Perchè dobbiamo curare l’ammalato cronico?

Sandro Spinsanti

PERCHÉ DOBBIAMO CURARE L'AMMALATO CRONICO?

in Il nursing della cronicità

Atti del IV Corso Nazionale per Infermieri Professionali

Folgaria (TN), 24-27 settembre 1992

pp. 9-16

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Perché dobbiamo curare i malati cronici? In particolare: perché dobbiamo prenderci cura delle schiere crescenti di malati di Alzheimer, ai quali possiamo assicurare un prolungamento della vita, ma non certo quella qualità di esistenza che la maggior parte delle persone ritiene auspicabile per sé? Giustificare la cura rivolta a questo tipo di malati è una sfida a diversi livelli: personale, istituzionale e sociale. Vi è confrontato il singolo operatore, la casa di cura e la società nel suo insieme.

È più probabile che in prima istanza emergano piuttosto i problemi relativi al “come” che gli interrogativi che ruotano attorno al “perché”. Non c’è solo il ”come” tecnico (“Come medicare o prevenire le piaghe da decubito?”; “Come alimentare un malato demente che rifiuta il nutrimento?”; “Come stroncare una polmonite che sopravviene nella fase terminale di una malattia?”), ma anche un “come” che si apre sull’orizzonte dell’etica: su ciò che è bene o male, doveroso o no, utile o futile, appropriato o sproporzionato rispetto ai fini che ci proponiamo.

Intuiamo vagamente che tra il “come” e il “perché” esistono connessioni profonde. Proprio perché talvolta sentiamo che non abbiamo delle indicazioni valide circa la giusta misura ― ovvero, quello che facciamo nei confronti del singolo malato pecca per difetto o per eccesso, si avvicina all’«accanimento terapeutico» o assomiglia a un ingiustificabile abbandono ― ci poniamo l’interrogativo di fondo: perché dobbiamo curare il malato che non guarisce? Quali sono i nostri obblighi morali verso i malati cronici?

Lasciando sullo sfondo gli interrogativi del "come” relazionati all’etica clinica, rivolgiamo il nostro interesse alla giustificazione della cura del malato nella fase crepuscolare dell’esistenza, quando spesso la ragione si è spenta e l’individuo appare vegetare in attesa della fine. Siccome questa azione di assistenza e cura domanda tempo, risorse materiali e consuma le migliori energie di colui che presta le cure, questi è obbligato a darsene una ragione. Questa si situa nell’interfaccia tra noi e noi stessi, nel foro interiore della coscienza. Le risposte saranno diverse, così come diverse sono le persone e le motivazioni più profonde che guidano l’azione. Possono estendersi dalla ”pietas” filiale alla imitazione evangelica del servizio messianico rivolto ai più

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bisognosi, a quegli “ultimi” che nella gerarchia del Regno di Dio diventano “i primi”; senza dimenticare quella solida motivazione che si può ricondurre alla coscienza professionale: la consapevolezza che essere medico o infermiera o terapeuta della riabilitazione di un malato cronico è una buona professione, che si può esercitare con fierezza e con soddisfazione, con utilità propria e altrui, impiegandovi mani, cuore e creatività intellettuale.

Per quanto solide siano le ragioni che possiamo dare a noi stessi, dobbiamo anche giustificare socialmente la cura dei malati cronici. Argomentare con ragioni che non siano comprensibili solo all’interno di un orientamento etico e spirituale particolare (come rimane pur sempre anche la più ammirevole abnegazione che si ispira allo spirito del Vangelo), ma che siano condivisibili ampiamente all’interno della società civile.

