Il pensiero e la prassi dell’eutanasia nell’etica cattolica

Sandro Spinsanti

IL PENSIERO E LA PRASSI DELL'EUTANASIA NELL'ETICA CATTOLICA

in Eutanasia. Il senso del vivere e del morire umano

Atti del XII Congresso nazionale dei teologi moralisti italiani

Firenze 1-4 aprile 1986 - EDB, Bologna 1987

pp. 101-120

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Affinché questo mio contributo non acquisti i tratti invertebrati di una generica «summa» di pensiero etico relativo alla vita terminale, mi sembra opportuna una premessa relativa alla mia personale collocazione rispetto al tema. Intendo con ciò indicare non solo lo specifico interesse professionale che porto a questo soggetto, ma anche l’angolatura esistenziale che determina la mia comprensione del morire e dei problemi etici ad esso connessi, gli interrogativi che mi pongo e, di conseguenza, l’intima giustificazione del mio contributo alla riflessione dei teologi moralisti italiani.

Da un decennio svolgo l’insegnamento dell’etica bio-medica in facoltà di medicina. Questo compito mi ha collocato in un luogo privilegiato per l’ascolto del mondo medico-sanitario. Ho potuto constatare la necessità e l’urgenza di una riflessione etica per guidare il comportamento medico nella situazione inedita creata dai progressi della medicina. L’aiuto offerto dalle regole deontologiche è prezioso e va ancor più valorizzato; tuttavia, da solo, è insufficiente. La deontologia non esaurisce tutto il bisogno di normatività in questo campo così intricato; essa si apre, piuttosto, sull’etica e fa appello ad essa. La guida offerta dalla deontologia e quella assicurata dall’etica, lungi dall'escludersi, si implicano reciprocamente. Un primo obiettivo del mio contributo sarà precisamente quello di illustrare l’ambito rispettivo della deontologia e dell’etica nella vita terminale, e la loro correlazione.

Non posso senz’altro sottoscrivere il giudizio frequentemente

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ripetuto circa un’allergia dei medici nei confronti dell’etica; se sono insofferenti, lo sono piuttosto verso un’etica paracadutata dall’alto in campo medico, imposta come un corpo estraneo. Una riflessione etica che nasca dalla prassi e l’accompagni rispettosamente ha, al contrario, molte possibilità di essere accolta dai medici.

Un secondo ambito di esperienza personale è quello connesso con la mia attività di responsabile del Dipartimento di Scienze umane presso l’ospedale «Fatebenefratelli» all’isola Tiberina, in Roma. Questo compito, che nasce da un progetto-pilota saldamente radicato nella tradizione di un Ordine ospedaliero e aperto allo stesso tempo alle sfide della situazione sanitaria contemporanea, mi ha permesso di essere coinvolto nello sforzo di umanizzazione della vita ospedaliera mediante un sistematico ricorso alle discipline che considerano l’uomo non solo sul versante biologico, ma anche su quello psichico-spirituale (psicologia, sociologia, etica, teologia spirituale). La disumanizzazione del morire in ospedale si rivela a un primo sguardo come uno dei principali nodi da sciogliere. Per riumanizzare la fine della vita è necessario uno sforzo creativo, al quale l’etica cristiana, appoggiata su una coerente riflessione antropologica, può offrire un contributo peculiare. L’apporto profetico innovativo della visione cristiana dell’uomo all’umanizzazione del morire costituirà un altro punto focale delle mie considerazioni.

1. La morte e il morire in ambito bio-medico

Il termine della vita è diventato un’area scottante, dove confluiscono sfide antropologiche tra le più radicali. Ciò obbliga l’etica bio-medica contemporanea a ripensare, in considerazione del bene stesso dell’uomo, le norme morali che in passato hanno validamente regolato quest’ambito. L’intervento massiccio delle nuove tecniche ha cambiato volto al morire. Questo ha perso la sua «naturalezza»: nelle aree industrializzate e urbanizzate il trapasso avviene ormai quasi esclusivamente in

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un contesto medico, per lo più in ospedale, sotto terapia intensiva di rianimazione. Grazie a questa disciplina medico-chirurgica, tanto spettacolare quanto efficace, la durata della vita ha potuto essere notevolmente prolungata. Ma il tenere in scacco la morte si è rivelato quanto meno una benedizione ambigua.

La possibilità di rendere la vita vegetativa indipendente dai livelli superiori della coscienza diventa, almeno in alcuni casi, un dono malefico. Si può assistere allora alla paradossale rivendicazione del diritto di essere dichiarati morti! La vicenda dell’americana Karen Ann Quinlan ha assunto in questo senso il ruolo di un caso emblematico, di quelli che hanno il merito di portare un problema etico a livello della coscienza popolare. Si può dire, senza un’eccessiva esagerazione, che nell’etica della vita terminale esista un prima e un dopo il «caso Quinlan». La ragazza era caduta in coma profondo, con lesioni cerebrali irreversibili, che non le avrebbero permesso di tornare indietro da una sopravvivenza puramente vegetativa. I genitori chiesero ai medici di lasciarla morire in pace; questi, invece, in nome dell’etica professionale che impone loro di fare di tutto per prolungare la vita, rifiutarono, e le applicarono un polmone di acciaio. I Quinlan chiesero allora all’autorità giudiziaria l’autorizzazione al distacco dal respiratore artificiale. Ne seguì un processo a più riprese, che vide schieramenti appassionati pro e contro il desiderio dei genitori. Questi ottennero infine dalla Corte suprema del New Jersey la sospensione delle misure di rianimazione, anche se la povera Karen Ann doveva ancora «vegetare» per anni ― «naturalmente», questa volta... ― prima di spegnersi. Il caso, tuttavia, aveva posto ormai di fronte all’opinione pubblica il problema; vi sono situazioni in cui la morte sembra di doversela conquistare lottando contro l’apparato medico! I medici intraprendono il prolungamento della vita con buona coscienza, richiamandosi ai principi etici che ispirano la professione. Se le norme che hanno guidato l’azione in passato portano, in un mutato contesto culturale, a pratiche disumane, è forse giunto il momento di ripensare le norme stesse.

