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Sandro Spinsanti
L’EUTANASIA E I PROBLEMI ETICI DEL MORIRE
in Medicina sociale
vol. 34, n. 3, luglio-ottobre 1984, pp. 81-83
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Il dibattito sull’eutanasia è spesso viziato da sottili malintesi: si crede di parlare della stessa realtà, ma di fatto ci si riferisce a situazioni diverse. Il termine è una di quelle «parole — attaccapanni», alle quali ciascuno attribuisce un particolare significato. I vescovi francesi, in un loro documento sui problemi della morte e del morire dal punto di vista dell’etica, richiamavano l’attenzione proprio sull’ambiguità della parola e sulla necessità di tenere separati i diversi problemi per i quali si ricorre al termine eutanasia. Il documento indica almeno sei ambiti diversi: l’«addolcimento» degli ultimi momenti della vita del malato (secondo il significato etimologico della parola); la lotta contro la sofferenza, che può comportare il ricorso ad analgesici che fanno perdere coscienza al malato; il prolungamento della vita ad ogni costo, correlato con il problema dell’astensione terapeutica (è il «lasciar morire», che alcuni preferiscono chiamare eutanasia passiva); la soppressione dei «tarati» per ragioni eugeniche, come è stata praticata durante il Terzo Reich; la costatazione della morte, malgrado le apparenze della vita; e infine il mettere deliberatamente fine alla vita di una persona, su richiesta esplicita o presunta di quest’ultima. Il dibattito acquisterebbe il pregio della chiarezza se si parlasse di eutanasia solo in quest’ultimo caso, utilizzando per le altre situazioni designazioni specifiche.
Quand’anche si giungesse a quest’uso ristretto del termine, i problemi semantici dell’eutanasia non sarebbero terminati. Anche dietro la domanda esplicita, infatti, ci può essere un’altra richiesta. Lo afferma Cecily Saunders, la fondatrice del St. Christopher’s Hospice e una delle maggiori autorità in merito alla cura dei malati in fase terminale. A suo avviso, la domanda «fatemi morire» contiene implicitamente un altro tipo di richiesta, che va decodificato come «occupatevi di me e alleviate il mio dolore». Tant’è vero, che quando questo aiuto viene effettivamente dato, la domanda di eutanasia non è più avanzata.
Se questa è la situazione linguistica dell’eutanasia dal punto di vista della denotazione, ancora più delicati sono i problemi connessi col suo significato connotativo. Ogni parola, infatti, suscita tutto un insieme di idee e sentimenti correlati, una costellazione di significati difficili da definire con esattezza e fortemente colorati di esperienza individuale: è questo il suo significato connotativo. Possiamo parlare, a tale riguardo, di fantasmi evocati dalla parola eutanasia. Uno dei frequenti è quello della diga che si rompe. La diga è un’immagine della barriera costituita dalla legge e dalla morale contro lo scatenamento degli istinti e la disgregazione sociale. Dopo l’accettazione dell’aborto — temono molti — la prossima falla nella diga sarà la legalizzazione dell’eutanasia! Una società centrata sui valori efficientistici e produttivi trova sempre maggiore difficoltà a giustificare investimenti che non siano compensati da benefici. L’assistenza delle legioni crescenti di vecchi in una popolazione in rapida senescenza fa parte delle perdite secche. E se dopo una certa età la medicina si limitasse alle cure palliative, rinunciando ad impiegare la sua vasta — e costosa! — panoplia per prolungare delle vite diventate infruttuose? La questione comincia ad essere sollevata, per ora come un semplice ballon d’essai. Sullo sfondo si delinea, con il profilo di forni crematori, il programma eugenetico nazista di eliminare le «vite non degne di essere vissute» («lebensunwerte Leben»). Per rafforzare la diga contro i tempi di ferro incombenti, alcuni ritengono che sia necessario ribadire
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il «no» all’eutanasia, un «no» energico e assoluto, senza alcun cedimento nei confronti dei nuovi barbari, senza ascoltarne le ragioni umanitarie o utilitaristiche.
Un secondo fantasma che turba il dibattito sull’eutanasia è la paura di diventare vittima dell’ostinazione medica. È entrato nell’uso parlare a tale proposito di «accanimento terapeutico». Forse è opportuno distinguere l’accanimento dall’ostinazione. L’accanimento può essere richiesto e giustificato dalla professione medica: la vittoria sul male domanda talvolta una lotta con tutte le energie dell'intelligenza e della volontà. L’ostinazione terapeutica è invece una deformazione del sano accanimento. Il medico che vi soggiace considera come suo dovere esclusivamente quello di prolungare il più possibile il funzionamento dell’organismo del paziente, in qualsiasi condizione ciò avvenga, e ignorando qualsiasi altra dimensione della vita umana che non sia quella biologica. In questi casi, tenere in vita per qualche giorno o per qualche ora in più un paziente terminale diventa per il medico un punto d’onore; e il paziente deve quasi conquistarsi la sua morte, lottando contro l’ostinazione del medico. Il prezzo è quello di una somma inenarrabile di sofferenze supplementari, tanto per il morente quanto per i suoi familiari. Questa situazione nuova del morire ha indotto a coniare un neologismo per qualificarla: «distanasia», cioè una deformazione violenta e strutturale del processo naturale del morire, una volta che sia stato intensivamente medicalizzato. Chi parla di accanimento terapeutico in questi casi tradisce l’impressione che il medico, ostinandosi a guarire, in realtà si accanisca contro il malato! Tale tipo di medico del tutto inappropriatamente può richiamarsi all’ethos ippocratico che mobilita il sanitario sul fronte della vita, contro la morte. Quello che è prodotto dall’ostinazione terapeutica moderna è ancora vita umana? L’impegno deontologico di operare a favore della vita può diventare un facile paravento dietro a cui si nascondono l’insensibilità e una visione antropologica angusta.