Un avvio della riflessione in questa direzione può essere fornito da un’opera letteraria: il romanzo breve di Italo Calvino La giornata di uno scrutatore. Pubblicato nel 1963, riflette di fatto delle esperienze autobiografiche dello scrittore maturate nel corso di un paio di convocazioni elettorali precedenti, durante le quali aveva svolto la funzione di scrutatore di un seggio creato in un ospizio di Torino, il Cottolengo. Per il giovane intellettuale di sinistra il cronicario è un luogo non abituale. Anzi, quello che si vede sfilare davanti nel corso di quella ideale giornata è così sconvolgente che deve rimettere in discussione le proprie certezze ideologiche. All’inizio queste sono sufficientemente solide per comprendere e spiegare quello che avviene dietro quelle mura. Al suo sguardo non sfuggono le miserie dei religiosi e delle religiose che si dedicano all’assistenza caritatevole di quegli sventurati (i quali servono come serbatoio di voti a un determinato partito politico...). Ma mentre altri scrutatori del suo stesso orientamento ideologico si irrigidiscono a difendere la legalità, mano mano che si scendono i gironi di quell’inferno e le tristi figure che emergono perdono progressivamente i tratti dell’umanità, Calvino si lascia sempre più portare dal monologo interiore al di fuori del proprio quadro di riferimento. Quel “parvum” ― quei resti scomodi e dubbiosi di esseri umani di cui la società si libera affidandoli alla carità di alcuni, quegli “errori” della natura a cui neppure la più trionfalistica delle ideologie sociali può presumere di trovare una risposta soddisfacente ― si rivela un “magnum” che lo interroga in quanto cittadino e in quanto uomo. L’io narrante si rende conto progressivamente di quanto sia parziale quell’etica progressista costruita sulla centralità dell’uomo razionale e della classe lavoratrice, ma incapace poi di rendere conto di ciò che avviene ai suoi margini, dove la coscienza si obnubila e l’individuo non è più funzionale al corpo sociale.

Il clima narrativo è raggiunto dall’episodio in cui è presentato un contadino, padre di un ragazzo, debole mentale profondo. Ogni settimana, la domenica, il padre va a trovare il figlio, gli dà da mangiare, passa il tempo a guardarlo masticare. Quella comunione che si realizza in una regione della coscienza che

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sembra preclusa alla ragione e tuttavia non priva di reciprocità, si impone al giovane intellettuale come un ”mysterium magnum”.

“Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto ― sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto ― in modo da continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.

Esce dal Cottolengo, alla fine della giornata elettorale, con meno certezze di quando vi è entrato, ma con l’abbozzo di una riflessione esigente nata attorno all’interrogativo: ”Perché occuparci di questa umanità cronica demente?”. La riflessione che suggella il punto d’arrivo della sua meditazione ruota attorno all’essenziale: “La città dell’homo faber rischia di scambiare le sue istituzioni per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano né le ruote delle macchine vengono messe in moto; e nel difendere le istituzioni, senza accorgersene può lasciar spegner il fuoco”.

L’orizzonte più ampio che ci propone il letterato comprende gli interrogativi specifici propri del filosofo morale (quali criteri dobbiamo adottare per tirare il confine tra il lecito e l’illecito, il doveroso e il gratuito, il troppo e il troppo poco nella cura di questi malati?), del sociologo e dell’economista sanitario (qual è la riposta ”sostenibile” che possiamo permetterci, considerando la limitatezza delle risorse e la crescita a valanga della domanda di assistenza a malati cronici nei paesi a profilo demografico prevalentemente geriatrico?). Ed è proprio sullo sfondo di questo orizzonte più ampio, tipico dell’etica civile, che cerchiamo di articolare qualche risposta alle domande più fondamentali che affiorano quando cerchiamo di giustificare la cura fornita a persone nelle quali balugina appena qualche resto di coscienza, o è addirittura spenta del tutto.

Se cerchiamo di formulare queste domande con il linguaggio comune ― lasciando ai filosofi, ai sociologi e ai letterati di esprimersi con il linguaggio che è loro proprio ― dovremo cominciare con l’interrogativo più fondamentale di tutti: ”È naturale? È naturale farsi carico di coloro che sono, senza l’aiuto altrui, sotto lo standard della sopravvivenza?”.

Se prendiamo come punto di riferimento ciò che la natura fa, spontaneamente, dobbiamo riconoscere che non è naturale. In natura queste persone sono destinate a soccombere: la logica dell’efficienza che sottende i processi naturali non è compatibile con il peso costituito dal prendersi cura di chi non può prendersi cura di se stesso, oltre i limiti cronologici necessari per uscire dallo stato di dipendenza dell’infanzia.

È “innaturale”, dunque, farci carico degli anziani dementi. Ma c’è una “innaturalità” che costituisce per gli esseri umani la più alta ragione di fierezza.

