Umanizzazione delle cure e responsabilità organizzativa

Sandro Spinsanti

UMANIZZAZIONE DELLE CURE E RESPONSABILITÀ ORGANIZZATIVA

in Sanità oggi per il domani: diritto alla salute e innovazioni organiz-zative e nell'assistenza infermieristica

Atti dell'8° Congresso Nazionale del Coordinamento Nazionale dei Caposala

Bologna, 20-21-22 ottobre 2004

pp. 9-17

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Il ricorso alla categoria di “umanizzazione”, come correttivo proposto per riportare la pratica medica alla sua ispirazione originaria, si rivela una scelta infelice. Chi la usa ha per lo più intenzioni lodevoli: vuol conferire alla medicina una carica ideale. Ma l’esito tradisce le intenzioni. Quando i sanitari si sentono oggetto di campagne di “umanizzazione” o “riumanizzazione” della medicina (o espressioni equivalenti, come l’auspicio di avere “ospedali più umani”...), non possono che sentir aleggiare l’accusa implicita di disumanità. La risposta, psicologicamente comprensibile, non può essere altro che di ostilità e chiusura a simili progetti. Il termine “umanizzazione” fa inevitabilmente aleggiare sui professionisti sanitari un alone moralistico.

L’esortazione a “umanizzare” le cure rivolte ai malati viene intesa per lo più come un invito ai sanitari a considerare i malati nella loro condizione di fragilità. Il movimento di “umanizzazione” della medicina si è fatto portavoce in Italia soprattutto di iniziative provenienti dall’ambito religioso. Ordini ospedalieri ― come i Fatebenefratelli, i Camilliani ― hanno assunto un ruolo da protagonisti nel denunciare una perdita di anima da parte dei professionisti nella pratica quotidiana della medicina 1. L’analisi dei mali della medicina, vista dalla realtà europea, è sovrapponibile a quella che aveva indotto negli anni ’60 il gruppo di ecclesiastici e cappellani universitari americani a fondare la “Society for Health and Human Values”, che ha svolto un ruolo così importante per la diffusione delle medical humanities in America. Ma la terapia proposta dal movimento italiano per l’umanizzazione della medicina ha preso la china della “predicazione” piuttosto che quella della cultura, traducendosi in un invito rivolto ai sanitari a riscoprire motivazioni e orientamenti interiori di natura oblativa e filantropica.

Il fascino che esercita il richiamo all’umanizzazione della medicina travalica gli ambienti religiosi. È recente la costituzione di un’associazione culturale, che fa centro presso la Facoltà di medicina dell’Università di Bologna, che ha promosso la nascita di un “Movimento per l’Umanizzazione della Medicina”. Leggiamo dal suo manifesto di fondazione, che si propone la creazione di “Comitati apolitici e non violenti per l’Umanizzazione della Medicina” 2:

L’offesa e l’umiliazione del malato che l’incerto potere medico non riesce a combattere efficacemente, perché quasi mai guarisce

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definitivamente, si possono contrastare solo se anche la Medicina (come alcune Religioni e alcune Filosofie) darà alla persona offesa e all’umanità umiliata del malato un valore superiore sia alla persona e all’umanità del sano che alla medicina stessa [...].

Per cambiare questa tragica situazione non resta che promuovere la nascita di un Movimento per l’Umanizzazione della Medicina (M.U.M.) con tre semplici scopi generali:

I. Far sì che la superiorità morale del malato venga riconosciuta anche dal malato stesso, ponendo al centro dell’aiuto medico il ripristino della dignità della persona malata e dell’uomo malato, anche quando (e soprattutto quando) non sia possibile conseguire questo obiettivo attraverso la guarigione;

II. Far sì che la formazione del medico non sia più prevalentemente ed esclusivamente tecnica e che il medico non venga più ricattato economicamente, ma venga finalmente educato a diventare ciò che è sempre stato e ha voluto essere nella sua vocazione più autentica e più nobile, il tutore della vita e della dignità della persona malata e dell’uomo malato, a dispetto di ogni compatibilità economica e contro ogni potere;

III. Far sì che coloro che momentaneamente sono sani acquisiscano la consapevolezza che all’offesa e all’umiliazione della malattia che prima o dopo tutti incontreranno si possono opporre difese più efficaci delle tecnologie mediche: la condivisione collettiva del principio morale che chi soffre “vale moralmente di più” di chi non soffre e la responsabilità di un medico capace di un atto tecnico non autosufficiente ma sempre al servizio della persona e dell’umanità del malato.

