
- Obtaining Consent from the Family: A Horizon for Clinical Ethics
- Paternità/Maternità e le sfide della bioetica
- Maschio e femmina: dall'uguaglianza alla reciprocità
- Essere uomo, essere donna alla svolta del decennio
- Il posto della famiglia nella forma delle cure
- La famiglia, per coniugare i verbi della vita
- La coppia e la complicità
CISF Centro Internazionale Studi Famiglia
Maschio e femmina: dall'uguaglianza alla reciprocità
a cura di Sandro Spinsanti
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990
pp. 5-22
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PRESENTAZIONE
ESSERE UOMO, ESSERE DONNA ALLA SVOLTA DEL DECENNIO
1. Il convegno nei programmi di lavoro del Cisf
Il convegno di studio, di cui questa pubblicazione raccoglie i principali risultati, non è nato da un’improvvisazione. Si situa in un punto di convergenza tra il piano delle attività precedenti e i progetti d’iniziative future del Centro Internazionale Studi Famiglia (Cisf), l’organismo che lo ha proposto.
Tra le attività di maggiore impegno del Centro il primo posto spetta indubbiamente al Rapporto sulla famiglia, una pubblicazione con cui il Cisf vuole periodicamente contribuire a leggere la situazione della famiglia nel complesso della realtà italiana. Il Primo rapporto sulla famiglia in Italia 1, a cura di Pierpaolo Donati e con i contributi di Bianca Barbero Avanzini, Gabriele Calvi, Vittorio Cigoli, Carla Collicelli, Paola di Nicola, Giuseppe De Rita, Ombretta Fumagalli Carulli, Giovanna Rossi Sciumè ed Eugenia Scabini, analizza la condizione familiare sotto diverse angolature: gli aspetti demografici e culturali, le problematiche della coppia e del matrimonio, il ruolo della donna e dell'infanzia, la famiglia in rapporto ai servizi sociali personali e al sistema economico, gli aspetti legislativi e giurisprudenziali.
I Rapporti curati dal Cisf si rivolgono in particolare a coloro che, volendo conoscere la società complessa in cui viviamo, diffidano
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delle scorciatoie semplicistiche fomite dai sondaggi d’opinione. Secondo la denuncia autorevole di Giuseppe De Rita, la Penisola è malata di supersondaggi: «Quella italiana ― precisa il presidente del Cnel ― è una società difficile da capire, e la capiremo solo se avremo complessa ambizione interpretativa, non brevi emozioni da sondaggio».
L’ambizione del Cisf è quella di fornire con il suo Rapporto uno strumento d’interpretazione sufficientemente sofisticato e attendibile, ma anche trasparente e leggibile, a ricercatori, docenti, studiosi, amministratori, politici e operatori. L’accoglienza riservata al Primo rapporto ci ha confermato di rispondere con quest’iniziativa a un bisogno sentito, e di averlo fatto in modo adeguato rispetto alle aspettative.
Una seconda attività del Cisf di carattere continuativo, più precisamente con cadenza annuale, è la serie dei convegni di studio rivolti agli operatori dell’ambito familiare, che s’interrogano sul cosa fare per la famiglia e, soprattutto, su come farlo. I nostri interlocutori sono consulenti familiari e di coppia, operatori pastorali, organizzatori dei servizi, insegnanti, dirigenti di movimenti e organizzazioni di categoria.
Sia dal Rapporto sulla famiglia sia dall’iniziativa dei convegni annuali abbiamo avuto indicazioni convergenti, che ci hanno indirizzato a focalizzare l’attenzione sul tema che è oggetto del presente convegno. Dal Primo rapporto sulla famiglia in Italia, infatti, è emersa la crisi profonda dello Stato sociale e la necessità, per superare l’impasse, di tornare a reinterrogare creativamente quelle potenzialità dell’uomo e della donna che sono implicite nella differenziazione sessuale stessa.
Se osserviamo la società dal punto di vista della famiglia, ci accorgiamo che la crisi, prima di essere economica e organizzativa, è culturale. La soluzione può venire solo da un orientamento sistemico, che ci faccia passare da uno Stato assistenziale a una società dei servizi o, piuttosto, a una caring society: una società che sa prendersi cura delle persone, in quanto sa per davvero, operativamente, riconoscere nella famiglia la forma di vita decisiva per la qualità dell’esistenza umana.
Questo passaggio alla caring society non avviene mediante una transizione lineare o un’evoluzione omogenea, ma assomiglia piuttosto a un cambiamento di paradigma o, se preferiamo, a un cambio di Gestalt, quando figura e sfondo si scambiano la
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rispettiva funzione. Nella caring society la maternità sociale diventa la figura dominante, che ristruttura tutto il campo percettivo. Ciò comporta una profonda revisione degli stereotipi legati all’identità maschile e femminile, dei rapporti di coppia e della modalità d’esercizio delle funzioni paterne e materne.
