di promuovere la salute pubblica sono venuti dalle grandi istituzioni internazionali, soprattutto dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

L'impegno — questa volta non a dimensione nazionale, ma planetaria — a incrementare la salute ha trovato espressione in due celebri programmi, rivolti a definire la medicina di base in termini di «Primary health care»: la Dichiarazione di Alma Ata: «Salute per tutti per l'anno 2000», del 1978, e il suo rilancio a 20 anni dallo storico documento: «Salute per tutti verso il XXI secolo», pubblicato recentemente, il 28 aprile 1997. Nella formulazione del nuovo programma viene superata l'euforia fastidiosa che induceva a porre una data come termine entro il quale assicurare una «salute per tutti». Invece di una scadenza temporanea si prospetta una linea di valori per il secolo che sta per sorgere. Viene con più vigore correlata la salute con lo sviluppo, affermando che non può esserci sviluppo senza salute, né salute senza sviluppo; per raggiungere l'uno e l'altro occorre sconfiggere la povertà.

Le indicazioni ricalcano sostanzialmente quanto già era emerso dal documento della Banca mondiale: Investing in health, del 1993, nel quale salute viene detta componente intrinseca dello sviluppo e si addita come responsabilità dei governi tutelarla. Questi sono tenuti ad assicurare a tutti i cittadini alcuni servizi essenziali: un pacchetto di servizi di sanità pubblica che include le vaccinazioni, i trattamenti di massa per infezioni parassitane, sussidi e integrazioni alimentari, pianificazione familiare, igiene ambientale, prevenzione dell'Aids e delle malattie sessualmente trasmesse; un pacchetto di servizi clinici essenziali da erogare a livello distrettuale (dispensari, centri di salute, ospedali distrettuali); assistenza prenatale e del parto, trattamento dei bambini malati, della tubercolosi, delle malattie sessualmente trasmesse, delle infezioni minori e dei traumi, la gestione di alcune emergenze, come le fratture e l'appendicectomia.

La Banca mondiale arriva a specificare quanto i governi devono investire per garantire l'offerta gratuita di tali servizi: 12 dollari pro capite (4 per i servizi di sanità pubblica e 8 dollari per i sevizi clinici essenziali) (The World Bank, 1993, p. 66). La cifra indicata per alcuni paesi poveri rappresenta il triplo di quanto viene attualmente speso per l'intero sistema sanitario (Maciocco, 1994). Le prescrizioni della Banca mondiale (i governi «sono tenuti», «devono»...) indicano con tutta chiarezza la dimensione etica delle politiche di sanità pubblica. Nel profilo etico del medico — come di qualsiasi altro professionista sanitario — agli obblighi che ha nei confronti del paziente che a lui fa ricorso (nella prospettiva dell'etica medica tradizionale) si aggiunge una responsabilità verso la società nel suo insieme, e in particolare verso le persone la cui salute è minacciata.

La medicina sociale confronta il medico con la responsabilità etica di modificare le situazioni patogeniche. La professione medica rivela a questo punto dei confini molto esili rispetto all'impegno politico. Quando, ad esempio, si dimostri la funesta influenza di una industria sulla salute non solo di coloro che vi lavorano ma della stessa comunità in cui è localizzata ― si pensi alla crescente consapevolezza dell'origine ambientale del cancro — l'azione educativa può non essere più sufficiente; è richiesto un intervento personale del sanitario in quanto cittadino, con un passaggio dal piano educativo a quello della politica. Ibsen nel dramma Un nemico del popolo, scritto nel 1882, ha creato una situazione paradigmatica: il dottor Stockmann, medico di uno stabilimento di bagni termali, ha acquistato la certezza, dopo lunghe analisi tenute segrete, che le acque dello stabilimento sono inquinate e costituiscono un perenne veicolo di malattie infettive. Quando propone la chiusura temporanea dello stabilimento, con il rischio della rovina economica della città, si guadagna l'ostilità generale e diventa, appunto, «un nemico del popolo».