L’appello alla “umanizzazione” della pratica medica, tanto che provenga da ambienti religiosi, tanto sostenuto da motivazioni secolari, ha un valore riconducibile alla moral suasion. Si rivolge al cuore degli operatori sanitari, vuol modificare i comportamenti con la forza dell’empatia. Più che un’affinità con l’etica, vi ravvisiamo una somiglianza

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con la “parenetica”, che per gli stoici costituiva la parte della filosofia morale rivolta a fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze.

Questa concettualizzazione non ha valore svalutativo: di calde esortazioni abbiamo e avremo sempre tutti bisogno! Ma la prevedibile reazione negativa dei professionisti che si sentono invitati a “umanizzarsi” ci induce a evitare questa terminologia. Un percorso molto più proficuo è quello che, invece di accentuare la condizione di fragilità del malato, ne mette in evidenza i diritti che derivano dall’essere cittadino. Questo approccio non è improvvisato: in Italia ha già una trentina d’anni. Nel periodo in cui in Italia l’organizzazione sanitaria stava facendo quel passo decisivo che avrebbe portato alla creazione del Servizio Sanitario Nazionale (23 dicembre 1978), un progressivo degrado dei rapporti tra operatori sanitari e malati affliggeva la pratica quotidiana della medicina. Si tratta di problemi che non emergono finché non si descrive il vissuto della malattia dal punto di vista del malato stesso. Un brillante giornalista, Vittorio Gorresio, annunciava pubblicamente nella rubrica che teneva sul giornale La Stampa che stava per affrontare a Zurigo un intervento operatorio per un carcinoma alla mascella. Pochi mesi dopo rendeva un dettagliato resoconto della sua vicenda nel libro Costellazione cancro (1975). Stabiliva impietosi confronti tra la situazione della sanità italiana e quella svizzera e segnalava i frequenti viaggi della speranza che portavano gli italiani a cercare all’estero quello che non trovavano in patria. Tra le cause del degrado segnalava l’atteggiamento fatalista che faceva accettare come inevitabile il malfunzionamento delle strutture (l’oscar del fatalismo Gorresio lo attribuisce a un ex sindaco di Napoli, che reagiva al colera del 1973 dichiarando: “È una maledizione naturale e come tale da accettare. È la volontà di Dio, insomma, e noi cristiani non possiamo che chinare il capo. Il Dio, del resto, ha dimostrato di non volere tanto male ai napoletani, tanto è vero che ha fatto piovere per due giorni. Una bella lavata su tutta la città, che chissà quante vite umane ha salvato”). Il libro equivaleva a un reagire all’immobilismo e a modificare le disfunzioni del sistema delle cure che gravano sui malati.

Un forte impatto sull’opinione pubblica esercitò il giornalista Gigi Ghirotti, che con interventi televisivi prima e con un libro poi (Il lungo

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viaggio nel tunnel della malattia, ed. Gluckman), ruppe la consegna del silenzio che gravava sul malato per descrivere la spersonalizzazione operata dal modo abituale di erogare le cure. Ghirotti è deceduto nel 1974, ma la sua voce non si è spenta: nel 1975, alcuni mesi dopo la morte del giornalista, si costituiva l’Associazione Gigi Ghirotti, con lo scopo di continuare a mantenere vivo l’impegno a favore del miglioramento della qualità di vita dei malati. L’Associazione, diffusa attualmente in diverse città italiane, ha portato un contributo decisivo nel modificare la pratica dell’assistenza ai malati bisognosi di cure palliative, nella fase della malattia che va verso la morte.