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Ne possiamo trovare un’eco nel romanzo di Antoine de St. Exupéry: Terre des hommes. Tra i vari modelli di etica eroica ivi riportati, attira la nostra attenzione la storia di un aviatore. Un incidente aereo lo aveva fatto precipitare nelle Ande, in una regione innevata e sperduta. Le squadre di soccorso lo cercano per giorni, senza risultato. Trascorso il tempo ragionevole di sopravvivenza, abbandonano le ricerche. Ma, al di là di ogni speranza, l’aviatore torna. Ridotto in uno stato indescrivibile: aveva camminato ininterrottamente giorno e notte, perché era consapevole che, se si fosse fermato, sarebbe morto congelato. Agli amici stupefatti commenta la sua avventura con una sola frase: “Ho fatto quello che nessun animale avrebbe mai fatto”.

Possiamo adottare l’affermazione, con legittima fierezza, come stemma nobiliare dell’umanità: “Nessun animale fa quello che facciamo noi con i malati cronici e con i dementi”. Il nostro modo umano di essere animali è di non obbedire alle leggi di natura, di penetrarla con l’intelligenza, resisterle con la volontà, modificarla e superarla con la tecnica. La cronicità pone una sfida intellettuale al sapere biologico e all’azione clinica, sollecitandoci a capire i fenomeni e a rispondervi in modo più efficace. Una sfida di non minore entità è rivolta alla nostra capacità di rinsaldare i legami che permettono di tenere nella comunità degli uomini quelli che la degenerazione dei processi biologici tenderebbe a escludere.

Rivendichiamo come un privilegio della capacità etica dell’uomo la volontà di impegnarci per prolungare la vita di persone che, se fossero lasciate senza aiuto alla dura lotta per la sopravvivenza, avrebbero sicuramente partita persa. Ma questo impegno non rischia di essere disumano? Con questa domanda ci inoltriamo nel secondo degli interrogativi fondamentali che intendiamo affrontare.

È “umano” o “disumano” prolungare la vita oltre un certo limite? Apriamo un capitolo immenso e intricato, perché non esiste un modo unico e universale per valutare ciò che è umano. Diverse civiltà, in differenti epoche storiche e orizzonti antropologici, hanno dato risposte diverse alla domanda. Anche rimanendo nella scia della tradizione culturale che è propria dell’Occidente, può essere sorprendente scoprire che per la stessa etica ippocratica non era “umano” occuparsi dei malati che non sono destinati alla guarigione. Nella prospettiva della grande etica di Platone e Aristotele era biasimevole dedicare le risorse mediche ai malati condannati: non era segno di filantropia, ma di mancanza di discernimento.

Il contrasto di opinioni su ciò che è “umano” aumenta quando ci spostiamo in contesti culturali molto lontani da quelli che ci sono abituali. Il confronto con una classica narrazione giapponese, brillantemente divulgata anche da un paio di versioni cinematografiche ― La ballata di Nayarama ― ci fornisce questo salutare estraniamento. La storia è ambientata in una comunità confinata in una regione montana chiusa agli scambi e così povera di risorse da essere costretta

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a una pura economia di sopravvivenza. Sopravvive solo se riesce a contenere, da una stagione all’altra, il numero delle bocche da sfamare.

Questa esigenza si è tradotta in una regola condivisa: quando un uomo o una donna della comunità raggiunge la vecchiaia ―cinquant’anni ― deve scomparire. La comunità non può permettersi di nutrirlo oltre l’età in cui produce per gli altri. Allo scadere della data, è compito del figlio caricarsi il padre o la madre sulle spalle e, nel silenzio totale che esprime l’esclusione dalla comunità dei vivi, portarlo sulla montagna sacra di Nayarama ed esporlo, in pasto agli avvoltoi. Abbandonare il genitore è un dovere di “pietas” filiale.

Il racconto si gioca sul dramma interiore di un figlio, che vorrebbe sottrarsi al dovere di portare la madre cinquantenne sulla montagna. La madre cerca di indurlo con ogni mezzo a rispettare la regola, che è economica ed etica insieme: anche rompendosi i denti con un sasso, per indicargli che è vecchia e che il figlio non deve farsi ingannare dall’aspetto... Lo spinge a farla morire, perché dalla morte di lei dipende la vita degli altri. Questa è la regola dell’umano che ha preso forma intorno alla montagna sacra di Nayarama.

Noi oggi diamo un’altra risposta all’interrogativo se sia umano abbandonare i malati cronici, i vecchi dementi: la risposta è esattamente contraria. Siamo eredi del cristianesimo e anche del razionalismo dell’epoca moderna, che ci ha educato a vedere nella persona umana un valore in sé. Riteniamo che tutti gli esseri umani sono meritevoli di uguale considerazione e rispetto: non perché producono o hanno un valore di utilità per la società, ma semplicemente perché sono uomini.