I conflitti etici dei nostri giorni sono meno spettacolari, ma non meno reali di quelli letterari. «I medici e le comunità — sostiene l'articolo dedicato alla «medicina sociale» della Encyclopedia of bioethics — devono cominciare a confrontarsi con un nuovo conflitto etico: in che modo modificare il paradosso del capitalismo democratico, che ha bisogno di porre un freno alla motivazione del profitto per proteggere la comunità da uno sfruttamento distruttivo» (Silver, Sidel, 1995, p. 2402). Questa dimensione rende più acuto il problema etico tradizionale della medicina sociale, cioè il possibile contrasto tra le esigenze del bene comune e la libertà degli individui in una società democratica, quando le rivoluzioni necessarie nella salute pubblica devono essere fatte al prezzo di intrusioni nelle libertà individuali.

Ai nostri giorni gli aspetti etici dominanti di una medicina sensibile alla interfaccia con la società viene dal problema dei limiti. Anzitutto quelli economici, per l’incapacità, diventata sempre più manifesta, di qualsiasi sistema sanitario di sostenere il peso di un'assistenza sanitaria in espansione e dai costi crescenti. Non si tratta solo di un razionamento occulto o esplicito delle risorse, mettendo in atto meccanismi di contenimento della spesa e sottoponendo a un controllo pubblico le misure di allocazione di risorse scarse. I limiti — suggerisce Daniel Callahan, al quale si deve la prima esplicita formulazione del problema del «setting limits» come priorità della medicina contemporanea: Callahan, 1987 — vanno riportati sul modello stesso di vita umana proposto dalla nostra cultura e sul ruolo che attribuiamo alla

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scienza per realizzare tale modello. L'argomentazione antropologica di Callahan sfuma in una perorazione per il recupero di un atteggiamento rispetto alla vita ispirato alla saggezza: «La medicina moderna è stata la beneficiaria della fede nel progresso e della volontà di perdonare i fallimenti della tecnologia — e questo è abbastanza insolito — forse perché abbiamo lasciato che la nostra fede e la nostra speranza si allontanassero dal senso comune. È ancora tempo di fermarsi e di capire che siamo ancora creature finite e limitate» (Callahan, 1994, p. 85).

L'era dei limiti si può aprire su un duplice scenario: su un razionamento, che fa sentire il suo peso soprattutto sui soggetti più deboli della società, oppure su quella che Arnold Relman ha chiamato «la terza rivoluzione» in sanità (Relman, 1988), vale a dire l’«epoca della valutazione e della responsabilità» (assessment and accountability). Dopo l'era dell'espansione, iniziata con al fine degli anni'40, e l'era del contenimento dei costi (che per la società americana si è tradotta nell'introduzione di sistemi di remunerazione delle prestazioni sanitarie a tipo prospettico ― Drg, Health maintenance organizations, managed care... — fin dall'inizio degli anni '70), la rivoluzione della valutazione ci domanda di sapere di più sulla sicurezza, l'appropriatezza e l'efficacia dei farmaci, delle procedure diagnostiche e terapeutiche, sui successi e fallimenti delle prestazioni, a seconda dei diversi sistemi organizzativi. Non si possono più ignorare le valutazioni di efficacia (management degli «outcome»). Qualunque prestazione deve essere considerata inefficace, finché non si è dimostrato il contrario. Questa esigenza non si pone solo per la medicina curativa, ma anche per quella preventiva. Mediante la dimostrazione di efficacia, deve «meritare» le risorse che vi vengono investite.

La trasformazione globale che la medicina deve affrontare quando entra nel modello post-moderno comprende anche i valori etici di riferimento assunti come criteri di valutazione. Il principio di giustizia ― che implica un'uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini di fronte al diritto alla salute — acquista la centralità che nel modello premoderno aveva l'orientamento al bene del paziente e in quello moderno il rispetto della sua autonomia.

La tradizionale estraneità del medico e considerazioni che non fossero riferite al miglior interesse del paziente che aveva in trattamento (ideale sintetizzato dalla frase attribuita al medico del cancelliere. Bismarck: «Quando io curo un malato, siamo io e lui soli su un'isola deserta») è stata ulteriormente aggravata dalla socializzazione delle cure sanitarie nei vari programmi di welfare state. La presenza di un terzo pagante — la mutua, il Servizio sanitario nazionale — ha dispensato sempre di più il medico dal gestire le risorse secondo criteri di economicità e di giustizia. Quella stagione della medicina deve essere considerata come tramontata. È stata avviata obbligatoriamente la terza rivoluzione in sanità, che comporta l'obbligo morale di valutare se i nostri interventi sanitari vanno in direzione di una società «salutogenica». Da ora in poi la qualità etica e quella economica-gestionale negli interventi sanitari, di cura e di prevenzione, si implicano reciprocamente.