Nello stesso periodo di tempo un’altra iniziativa si è dimostrata di durevole impatto nei confronti del modo di erogare cure mediche: la creazione dei Tribunali per i diritti del malato. Anche in questo caso un libro ha avuto la capacità coagulare l’attenzione sulla condizione concreta del malato. Pubblicato per la prima volta nel 1978, L’uomo negato, di Giancarlo Quaranta (ed. Effedierre, Roma; successivamente ripubblicato con lo stesso titolo da Nuova Guaraldi, Firenze 1980 e da FrancoAngeli, Milano 1982, con una seconda parte dedicata ai Tribunali per i diritti del malato) analizzava come le procedure terapeutiche alle quali viene sottoposto il malato si risolvono in un’opera di devastazione dell’identità del malato. Questi, inspiegabilmente, da soggetto diventa oggetto:

Dal momento in cui una struttura sanitaria mi accoglie tra le sue braccia, certamente per tentare di guarirmi, succede che, senza che nessuno lo voglia, senza che ci siano cattive volontà, il mio lavoro, la mia cultura, il mio stesso corpo, per quello che la malattia me ne lascia, i miei desideri, le mie idee, i miei diritti, i miei affetti non contano più e svaniscono nel nulla. Mi è difficile anche tenermi legato ad alcune piccole cose alle quali attribuisco un valore particolare per mantenere la mia identità. Se sto in corsia, i pochi oggetti che posso tenere mi danno la misura di quello che mi è rimasto.

L’analisi che L’uomo negato fa della condizione del malato prende in considerazione le innumerevoli piccole vessazioni che il malato deve subire durante il ricovero ospedaliero: gli orari della vita in ospedale, l’uso del “tu” al posto della forma di cortesia, le difficoltà a incontrare i

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familiari, di poter mangiare cibo caldo, di accedere alla cartella clinica e quindi di poter conoscere le proprie reali condizioni. In breve, tutto ciò a cui in una condizione abituale di degenza il personale sanitario non presta attenzione, nella convinzione che “importante è guarire, tutto il resto non conta”; per il malato, invece, anche il resto conta! Le varie tappe del processo che porta a negare il malato in quanto cittadino vengono considerate analiticamente: l’ospedale è un carcere; ogni procedimento terapeutico contiene tratti di spersonalizzazione; i malati sono una casta; il malato diviene una malattia.

Il libro-denuncia di G. Quaranta non si limitava ad analizzare abusi che vengono quotidianamente esercitati sul malato, ma intendeva smontare il meccanismo che fabbrica l’“uomo negato”. Mutuava soprattutto dal sociologo americano Talcott Parson gli strumenti per comprendere come il sistema sociale dominante instauri un controllo della malattia, prescrivendo al malato un ruolo che neutralizza le spinte verso la devianza. Un potere tra i più rilevanti nella nostra società consiste nell’attribuire o nel negare a un soggetto il ruolo di malato, con i comportamenti connessi a questo ruolo. L’analisi si traduceva in una tesi, annunciata a chiare lettere dalla copertina dell’edizione del 1980: «La malattia ripara dalle regole del gioco sociale: l’ospedale annulla l’uomo per affermare la sua subordinazione politica».

Gli spunti critici contenuti nel pamphlet venivano assunti dal Movimento Federativo Democratico, con l’idea che, coniugando diversamente la politica con la sofferenza, si sarebbero potuti creare cambiamenti vistosi nella vita dei malati. L’intento era quello di dare centralità al ruolo di cittadini, quali garanti dell’attuazione di un diritto costituzionale, fortemente condiviso, ma misconosciuto e negato nella vita concreta. Ai cittadini veniva attribuita una funzione di governo insostituibile all’interno del Servizio sanitario nazionale, diventando protagonisti della gestione della malattia e della guarigione, della vita in ospedale e dell’organizzazione dei servizi. Lo strumento di cui il movimento si dotò furono i Tribunali per i diritti del malato.