Il moltiplicarsi dei trapianti di organo è in parte responsabile

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delle misure di prolungamento artificiale della vita. Per avere organi disponibili per il momento opportuno al trapianto, le équipes di rianimazione mantengono la vita vegetativa di persone altrimenti considerate morte. Anche se il fine è nobile, queste pratiche suscitano perplessità dal punto di vista morale: non ci si può sottrarre all’impressione che il processo del morire venga strumentalizzato per uno scopo utilitaristico.

Un altro modo ancora di manipolare il processo del morire è quello che ha origine dalla lotta contro il dolore. È diventata una pratica abbastanza diffusa quella di somministrare analgesici («cocktails litici»), che sprofondano il malato nell’incoscienza 1. Non riuscendo a controllare il dolore, si «deconnette» la coscienza. Il malato non viene propriamente ucciso; tuttavia spegnere in modo irreversibile la consapevolezza equivale a una morte parziale, inferta alla parte che definisce essenzialmente l’essere umano. Anche da questo fronte della medicina giunge, dunque, un appello all’etica, perché si inizi una riflessione sulla morale professionale dei sanitari, assumendo come punto di partenza queste nuove concrete modalità di morire.

2. I medici cambiano le loro regole deontologiche?

Lo scenario del morire si trasforma: ciò è vero non solo per il morente, ma anche per chi si occupa di lui dal punto di vista sanitario 2. I medici in particolare sembrano rimettere in

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discussione uno dei principi deontologici a cui tradizionalmente si sono ispirati: il rifiuto a usare la propria arte per abbreviare in qualsiasi modo la vita del paziente. Un fatto sensazionale, che può valere come un campanello di allarme, è avvenuto ad opera di Julius Hackethal, un medico che per le sue pubblicazioni gode di una certa notorietà in Germania. In occasione di un congresso di chirurgia a Monaco di Baviera, nell’aprile 1984, raccontò di aver fornito a una sua malata anziana, divorata da un cancro al viso, la pozione di cianuro che le aveva permesso di porre fine alla sua sofferenza, come lei stessa gli chiedeva con insistenza. Per dare alla sua rivelazione un maggior impatto, Hackethal mostrò ai colleghi un filmato che riprendeva le fasi salienti del gesto della donna, al quale egli stesso aveva attivamente collaborato. La notizia e il filmato rimbalzavano immediatamente al di fuori dell’aula congressuale. La televisione e i giornali fecero a gara per riproporre l’immagine provocatoria di un medico disponibile di fronte a un malato che gli chiede il suo aiuto non per guarire, ma per morire.

Un altro evento capace di arrivare al grande pubblico, attraverso la mediazione della stampa, ha avuto luogo nell’autunno dello stesso anno. Un affollato congresso internazionale si è tenuto a Nizza; raggruppava i rappresentanti di 26 associazioni, che si propongono come scopo di favorire la «morte con dignità». Nel contesto del congresso è stato possibile ascoltare il professor Christian Barnard dichiarare: «Non possiamo e non dobbiamo domandare al malato di scegliere il momento preciso della sua morte: sarebbe disumano. Sono i medici, e solo essi, che possono decidere quando è giunto per il malato il momento di morire. Perché sono i soli ad avere una formazione che permette loro di fare una diagnosi clinica esatta».

Già da anni Barnard, dopo esser stato una vedette della medicina per i trapianti cardiaci, aveva assunto una posizione pilota nella campagna a favore del diritto a scegliere la propria morte. La posizione di cui si è fatto portavoce nel congresso di Nizza propone un sovvertimento pubblico e ufficiale del ruolo tradizionalmente attribuito al medico. Somministrare la «morte

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per pietà» non è più, se si assume questa prospettiva, il gesto inconsulto con cui qualcuno cerca disperatamente di rispondere alla sfida estrema di una situazione eccezionale. Diventa, piuttosto un preciso dovere del medico, il quale, solamente, può giudicare quando è giunto il momento di mettere la parola «fine» alla vita di un uomo. Questa concezione sconvolge ogni riferimento religioso e sapienziale tradizionale. La posta in gioco è così alta che la Commissione per la famiglia dell’episcopato francese in un documento recente sull’argomento (Vita e morte su ordinazione, del novembre 1984), cita esplicitamente la rivendicazione di Barnard, additandola come una porta aperta su ogni genere di totalitarismo: se si accetta questa posizione, «l’uomo non è più un soggetto, ma un oggetto» 3.