Il fantasma del medico ostinato a prolungare la vita vegetativa induce alcuni a contrapporgli la rivendicazione di un «diritto a morire» e a fondare associazioni del tipo «Exit» o «A.D.M.D.» (Association pour le Droit de Mourir dans la Dignité). Il giurista ha gioco facile nel dimostrare l’inconsistenza di un simile diritto. Restano da decifrare le implicazioni di un movimento così vivace per la «riappropriazione della morte». Quando il diritto a morire viene rivendicato come fondamento dell’eutanasia, siamo autorizzati a vedervi una protesta contro il medico che soggiace alla «libido sanandi», e che non accetta la morte del paziente, in quanto vi vede la smentita delle sue fantasie inconsce di onnipotenza. Se non ci vogliamo trovare costretti a difenderci dai medici, bisogna che venga assimilato il principio che l’accresciuto arsenale di mezzi terapeutici non crea con ciò stesso l’obbligo normale di utilizzarli. Non sempre in medicina è lecito fare tutto quello che si è in grado di fare. Il criterio ultimo per il discernimento è sempre e ancora l’uomo, ovvero la qualità della sua vita.
Un terzo fantasma deve essere ancora nominato. Possiamo chiamarlo il fantasma dell’«esperto». L’esperto del morire è una figura nuova accanto al malato grave. Occupa il posto che in passato spettava al medico e/o al sacerdote: un posto che è rimasto clamorosamente vacante. Il personale sanitario tende a diradare le visite presso il malato per il quale «non c’è più niente da fare». A questo punto, in passato, in un contesto di religiosità tradizionale, subentrava il sacerdote, che offriva il suo ministero per disporre il paziente alla «buona morte». La congiura del silenzio intorno al malato grave ha reso precaria anche la presenza del sacerdote. Chiamarlo a tempo debito equivarrebbe a una pratica ammissione che non c’è più speranza di guarigione. Per questo si rimanda a quando il malato non ha più coscienza. Col risultato che i sacerdoti disertano sempre più spesso una presenza che non ha più un significato, relazionale e comunicativo, essendosi trasformata in una formalità senza spessore umano ed evangelico. Il posto rimasto vuoto accanto al morente si tende ad attribuirlo al «tanatologo». La delega all’esperto dell’assistenza al morente sarebbe un passo ulteriore verso la disumanizzazione del morire. Implicherebbe la completa divaricazione tra le due dimensioni dell’attività medica, che in inglese sono chiamate, con significativa assonanza, to cure e to care, curare e prendersi cura. Qualora la divaricazione fosse avallata, di diritto e di fatto, la professione medica perderebbe la sua qualificazione umanitaria e la soluzione dei problemi posti dall’eutanasia sarebbe ancora più lontana.
Il rifiuto di delegare a degli esperti la gestione della fase terminale non equivale a una
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svalutazione delle conoscenze sul vissuto del morire di cui siamo debitori agli studiosi delle scienze umane che hanno negli ultimi anni incentrato la loro ricerca sulla morte e il morire. Valga per tutti il riferimento agli studi della dott.ssa Kübler-Ross sulle fasi del morire e sui diversi bisogni emotivi del paziente a seconda della fase che sta attraversando. Si sta delineando una nuova cultura della morte, che intende rompere il tabù caduto su questo segmento dell’esperienza umana. Solo se la morte torna ad essere un oggetto di discorso si può reagire efficacemente alla rarefazione dei rapporti umani che affligge oggi il morire.
La cura di un malato terminale pone e porrà sempre delicati problemi etici, perché il dosaggio tra medicina scientifica e medicina umana non può essere fissato una volta per tutte e deve essere sempre di nuovo riaggiustato. In quali casi e a che punto bisogna porre termine alla lotta terapeutica e «lasciar morire» il paziente? Il peso di questa decisione si può trasformare addirittura in angoscia decisionale. Il medico può cercare di liberarsene passando la patata bollente ad altri: al magistrato, allo psicologo, al comitato etico... Ma una decisione giusta e umana non si avrà finché si cercherà con tutti i mezzi di escludere il morente stesso dalla conoscenza di ciò che lo riguarda.
Le alternative sono non solo auspicabili, ma possibili. Ed è compito dell’etica, oltre che riaffermare i principi, anche indicare dei modelli. Quello che si sta facendo nel mondo anglosassone per umanizzare il morire costituisce un’alternativa praticabile all’eutanasia. Mi riferisco alla pratica degli hospices, della cui funzione si può leggere una limpida testimonianza nel libro di R. e V. Zorza, Un modo di morire.
Il modello può difficilmente essere trasposto tale e quale nel nostro contesto culturale. Saranno necessarie revisioni ed adattamenti. Ma la strada da percorrere è quella: prevenire l'impasse che offre come via di uscita solo la morte per eutanasia, stabilendo una rete di rapporti in cui alla persona del malato spetti sino alla fine il ruolo da protagonista.