Lo scopo dei Tribunali, costituiti a partire dal 1980, non era quello di affermare diritti umani in senso astratto e generale, come quelli alla libertà e alla dignità, quanto piuttosto concrete rivendicazioni relative alle condizioni di vita in ospedale. L’idea stessa di tribunale evocava una

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esplicita conflittualità con chi, nell’uso del potere, era individuato come controparte. Era questa una richiesta esplicita contenuta ne L’uomo negato: «Si apra con la classe medica e con i suoi collaboratori una vera e propria controversia di massa, diretta a far maturare, ma anche a imporre, un consenso, perché il quadro socio-culturale della malattia venga radicalmente cambiato».

La prima sessione del Tribunale di Roma, tenutasi il 29 giugno 1980 in Campidoglio (con il titolo programmatico: “Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la gestione popolare delle strutture sanitarie”), culminava con la presentazione dei 33 diritti del cittadino. È interessante notare che nel lungo elenco di diritti rivendicati (diritto a essere assistiti da personale sanitario identificabile, munito di cartellino leggibile, a usufruire durante la degenza di lenzuola, cuscini, posate, di disporre di servizi igienici puliti, di vivere la giornata di degenza secondo gli orari medi della vita civile...) un’attenzione relativamente modesta viene riservata alla partecipazione attiva del paziente alle decisioni cliniche (l’art. 28 parla di un diritto ad avere inserita nella cartella clinica «una scheda dove siano illustrate in termini chiari e comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in corso, nonché le previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di guarigione»).

Il confronto con movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni fa emergere che altrove veniva messa a fuoco la centralità dell’informazione per promuovere l’empowerment del cittadino malato. Ad esempio, l’Associazione dei pazienti della Svizzera italiana presentava la propria attività non sotto l’immagine di un tribunale che tutela chi è costretto a subire maltrattamenti, ma come una struttura che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali: “Ho diritto di vedere la mia cartella medica? A chi appartengono i risultati delle analisi e le radiografie? Quali informazioni devono essere date al paziente sul suo stato di salute e sulla cura che deve seguire? E ai suoi familiari? C’è libertà di scelta della terapia?”.

L’iniziativa del Movimento Federativo Democratico, anche se non perfettamente sintonizzata sui temi che, negli anni seguenti, sarebbero diventati la struttura portante del movimento della bioetica, ha avuto grandi meriti per la promozione di una nuova cultura sanitaria. I

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Tribunali per i diritti del malato si sono diffusi in buona parte delle realtà locali; la Giornata nazionale dei diritti del malato e dei diritti sociali è diventata, a partire dal 1980, un appuntamento annuale; in alcune Regioni sono state promulgate specifiche normative rivolte a disciplinare le condizioni di utilizzo dei servizi sanitari e a tutelare i diritti dei cittadini malati (la Regione Toscana, ad esempio, nel 1999 ha approvato un Decalogo dei diritti e dei doveri, in tema di informazione sanitaria, quale strumento di sensibilizzazione e informazione per i cittadini). Più di recente il Tribunale ha lanciato una vasta campagna per promuovere tra i cittadini la cultura del consenso informato ai trattamenti sanitari.

L’attenzione a eliminare i comportamenti dei sanitari che violano i diritti e la dignità delle persone e sono incompatibili con il rispetto del malato quale cittadino è solo il presupposto di quanto è richiesto dal programma di “umanizzazione”. Il vero obiettivo del movimento che fa appello alle medical humanities può essere definito con una formula che risale al medico-filosofo tedesco Viktor von Weizsäcker: “reintrodurre il soggetto in medicina”. E quindi del suo sapere sulla malattia. La biomedicina, creando l’impressione che quello che essa conosce della malattia sia la malattia, e che quindi non ci sia altro da cercare e da sapere, rafforza il senso di sicurezza del malato che si appoggia alle certezze del sapere medico. Proprio questa certezza, tuttavia, suscita perplessità. La “cultura del sospetto”, cresciuta con la consapevolezza dell’Occidente, ci ha insegnato a diffidare soprattutto delle certezze. Esse crescono, infatti, in modo particolare all’ombra di quel sapere tendenzioso che è l’ideologia. E proprio della conoscenza ideologica, oltre al suo carattere aprioristico e al nascondimento dei rapporti di potere che essa favorisce, anche il comunicare una falsa sicurezza.