Paradossalmente, mentre sempre più forte si va facendo il movimento di opinione che contesta non solo all’individuo ma anche allo Stato il diritto di disporre della vita di un uomo ― premendo affinché, di conseguenza, la pena di morte sia bandita dalla legislazione di tutti gli stati civili ― ora qualcuno osa rivendicare un simile diritto per il medico. Si scardina così uno dei punti fissi della deontologia professionale alla quale tradizionalmente i medici si sono ispirati. Fin dall’antichità, quando i medici con il giuramento di Ippocrate hanno formulato esplicitamente gli impegni che si assumevano nei confronti del paziente, si sono obbligati a non dare la morte neppure a chi la richiedesse: «Giammai ― giurava il medico ― mosso dalle preghiere insistenti di qualcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere» 4. Che cosa succederebbe se questo pilastro dell’etica medica venisse a cadere?

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«L’ambiguità si rifletterebbe su tutta la pratica medica. Dal momento che il gesto medico può essere mortale, se è giustificato dai buoni sentimenti, la fiducia è intaccata. Il malato si domanderà ormai se l’iniezione che gli viene praticata è per curarlo o per ucciderlo. Si può immaginare l’angoscia che regnerà in certi reparti». A esprimersi in questi termini è il documento francese sopra citato, che già dal titolo stesso prende posizione contro la pretesa di rendersi padroni della vita e della morte, mettendovi fine sulla base di una soggettiva valutazione di opportunità.

Anche la «Guida europea di etica e di comportamento professionale dei medici» giustifica la proibizione di praticare l’eutanasia con l’argomento della fiducia che deve poter esser posta nel sanitario: «Ricorrere a un medico vuol dire in primo luogo affidarsi a lui. Tale azione, che domina tutta l’etica medica, proibisce, di conseguenza, alcune azioni ad essa contrarie. Così il medico non può procedere all’eutanasia. Deve sforzarsi di placare le sofferenze del malato, ma non ha il diritto di provocarne deliberatamente la morte. Questa regola, conosciuta da tutti e rispettata dal corpo medico, deve essere la ragione e la giustificazione della fiducia posta in lui. Nessun malato, handicappato, infermo o senile, alla vista del medico chiamato al suo capezzale, deve avere dubbi a questo riguardo» 5.

I motivi addotti a difesa del comportamento tradizionale dei medici suonano plausibili. Ma colpisce il fatto che allo stesso argomento della fiducia del paziente nei confronti del medico facciano ricorso anche coloro che sollecitano una modifica delle norme della deontologia medica. La fiducia del malato — sostengono — è accresciuta se questi sa che può contare sul medico non solo per guarire, ma anche per morire. L’angoscia più profonda del morente dei nostri giorni è quella di essere abbandonato nel momento in cui, secondo la scienza medica, «non c’è più niente da fare». In nome di un contratto

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morale implicito nell’alleanza terapeutica, il malato vuol poter contare sul medico fino all’ultimo, anche per finire i suoi giorni.

C’è il sospetto di ipocrisia ― incalzano i critici ― in certi alti proclami della medicina come servizio alla vita: prima la medicina stessa crea delle situazioni disumane, poi rifiuta di assumerne la responsabilità, trincerandosi dietro i principi deontologici! Troppo spesso il medico, richiamandosi ai «valori ippocratici», di fatto abbandona il malato, ritenendo che la morte non sia di sua competenza. Come in tutte le situazioni in cui predomina l’ideologia, i sublimi ideali svolgono anche la funzione di uno schermo, dietro a cui si nasconde una realtà piuttosto meschina.

Questi attacchi alla deontologia tradizionale, per quanto provocatori ed eversivi, non sono necessariamente insensati. Il loro risvolto positivo sta nel richiedere che si rifletta, nei termini concreti della pratica medica attuale, sulla finalità della professione medica. La medicina curativa, per tradizione, non si occupava della morte, e quindi neppure dei moribondi. Per questo poteva dichiararsi compattamente schierata sul fronte della vita. Ma le nuove condizioni del morire obbligano i sanitari a occuparsi anche della morte dell’uomo. Sarebbe abusivo derivare da questo orientamento una legittimazione a priori di interventi rivolti ad abbreviare la vita di un paziente; ma non è neppure più legittimo appellarsi ai principi ippocratici come alibi per evitare di affrontare le questioni scomode che solleva il morire del nostro tempo.

Vuol dire, dunque, che nella cittadella della medicina si sta creando una breccia, attraverso la quale entrerà l’eutanasia? La deontologia tradizionale dei medici, che ha tradizionalmente eretto una barriera contro ogni azione che anticipi la morte, è giunta al punto di capitolare? Quello che è certo, è che la deontologia non adempie al suo compito se si limita a proporre le regole di comportamento professionale che erano adeguate in passato, ma non al nuovo volto che ha assunto il morire.