La risposta alla domanda “Che cosa è umano?” non è data una volta per tutte. Si costruisce lentamente e faticosamente, nella storia. I condizionamenti dell’economia svolgono un ruolo non secondario nella sua strutturazione. Oggi come ieri. Dalle parti di Nayarama come nelle società del mondo tecnologico.

Certo, in modo diverso. Tuttavia è innegabile che stiamo vivendo un periodo di trapasso, che ha ripercussioni profonde sul modo di concepire i nostri doveri dei confronti della vita. Dobbiamo rinunciare all’euforia di una cultura che si pensava nell’orizzonte di uno sviluppo illimitato. Il modello della ”affluent society” era alla base del nostro modo di pensare la sanità e l’assistenza. Eravamo legittimamente fieri di essere usciti da una cultura della pura sopravvivenza. L’abbondanza ci permetteva, nel quadro di una politica di welfare state, di prenderci cura di tutti, di promettere assistenza in base al bisogno, non in misura della capacità economica di pagare i servizi.

Non si può negare un alto profilo morale al progetto di farsi carico di tutti, quindi anche di assumere il peso schiacciante costituito dai malati cronici. Il progetto ha solo il difetto non trascurabile di non poter essere realizzato. L’euforia legata alla prospettiva del progresso illimitato è morta probabilmente quel giorno del 1973 in cui siamo stati costretti a lasciare ferme le macchine e ad andare a piedi. Era festosa, quella domenica; ma era anche carica di una svolta

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epocale. Ci rendevamo conto che il petrolio non è un bene inesauribile, così come non lo sono le risorse non rinnovabili. Dovevamo introdurre nel nostro modo di progettare la vita un concetto che avevamo eliminato: quello del limite.

Come sottoesistenza di questa società che aveva abolito il concetto di limite c’era anche una medicina ottimista sulla possibilità di sconfiggere tutte le malattie, di prevenirle, di prolungare la vita umana. Reintrodurre il limite non è un ripiego, né implica l’ammissione di una sconfitta dell’utopia da parte dell’economia. Ripensare la vita come limitata è, piuttosto, una necessità suggerita dalla saggezza antropologica. Ci rendiamo conto che, se non adottiamo un modello di vita umana che si svolge nell’arco di un ciclo naturale ― nasce, si sviluppa, raggiunge la maturità, poi decade e va incontro alla fine inevitabile ― non miglioriamo la vita, ma ne produciamo una deformazione. La quale, oltretutto, è dolorosa: prolungando indebitamente la vita, moltiplichiamo le sofferenze, le disuguaglianze e le ingiustizie.

A questo punto si affaccia un altro degli interrogativi elementari, sul cui filo stiamo sviluppando la nostra riflessione: “È giusto quello che noi facciamo per i cronici?”. Dopo aver difeso, con la perorazione più accalorata possibile, l’impegno "innaturale” a prenderci cura di coloro che non sono capaci di provvedere a se stessi, e dopo affermato con vigore che nella nostra cultura il minimo etico da tutelare è quello che prescinde da una considerazione di utilità, ma richiede piuttosto per tutti gli esseri umani uguale considerazione e rispetto, dobbiamo tuttavia porci degli interrogativi che vanno anche in altre direzioni.

La nostra sicurezza nell’affermare i grandi e universali principi fa posto all’esitazione quando ci domandiamo se la nostra pratica riflette, di fatto, la giustizia. La nostra medicina è efficace, tecnologicamente raffinata e, di conseguenza, molto costosa. Per pagarcela, noi abbiamo preso anticipi dalle generazioni future, e abbiamo lasciato a loro il conto da pagare. Viviamo, di fatto, nella pratica della medicina come in tanti altri aspetti della nostra vita sociale, al di sopra delle nostre possibilità, a spese di altri. Non c’è una giusta distribuzione di pesi e di vantaggi tra le generazioni; la bilancia non è equa.

Già oggi possiamo vedere, in piccolo, come è destinata ad agire questa ingiustizia. In molte famiglie ci sono armadi pieni di medicine, perché pensavano che il farmaco fosse un bene illimitatamente disponibile. Presto, quando coloro al di sopra di una fascia di reddito non avranno più la copertura sanitaria totale, ci sarà scarsità in molte famiglie. E sarà una scarsità che affonda le radici in uno spreco precedente. Estendendo questo paradigma a scala mondiale e al rapporto tra le generazioni, abbiamo un’immagine viva di come agisce, in pratica, l’ingiustizia che è connaturata al nostro benessere.