Il sospetto che sorge è che il sapere certo sulla malattia sviluppato dalla medicina scientifica svolga una funzione ideologica: serve a mantenere immutata la realtà, invece che a cambiarla; maschera i rapporti di potere (in questo caso, l’impotenza che il paziente induce in se stesso, consegnandosi all’apparato sanitario, a cui attribuisce tutto il sapere e tutto il potere); conferisce una falsa sicurezza.

Se è vero che nessuna operazione di creazione di un sapere ideologico è così perfetta da non lasciare qualche traccia della realtà che maschera, ci sentiamo autorizzati a cercare degli indizi. Può esserci

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d’aiuto un paradosso così formulato dallo scrittore Wolfdietrich Schnurre: «Il sapere del malato è superiore a quello del medico. Altrimenti come potrebbe questi ogni giorno domandare: “Come va?”» 3.

È chiaro che la domanda di solito non eccede il livello della pura formalità (del resto, basta vedere quanto poco tempo venga lasciato al malato per formulare la risposta e quanto questa non incida sulle domande che il medico gli farà in seguito, seguendo lo schema diagnostico che ha in mente). Nel migliore dei casi la domanda significa la richiesta di sintomi soggettivi di malessere o delle sensazioni di benessere. Adottando consapevolmente una forzatura semantica, carichiamo la domanda di un significato che sembra alieno alla sua candida ingenuità. Vogliamo attribuire alla domanda: “Come va?” il valore di un indizio che ci rimanda a un sapere nascosto del malato stesso; anzi, un sapere che nel suo genere è di un altro ordine rispetto a quello che il medico deriva dalla scienza medica, lo comprende e lo trascende. L’opera del medico non ha altra funzione che quella di attivare questo sapere che è proprio del malato. Lo fa con la scienza (se la possiede...!); ma deve farlo anche con le scienze dell’uomo: questa è l’istanza fondamentale del movimento delle medical humanities, nelle sue varie articolazioni.

Quando il professionista sanitario, attingendo a un sapere che ignora il soggetto, mette tra parentesi la persona, non fa di per sé qualcosa di scorretto: adotta la metodologia delle scienze naturali. Ma deve essere consapevole che attiva un sapere parziale e che gli è richiesto di controbilanciarne l’unilateralità con un ricorso consapevole alle scienze umane. Viene sanata così la frattura ― frattura necessaria! ― che la medicina come scienza ha introdotto nel sapere del sanitario sull’uomo malato.

Questo atteggiamento di fondo riguarda tutti i professionisti sanitari, e non solo i medici. Ci sentiamo così autorizzati a rifiutare l’insidiosa divaricazione tra una medicina hich tech e una high touch (quest’ultima affidata per lo più a infermieri, psicologi o altri professionisti di professioni di aiuto). In tutta la pratica della medicina deve circolare la linfa della humanitas, intesa come uno spazio privilegiato riservato alla parola e alle relazioni interpersonali.

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BIBLIOGRAFIA

AA.VV, Ospedali più umani: come?, Atti del Convegno internazionale, Acquaviva delle Fonti, 18-20 giugno 1984.

Francesco Campione, Rivivere, Cooperativa Libraria Universitaria, Bologna 2000.

W. Schnurre, Der Schattenfotograf, München 1978, p. 31.

NOTE

1 AA.VV, Ospedali più umani: come?, Atti del Convegno internazionale, Acquaviva delle Fonti, 18-20 giugno 1984.

2 Francesco Campione, Rivivere, Cooperativa Libraria Universitaria, Bologna 2000.

3 W. Schnurre, Der Schattenfotograf, München 1978, p. 31.