I medici che, in modo provocatorio, aprono il dibattito

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sulle regole deontologiche, lo fanno sotto la spinta di un’angoscia diventata insopportabile. L’incertezza sul comportamento «corretto» da tenere con i malati al termine della vita è causa di turbamento per la professione medica e per la società intera. Dall’impasse i medici non possono uscire se non approfondendo il senso e la finalità della propria professione. Oggi i medici non possono più limitarsi ad essere «medici per la vita»; non possono lasciare il morente al decorso «naturale» del morire, perché tale processo, sottratto alla naturalità, è manipolato come tutti gli altri processi vitali. Il comportamento del medico, dal momento che assume il morire nell’ambito della propria operatività professionale, va ripensato profondamente. La «legittimità», dal punto di vista del corretto comportamento professionale, di un intervento sul processo del morire è una questione fondamentale, che deve precedere qualsiasi dibattito sulla «legalità» di interventi eutanasici. L’approfondimento della deontologia, è prevedibile, avverrà contestualmente all’approfondimento degli interrogativi etici.

3. L’etica della vita terminale: un «work in progress»

Dall’etica ci aspettiamo un aiuto molteplice. Oltre a indicare i valori a cui ispirare l’azione, deve anche offrire un orientamento concreto nelle situazioni in cui bisogna prendere delle decisioni, fornendo norme e regole di comportamento che risolvano i conflitti, o almeno li attenuino. Il capitolo dell’etica bio-medica relativo alla fine della vita è un esempio particolarmente eloquente di come la riflessione etica possa servire a fare un po’ di chiarezza in un settore in cui le confusioni abbondano, e a ridurre, sul piano morale, il margine di incertezza circa le gravi scelte che si è costretti a fare. Il primo è un compito di natura prevalentemente semantica; il secondo, più direttamente attinente all’etica, consiste nell’elaborare le categorie per discernere la qualità morale delle diverse azioni.

La riflessione etica deve proporsi un primo obiettivo fondamentale: chiarire terminologicamente la realtà che si intende

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denotare. Il dibattito sull’eutanasia, infatti, è spesso viziato da sottili malintesi: si crede di parlare della stessa cosa, ma di fatto ci si riferisce a situazioni diverse. Il termine è una di quelle tipiche «parole-attaccapanni», alle quali ognuno attribuisce un particolare significato. I vescovi francesi, in un loro documento sui problemi della morte e del morire dal punto di vista dell’etica 6, richiamavano l’attenzione proprio sull’ambiguità della parola e sulla necessità di tenere separati i diversi problemi per i quali si ricorre al termine eutanasia.

Il documento indica almeno sei ambiti diversi nei quali ci si riferisce all’eutanasia: l’«addolcimento» degli ultimi momenti della vita del malato (secondo il significato etimologico della parola); la lotta contro la sofferenza, che può comportare il ricorso ad analgesici che fanno perdere coscienza al malato, o eventualmente possono comportare un abbreviamento della vita; il prolungamento della vita ad ogni costo, correlato con l’atteggiamento contrario, quello di «lasciar morire», che alcuni preferiscono chiamare «eutanasia passiva»; la soppressione dei «tarati» per ragioni eugeniche, come è stata praticata durante il Terzo Reich in Germania sotto il nome programmatico di eutanasia; la costatazione della morte, malgrado le apparenze della vita; e infine il mettere deliberatamente fine alla vita di una persona, su richiesta esplicita o presunta di quest’ultima. L’estensione denotativa del termine è evidentemente troppo ampia perché possa abbracciare significati e situazioni così diverse. Il dibattito etico acquisterebbe il pregio della chiarezza se si parlasse di eutanasia solo quando ci si riferisce all’ultimo caso, utilizzando per le altre situazioni designazioni specifiche e non equivoche.

Se questa è la situazione linguistica dell’eutanasia dal punto di vista della denotazione, ancora più delicati sono i problemi connessi con il suo significato connotativo. Ogni parola,

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infatti, suscita tutto un insieme di idee e sentimenti correlati, una costellazione di significati difficili da definire con esattezza e fortemente colorata di esperienza personale: è questo il suo significato connotativo. Possiamo parlare, a tale riguardo, di fantasmi evocati dalla parola eutanasia. Almeno due sono i più ricorrenti: quello della diga che si rompe, e quello della cieca ostinazione medica che ruba al morente la sua morte. Il fantasma della diga è quello di una barriera da erigere contro li scatenamento degli istinti e la disgregazione sociale. Dopo la legalizzazione dell’aborto ― temono molti ― la prossima falla nella diga sarà la legalizzazione dell’eutanasia! Per rafforzare la diga contro i tempi di ferro incombenti, alcuni ritengono che sia necessario ribadire un «no» all’eutanasia, un «no» energico e assoluto verso qualsiasi gesto che comporti un abbreviamento della vita.

Non meno disturbante per il dibattito etico sull’eutanasia è il fantasma dell’«accanimento terapeutico». Il timore di tanti nostri contemporanei è quello di cadere nelle mani di un medico che consideri come suo dovere esclusivamente quello di prolungare il più possibile il funzionamento dell’organismo del paziente, in qualsiasi condizione ciò avvenga, e ignorando ogni altra dimensione della vita umana che non sia quella biologica. La prospettiva di doversi quasi conquistare la morte contro l’ostinazione del medico rende auspicabile il mantenimento di un controllo sulla propria morte, mentre il rifiuto dell’eutanasia appare come l’espressione di un’insensibilità di cuore. Il filosofo e il teologo morale devono essere consapevoli che, quando usano la parola eutanasia, evocano anche queste connotazioni del termine. La confusione semantica e lo strascico di emotività che accompagna l’eutanasia rendono questo capitolo dell’etica bio-medica particolarmente insidioso.