Quella dell’iniquo monopolio delle risorse da parte della generazione presente rispetto a quelle future non è l’unica forma di ingiustizia. Acuendo il nostro sguardo, ne potremmo riconoscere anche un’altra, molto diffusa: l’ingiusta distribuzione dei pesi tra maschi e femmine. Quello che fanno le figlie nei

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confronti della cura e assistenza dei malati cronici è enormemente di più di quello che fanno i figli.

La divisione di compiti sulla base del sesso che poteva essere accettabile in passato, in un’altra situazione demografica caratterizzata da famiglie numerose e allargate, non è più difendibile oggi. Dobbiamo ridistribuire il carico dell’assistenza dei cronici indipendentemente dal sesso.

La stessa sensibilità è necessaria nei confronti dell’equilibrio tra il pubblico e il privato. Sempre di più emerge la tendenza a scaricare sul privato familiare un peso che la società, attraverso le istituzioni pubbliche, non vuol portare. Il coinvolgimento delle famiglie è sacrosanto. Ma quando la struttura pubblica si rivolge al cittadino dicendo: “Questo è suo padre, questa è sua madre, in stato di malattia cronica; noi non possiamo fare più niente: se lo porti a casa”, questo assomiglia di più a un lavarsene le mani.

La giustizia, quindi, ha numerose facce: comprende i rapporti tra le generazioni successive, tra uomini e donne all’interno di un nucleo familiare, tra pubblico e privato. Ma anche un’altra dimensione: è giusto non solo ciò che implica una equa distribuzione, ma anche ciò che rispetta “la giusta misura”.

Nella cura dei malati cronici questa preoccupazione per la giustizia si affaccia sotto forma di legittima preoccupazione di trovare l’equilibrio tra il troppo e il troppo poco. La misura giusta è quella che fa proprie le esigenze della "giustezza”, oltre che quelle della giustizia. È la misura che non pecca né per difetto, né per eccesso; che non abbandona il cronico bisognoso, ma che neppure travalica nell’«accanimento terapeutico».

Con quali criteri stabilire la "giustezza” del nostro intervento di cura e assistenza dei cronici? Un nuovo scenario si va profilando. Per determinare la buona misura non possiamo più affidarci al discernimento clinico del medico e alle regole tradizionali della deontologia professionale. Queste erano appropriate a situazioni in cui la medicina non era potente quanto lo è oggi. Nella situazione attuale può non corrispondere più al desiderio soggettivo e al rispetto oggettivo della dignità della vita un’azione tutta modulata sulla lotta contro la malattia e il prolungamento a oltranza dell’esistenza. Quello che può essere appropriato in una situazione acuta, rischia di essere sproporzionato quando si tratta di un intervento sulla cronicità.

Nello stabilire la giusta misura tra intervento e astensione, all'interno di un’azione che si struttura entro un orizzonte di intrinseca limitazione, bisogna oggi tener conto anche dei valori, delle preferenze e dell’autodeterminazione della persona. Inoltre il discernimento proprio della professione medica non è il solo: quello che è in grado di esprimere un infermiere può esser talvolta ancor più appropriato. L’infermiera, che vive più a contatto con il malato cronico, conosce i suoi orientamenti di vita e le sue scelte di valore, può sapere meglio del medico quando si rischia di infrangere, per eccesso o per difetto, la “giustezza” dell’intervento. Si tratta di un vero e proprio assessment: non

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medico o di nursing, ma un assessment etico.

Questo non è proprietà esclusiva di nessuna professione, ma presuppone piuttosto una collaborazione attiva delle professioni; non può essere imposto al malato (o a chi lo rappresenta, in caso di incapacità), ma va elaborato insieme a lui; esige una rinegoziazione sociale dei fini e dei limiti della nostra medicina. È questo cambiamento di paradigma che si intende descrivere quando si parla di un passaggio dall’etica medica alla bioetica. Tutti coloro che si prendono cura dei malati cronici hanno, a questo proposito, qualcosa da dire.

La giusta misura è difficile da trovare. Gli errori appaiono inevitabili. Ma cercando insieme è possibile diminuire gli errori; e soprattutto correggerli, quando attraverso il dialogo siamo giunti a riconoscerli.