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RÉSUMÉ  ―  On ne peut demander à l'éthique de justifier la médecine préventive, ni même de soutenir la prédominance que celle-ci peut prétendre détenir sur la médecine curative. Le dicton «Mieux vaut prévenir que guérir» constitue en dernière analyse, une affirmation purement personnelle («Il vaut mieux être en bonne santé que malade ou mort. C'est le début et la fin du seul argument réel en faveur de la médecine préventive. Et c'est suffisant.» Geoffrey Rose).

Dans ce domaine, l'éthique s'avère utile, si l'on compare ce qui est réalisé au nom de la prévention et de la promotion de la santé, aux valeurs qu'elle propose. Il existe au moins trois modèles d'éthique se rapportant à la médecine, chacun caractérisé par une valeur dominante.

1. Le modèle de l'éthique médicale, fondé sur le principe «du bien du patient».

Dans ce contexte, la médecine préventive se propose d'assurer une vie sans maladies et mort précoce et de contribuer positivement à une «pleine santé».

L'éthique nous pousse à nous demander si les actions préventives entrainent un avantage et à qui est-il réservé au sein de la société.

Il convient de rester méfiant à l'égard de ce que l'on propose au patient «pour son bien». La prévention, à l'instar de la médecine curative, doit se soumettre à la rigueur de l'évidence et apporter la preuve de son efficacité.

2. Le modèle de la bioéthique, qui présuppose que la médecine accomplisse une «revolution libérale» évalue les actions en se référant au principe de l'autonomie.

Une bonne médecine préventive est celle qui se propose de donner aux citoyens/consommateurs le contrôle de leur propre santé («empowerment»).

Le respect de l'autonomie de la personne peut être violé de plusieurs manières: de la coercition (comme les interventions inspirées par l'eugénisme), à l'intrusion dans la vie privée, par des mesures préventives interdisant certains styles de vie, en passant par des interventions pédagogiques qui utilisent la manipulation et la culpabilisation («victim blaming»).

3. Le modèle de l’éthique sociale qui repose sur l'équité, en cherchant à rendre effective une égalité de tous les citoyens face au droit à la santé.

La médecine préventive consiste à promouvoir une société «productrice de santé» plutôt qu’une société «productrice de malades».

La médecine préventive, elle aussi, doit se confronter au problème de l'exploitation responsable des ressources. A notre époque, la santé doit respecter certaines limites. Dorénavant les qualités éthiques et la logique de l'économie et de la gestion des soins et de la prévention sont engagées réciproquement.

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SUMMARY  ―  One cannot ask ethics to justify preventive medicine, nor even to support the pre-eminence it aspires to have over curative medicine. The saying «Prevention is better than cure» is ultimately a purely self-referential concept (to paraphrase Geoffrey Rose, it is better to be healthy than ill or dead. That is the beginning and end of the only real argument in favour of preventive medicine. And that is enough).

In this connection, ethics proves to be useful when one compares the values it upholds with what is done in the name of health prevention and promotion. In the medical field, at least three models of ethics coexist, each characterized by a dominant value.

1. The medical ethics model, based on the principle of the «good of the patient».

Here, preventive medicine proposes to provide a life free of illnesses and early deaths and to contribute positively to developing «full health».

Ethics leads us to question whether preventive actions produce a benefit and who, within society, is to enjoy that benefit.

But one must entertain a healthy suspicion about what is proposed to the patient «for his own good». Prevention, just as much as curative medicine, must be evidence-based; in other words, it must prove its effectiveness.

2. The bioethics model, which presupposes a «liberal revolution» in the medical profession, assesses actions by referring to the principle of independance.

Good preventive medicine is that which aims to give citizens/consumers control over their own health, socalled «empowerment».

A person's independence can be violated in several ways: by coercion (e.g. through interventions redolent of eugenics), invasion of privacy through preventive measures that interfere with certain lifestyles, down to educational initiatives that centre on manipulation and victim blaming.

3. The social ethics model is guided by the value of equity and aims to introduce a fundamental equal right to health for all citizens.

Preventive medicine consists in promoting a «healthy» rather than «pathogenic» society.

Even preventive medicine must face the problem of sustainable resource utilization. In this day and age, health management must also operate within given limits. From now on, the ethical, economic and managerial quality of curative and preventive actions must be guaranteed simultaneously.