Il contributo positivo offerto dalla riflessione etica nell’ambito della vita terminale è l’elaborazione di distinzioni, utili a delimitare zone di abuso e di ingiustizia, e a esplorare dilemmi, complessi. Lo sforzo di riflessione è decorso parallelamente al progresso tecnologico in medicina e al modificarsi culturale e sociale del morire, al fine di discriminare tra i diversi comportamenti,

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stabilire proibizioni, porre dei limiti. Alcune di queste categorie sono storicamente superate o non più adeguate; ma la consapevolezza di un limite o di una carenza nella riflessione etica diventa spesso il punto di partenza per più vaste esplorazioni.

Le distinzioni più classiche sono quelle di eutanasia attiva e passiva, diretta e indiretta. L’eutanasia attiva si ha quando si produce la morte; in quella passiva, invece, la morte sopravviene perché si omettono misure indispensabili per salvare la vita. Dal punto di vista morale, non ha grande rilevanza se l’azione con cui si pone fine a una vita sia una omissione o una commissione. La «Dichiarazione sull’eutanasia» emanata dalla sacra Congregazione per la dottrina della fede (maggio 1980) specifica che va considerata eutanasia «tanto un’azione quanto un’omissione che di natura sua procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» 7.

Alcuni moralisti vorrebbero che la distinzione scomparisse dall’uso, in quanto serve solo a creare equivoci 8. Il problema non è tanto quello della modalità, attiva o passiva, con cui viene portato a esecuzione il progetto di sopprimere una persona. Oggi ci domandiamo piuttosto: ci sono situazioni in cui, pur avendo la capacità di prolungare la vita, è moralmente giustificato omettere l’azione sanitaria? L’omissione è legittima quando in tal modo si lascia che il paziente entri naturalmente nel processo del morire, rinunciando a quell’irrigidimento dell’azione sanitaria a cui correntemente si dà il nome di accanimento terapeutico. Ma non si crea, appunto, una confusione, quando il «lasciar morire» viene qualificato come «eutanasia passiva»? La rinuncia a questa designazione obbedisce al bisogno di chiarezza e di economia del termine troppo abusato di

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eutanasia, che più sopra abbiamo identificato come un compito prioritario della riflessione etica odierna.

La distinzione tra azione diretta e indiretta è anch’essa tradizionale nella filosofia morale. Nel caso dell’eutanasia indiretta, l’azione produce la morte, ma l’intenzione di colui che agisce non è la soppressione. L’esempio più chiaro è quello della overdose di sedativi, data per alleviare i dolori del paziente, non per ucciderlo. Pio XII ha applicato esplicitamente la distinzione, che si basa sul principio del duplice effetto, alla terapia del dolore: «Se la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita, è lecita» 9. Aggiungeva, però, che bisogna ancora considerare se tra i due effetti vi sia una proporzione ragionevole, e se i vantaggi dell’uno compensino gli inconvenienti dell’altro.

Questa distinzione ha il vantaggio di sottolineare il significato della retta intenzione, fondamentale nell’azione morale; ma non fornisce regole precise, utili per prendere delle decisioni in situazioni di conflitto. Un’indicazione in tale senso è stata offerta dalla distinzione tra mezzi ordinari e straordinari. Secondo tale criterio, gli sforzi rivolti a salvare la vita o a prolungare l’esistenza possono essere lecitamente tralasciati quando hanno un carattere di straordinarietà.

Anche questa distinzione risale al magistero di Pio XII nell’ambito della morale medica. Ha avuto molto successo ed è stata ampiamente adottata anche dalla cultura laica. La distinzione mira a individuare gli interventi medici ritenuti obbligatori ― identificati con quelli ordinari ―, distinguendoli da quelli che possono essere tralasciati senza colpa morale. Nella pratica sanitaria, il criterio della straordinarietà dei mezzi è di difficile utilizzazione, a meno che non sia abbinato a qualche altro criterio; per esempio: valutare se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. Anche nel caso in cui la vita sia di fatto prolungata di qualche

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tempo, non si può ignorare la prospettiva del paziente. Questi potrebbero considerare sproporzionato l’utile del prolungamento della vita: qualche settimana o qualche mese in più, ottenuti al prezzo di grandi dolori o di spese rovinose per la famiglia, possono essere un ben misero guadagno!

La «straordinarietà» non è intrinseca ai mezzi stessi, ma dipende dalla valutazione soggettiva del paziente. Inoltre, un mezzo del tutto ordinario può risultare inappropriato, se si considera la situazione concreta. Gli antibiotici, per esempio, sono un presidio farmaceutico standard per curare una polmonite; ma non potrebbe essere considerata una procedura ordinaria somministrarli a un paziente in coma irreversibile, prossimo a morire, che abbia contratto una polmonite. Per queste imprecisioni intrinseche alla distinzione tra mezzi «ordinari» e «straordinari», nel cantiere dell’etica ha cominciato a manifestarsi una certa indifferenza verso questa terminologia, a vantaggio di un’altra: la distinzione tra mezzi «proporzionati» e «sproporzionati».

La stessa «Dichiarazione sull’eutanasia» della s. Congregazione della dottrina della fede, sopra citata, ha sancito la transizione da una terminologia all’altra. Domandandosi se in tutte le circostanze si deve ricorrere a ogni rimedio possibile, indicava il punto di vista della morale cattolica in questi termini: «Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi «straordinari». Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine, che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi «proporzionati» e «sproporzionati». In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali».

La distinzione fra mezzi proporzionati e sproporzionati ha il vantaggio di introdurre come criterio una valutazione soggettiva della vita e della sua qualità. Una ragionevole amministrazione

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della propria vita può indurre a rinunciare a un trattamento che salverebbe la vita o prolungherebbe l’esistenza, se ciò risulta sproporzionato rispetto al proprio progetto di vita. La valutazione costi/benefici, insomma, non va fatta solo in senso economico, ma umano, in una prospettiva ampia che include i valori a cui l’individuo orienta la propria vita.

L’etica, accettando il criterio della qualità della vita, ricorda alla medicina che essa deve essere a servizio non della vita, ma della persona. Se il prolungamento della vita fisica non offre più alla persona alcun beneficio, perché questa non riesce più a dargli un senso o deve pagare la vita fisica a un prezzo che ritiene troppo alto ― a prezzo della dignità, per esempio, o della libertà ―, diventa sproporzionato ogni mezzo rivolto a questo fine.

La prospettiva della qualità della vita corregge e integra quella della «santità della vita», unilateralmente proposta dalla morale religiosa e adottata dalla deontologia medica 10. Un atteggiamento globale a protezione della vita è giusto, e più che mai necessario nella nostra società, propensa a valutare tutto col metro dell’utilità. Ma senza dimenticare la sua qualità: ciò preserva la proclamazione della santità della vita dal diventare una retorica celebrazione di condizioni di vita subumane o disumane.

4. Il discernimento della volontà di morire

Cercando di aprirci un sentiero fra gli equivoci terminologici e i fantasmi collegati all’eutanasia, ci imbattiamo nell’inequivocabile problema etico maggiore della vita a termine: la volontà di morire. Non sempre, infatti, la volontà intende ciò che le parole esprimono. Sollecitare la morte può significare un

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rimprovero rivolto a familiari o sanitari o un disperato richiamo ad aspetti della propria situazione, come dolore fisico persistente o solitudine, che vengono disattesi. In questi casi, quando la richiesta implicita nella domanda di morte viene soddisfatta ― per esempio, il malato riceve la terapia del dolore adeguata o l’attenzione che richiede ― il morente recede dal suo desiderio di affrettare la morte. Ma non possiamo escludere che la volontà di morire possa essere anche una ricerca determinata e seria di porre fine alla propria vita, quale si manifesta nel modo più chiaro nella volontà di suicidarsi.

L’etica bio-medica è chiamata in causa per chiarire l’obbligo di prevenire il suicidio. Esiste il dovere morale di salvare la vita di un altro essere umano contro la sua volontà? In questo caso entrano in conflitto due specie di obblighi: quello di difendere la vita e quello di rispettare la libertà secondo il principio della autonomia personale; mentre il primo giustifica l’intervento, il secondo richiede la non interferenza (nel caso in cui si sia moralmente certi che la decisione suicidiaria è stata presa in effettiva libertà, e non sotto costrizione). Pensiamo, in concreto, al conflitto in cui viene a trovarsi un medico chiamato a fornire l’alimentazione forzata a un detenuto politico che abbia deciso lo sciopero della fame a oltranza, facendo così fallire la deliberata intenzione del suo gesto.

Solo poche voci isolate propongono il rispetto assoluto della volontà di commettere il suicidio come condizione per salvaguardare la dignità umana. Più generalmente l’Occidente ha dato la preferenza all’obbligo di salvare la vita del suicida: in passato ricorrendo per lo più alle argomentazioni religiose che riferiscono il comandamento «non uccidere» anche alla vita del soggetto stesso; oggi prevalentemente con motivazioni secolari, ivi compreso il principio giuridico secondo cui il diritto alla vita va inteso come un diritto «assolutamente indisponibile», tutelato dallo Stato anche contro la volontà dell’individuo.

Con particolare mitezza si tende oggi a valutare i tentativi di porre fine alla propria vita da parte di persone che intendono sfuggire ai dolori intollerabili e ai trattamenti disumani

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nella fase terminale della malattia. Anche in questi casi non sussiste, almeno dal punto di vista dell’etica cristiana, alcun valido motivo per riformulare il giudizio morale che ritiene illecito ogni attentato contro la propria vita 11. Ma non dovremmo sentirci dispensati dal riflettere sul significato profondo di tali gesti suicidiari, nei quali molto spesso si riversa una vibrata protesta contro le condizioni di vita a cui sono costretti i malati terminali. La prevenzione del suicidio non può ridursi allora alle misure coercitive; deve estendersi piuttosto alla modifica di quelle forme più generali di malessere le cui radici vanno fatte risalire all’organizzazione sanitaria del morire. Quando una persona giudica la propria vita come invivibile, non basta impedirgli di porvi fine: bisogna offrirgli l’aiuto necessario perché la sua vita ritrovi la qualità umana.

Appurato che si tratti di una vera volontà di morire, una altra opera di discernimento è affidata all’etica: la distinzione tra la volontà sana e quella patologica. Non tutti accettano che possa esistere una sana volontà di morire. Per lungo tempo qualsiasi progetto autodistruttivo nei confronti della propria vita è stato etichettato come moralmente perverso. I comportamenti sociali verso i suicidi, comprendenti perfino il rifiuto delle esequie religiose, avevano una funzione prevalente di deterrente, affinché non si innescasse il fenomeno dell’imitazione; la valutazione morale era, in ogni caso, di condanna. A questo atteggiamento ha fatto seguito l’epoca dell’indulgenza, ma solo perché al gesto di chi si toglie la vita è stato attribuito un carattere patologico 12. La conoscenza delle radici socio-psicologiche del comportamento suicida ha aperto la strada a un atteggiamento di maggior comprensione. Peccato... pazzia...: la

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volontà di morire non può essere coniugata anche con la salute, sia morale che mentale?

L’istinto naturale per la vita e l’obbligo morale di preservarla sono indubbiamente il punto di partenza dell’etica della vita fisica. Ma la volontà di morire non può essere esclusa in assoluto dal progetto di vita umana. Essa può esprimere la positiva accettazione della propria umanità, come essenzialmente limitata nel tempo. La fantasia dell'immortalità è legata all’io; talvolta ne esprime l’ipertrofia: allora è la fantasia di immortalità, non la volontà di morire, ad avere carattere patologico 13. Quando l’individuo lascia che si sviluppi anche la dimensione transpersonale che trascende l’orizzonte dell’io, l'abbarbicamento esasperato alla vita corporea viene superato. A un certo livello di autorealizzazione, la persona si apre a un’ispirazione mistico-unitiva con il Tutto, anche al di fuori dell’esperienza formalmente religiosa.

La volontà di morire può avere anche un risvolto di ribellione all’idolatria della vita, caratteristica della cultura immanentista nella quale siamo immersi. Quando la vita fisica è considerata il bene sommo e assoluto, al di sopra della libertà e della dignità, l’amore naturale per la vita si tramuta appunto in idolatria. La medicina implicitamente promuove tale culto idolatrico, organizzando la fase terminale come una lotta a oltranza contro la morte. Ribellarsi a tale organizzazione ― che per lo più espropria il malato da ogni autonomia, sottoponendolo ai rituali chirurgici e rianimatori dell’ostinazione terapeutica ― può essere anche un gesto di disobbedienza mentalmente e moralmente sano 14. Dovremmo aspettarcelo soprattutto

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dal credente, che la fede ha reso libero dai miti (l’immortalità) e dagli idoli (la vita corporea come supremo valore).

5. L’annuncio della salvezza ai morenti

Possiamo osservare, a mo’ di conclusione, che il compito dell’etica cristiana relativamente alla vita terminale si configura in maniera crescente come un’apertura di orizzonti antropologici e spirituali. Si ha l’impressione che finora abbia predominato la funzione normativa dell’etica, stabilendo limiti e fornendo, con un lavoro in continua evoluzione, le categorie per discriminare la qualità morale dell’azione, terapeutica e umanitaria insieme, che si rivolge al morente. Le trasformazioni del morire nella nostra cultura ci forniscono stimoli e provocazioni per far emergere dal patrimonio sapienziale cristiano contributi nuovi e più creativi. Questo processo di ampiamente di orizzonti ― sia detto per inciso ― corrisponde esattamente agli obiettivi che il Vaticano II attribuisce alla teologia morale, in quanto destinata a «illustrare l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di portare frutto nella carità per la vita del mondo» (OT 16: EV 1/808).

I problemi etici non si concentrano solo sul momento della morte, ma su tutto il periodo che la precede. Se questo non

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acquista il senso di «vita da vivere» fino all’ultimo istante, acquisendo qualità umana, i problemi dell’eutanasia diventano insolubili. Senza un progresso significativo nella gestione della vita terminale, l’eutanasia rischia di apparire a molti come la sola soluzione umana a una situazione intollerabile.

Tra i compiti sapienziali prioritari dell’etica cristiana abbiamo indicato il discernimento della volontà di morire. La saggezza consiste nel trovare il giusto punto di flessione, che corrisponda alla dinamica intrinseca al flusso stesso della vita. Ciò dovrà avvenire né troppo presto, né troppo tardi. Quando la volontà di vivere fosse debilitata da cause contingenti removibili, il fratello in pericolo va sostenuto (secondo le parole del poeta St. John Perse: «Et si un homme auprès de vous vient à manquer à son visage de vivant, qu’on lui tienne de force la face dans le vent»). Ma quando, al contrario, il naturale movimento verso la morte, che può diventare anche un’esplicita «volontà di morire» ― almeno nel senso dell’accettazione dell'inevitabilità della propria fine ―, fosse ostacolato artificialmente, il fratello morente va aiutato ad appropriarsi del suo destino, fino a vedere in esso una chiamata del Signore della vita. In questo compito chi assiste i morenti può rischiare di scontrarsi con l’organizzazione medico-ospedaliera del morire, centrata sulla negazione della morte e sul prolungamento forzato della vita biologica.

L’«ethos» dell’uomo contemporaneo nei confronti della morte è costruito intorno a due punti: il controllo di essa e l’eliminazione del dolore, compreso il dolore morale di rendersi conto di star morendo. Questa antropologia ha eliminato due dimensioni molto valorizzate in passato, specialmente in ambito cristiano: la morte come «pathos» (una passività di valore positivo, come occasione della crescita umana suprema); il dolore come prova, che acquista significato attraverso la simbolizzazione (croce) e l’etica (accettazione). Gli eccessi di queste posizioni, identificabili nel provvidenzialismo e nel dolorismo, andavano corretti, ma senza evacuare i valori sottesi. Riproporli, può essere il compito profetico dell’etica cristiana del morire adatta al nostro tempo.

NOTE

1 Una documentata denuncia di queste pratiche, che possono essere definite un’eutanasia «strisciante», si trova in P. Verspieren, Sur la pente de l’euthanasie, in «Études», (1984), gennaio, pp. 43-54. Sui problemi etici che sorgono in rapporto a trattamenti del dolore che mirano a sopprimere la coscienza, si veda ancora Id., Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, tr. it. Milano, 1985, p. 129s.

2 La condizione del morire nella nostra civilizzazione è stata ampiamente studiata dal punto di vista della storia, della sociologia, dell'antropologia culturale. Le opere di Ph. Ariès, L.-V. Thomas, J. Ziegler, e numerosi altri studiosi, fanno parte ormai di una sub-disciplina a cui è stato attribuito il nome di «tanatologia». In merito alla condizione psicologica e sociale del morente ci limitiamo a un’unica citazione: N. Elias, La solitudine del morente, tr. it. Bologna 1985.

3 Il documento redatto dalla Commissione episcopale dell’episcopato francese, Vie et mort sur commande, è riportato da «La croix», il 22 novembre 1984.

4 Per il giuramento di Ippocrate, cf. Documenti di deontologia e etica medica, a cura di S. Spinsanti, Milano 1985, p. 19s. L’analisi filologica, storica e contenutistica più completa è quella di C. Lichtenthaeler, Der Eid des Hippokrates. Ursprung und Bedeutung, Köln 1984.

5 La Guida europea di etica e di comportamento professionale dei medici è riportata in Documenti di deontologia..., pp. 62-72.

6 Problemi etici posti oggi dalla morte e dal morire, a cura del Segretariato della Conferenza episcopale francese. Il documento è riprodotto integralmente in Umanizzare la malattia e la morte, a cura di S. Spinsanti, Roma 21980.

7 Dichiarazione della s. Congregazione per la dottrina della fede sull'eutanasia, in «L’Osservatore Romano», 27 giugno 1980, ora in EV 7/346ss.

8 Secondo p. Perico, la distinzione tra eutanasia attiva e passiva serve solo a creare equivoci, in quanto non sono altro che «due modalità di un’unica intenzione e di un identico progetto di soppressione di una persona»; cf. G. Perico, Problemi di etica sanitaria, Milano 1985, p. 114s.

9 Pio XII, Discorso del 24.2.1957, in AAS 49 (1957), p. 147.

10 Un’esauriente rassegna della letteratura etica che adotta come criteri la «santità» e la «qualità» della vita si può trovare nel saggio di A. McCormick, The quality of life, the sanctity of life, in In libertatem vocati estis, (Miscellanea B. Häring), Roma 1977, pp. 625-641.

11 L’ultimo richiamo in tale senso, in ordine di tempo, è quello contenuto nella dichiarazione sull’eutanasia (1980): «La morte volontaria, ossia il suicidio, è inaccettabile al pari dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore».

12 Anche il documento della s. Congregazione per la dottrina della fede concede che «talvolta intervengano dei fattori psicologici che possono attenuare o addirittura togliere la libertà».

13 Da un punto di vista psicologico la «naturale» aspirazione alla morte è stata difesa dalla corrente junghiana, che vede nella morte una tappa del processo di autorealizzazione del Sé: cf. M.-L. von Franz, La morte e i sogni, tr. it. Torino 1986.

14 Valore esemplare in tale senso possiamo attribuire alla testimonianza fornitaci da P. Noll, Sul morire e la morte, tr. it. Milano 1985. Di fronte alla diagnosi di un cancro metastatizzato alla vescica, Noll preferisce le metastasi al differimento meccanico della morte. «“Speranza” ― annota lucidamente ― per i medici appare essere qualsiasi possibilità di prolungamento della vita. Io ho un altro concetto della speranza» (p. 50). Rifiuta l’operazione per non finire nella macchina chirurgico-radiologica, che gli avrebbe fatto perdere pezzo a pezzo la sua libertà: «Se avessi consentito all’operazione sarei diventato un paziente, mi sarei adeguato definitivamente nel ruolo di paziente per il resto della mia vita. Così invece non sono un paziente; non sono sanissimo, sono anzi mortalmente malato, ma non sono un paziente» (p. 104). Sperimenta così che la vita è più umana se la si vive così com’è, limitata nel tempo. Nella post-fazione al libro autobiografico lo scrittore Max Frisch mette in evidenza come la decisione di Peter Noll sia stata segretamente ispirata dall’essere Noll un «cristiano disobbediente», nel senso in cui Gesù stesso è stato disobbediente ai poteri costituiti del suo tempo. La testimonianza di uomini liberati, che osano sapere quello che sanno circa la morte, svolge un ruolo critico nei confronti del rituale medico-tecnico del morire, uno dei poteri odierni che nessuno osa mettere in discussione.