Anche dalla serie dei nostri convegni annuali ci sono giunte indicazioni precise nei confronti del tema che abbiamo scelto. Il convegno immediatamente antecedente a questo era dedicato a un’analisi delle esigenze qualitative della vita, seguendo la traccia fornita dalla coniugazione dei verbi forti della vita stessa: nascere, amare, morire 2. I risultati di quel convegno ci obbligavano a constatare il degrado delle modalità empiriche della nascita, della riproduzione e della fine della vita, o quanto meno la loro inadeguatezza rispetto alle esigenze di un modello umanistico. L’analisi della situazione, poi, ci conduceva a cercare le cause del disagio non solo nel processo di tecnicizzazione a cui sono sottoposti gli appuntamenti nevralgici della vita a opera di una medicina che ricorre sempre più alla tecnologia, ma soprattutto nel progredire di modelli di vita sociale postmoderna.
Il disagio ha radici profonde. Non è limitato al funzionamento delle strutture sanitarie e assistenziali, ma va ricondotto al rapporto con i valori che sostengono la cura della vita, dall’inizio alla fine. Abbiamo l’impressione che qualche cosa di essenziale si sia andato progressivamente smarrendo. L’affermazione ci fa tornare in mente l’immagine heideggeriana dei «sentieri interrotti» (Holzwege): quei sentieri che iniziano al limitare del bosco, con una promessa, e che finiscono per non condurre da nessuna parte... Per ritrovare la strada, dal convegno su «Nascere, amare, morire» ci veniva additata la famiglia come luogo in cui coniugare i verbi della vita, mediante la centralità sia etica sia antropologica del «prendersi cura».
Tanto dal Rapporto annuale quanto dai convegni precedenti è emersa l’indicazione convergente a rivisitare in modo sistematico questo nucleo dei rapporti umani, in cui il profilarsi di una caring society s’incontra con il «prendersi cura» che rende possibile la trasmissione della vita e ne assicura la qualità umana. È nato così il progetto di una trilogia, che, sotto il denominatore comune
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di maschio-femmina, prenda successivamente in esame l'essere al mondo in quanto uomo e in quanto donna, la progettualità della coppia e la realizzazione della cura nell’essere padre e nell’essere madre. Una rivisitazione fatta con la consapevolezza di trovarci in un periodo di cambiamenti rapidi e profondi e nel momento del passaggio da un decennio all’altro del secolo: momento, perciò, quanto mai opportuno per i bilanci. Vogliamo renderci conto con quale eredità degli anni Ottanta siamo entrati negli anni Novanta.
2. Il ciclo maschio-femmina
L’identità sessuale, la coppia, la genitori alita; ovvero: l'esserci, l'essere con, l'essere per. Ognuna di queste articolazioni dell’essere maschio o femmina ha i suoi problemi specifici, per cui ci è parso appropriato dedicare ai tre temi tre diversi convegni, a cominciare dal presente: «Dall’uguaglianza alla reciprocità». Tuttavia va subito detto che le tre tematiche non sono così nettamente separate, in modo che possiamo considerarne una prescindendo completamente dalle altre. Identità sessuale, coniugalità (o partnership) e genitorialità si sovrappongono, si richiamano circolarmente. Dobbiamo essere consapevoli che isolare un tema dal complesso è artificiale e può portarci a deformare la prospettiva. Anche concentrando il fuoco dell’attenzione sulle modificazioni culturali a cui nel mondo viene sottoposto il nostro essere in quanto donna o in quanto uomo, dobbiamo tenere presente quanto quest’identità si struttura in un rapporto di coppia e nell’esercizio di funzioni materne o paterne.
Né possiamo fare altrimenti. Per illustrare come sia inevitabile tenere insieme i tre aspetti, voglio citare le riflessioni dello psicanalista Jörg Bopp 3. Di per sé, la sua ricerca si è focalizzata sul terzo aspetto del nostro tema globale: le nuove modalità con cui vengono concretamente vissute la paternità e la maternità. Bopp ha eseguito una ricognizione dei nuovi padri e delle nuove madri, privilegiando la documentazione diretta, in particolare materiali
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scritti in cui i protagonisti dei nuovi stili di paternità e maternità esprimono se stessi. È stata una ricerca limitata, in quanto ha attinto la documentazione quasi esclusivamente dagli ambienti «alternativi» tedeschi, tra giovani coppie ideologicamente di sinistra. Pur con questa restrizione, che non ci permette una generalizzazione frettolosa dei risultati, il contributo di Bopp illustra efficacemente come i cambiamenti del modello di paternità e maternità siano influenzati dalla comprensione che gli uomini e le donne di una determinata cultura hanno del proprio sesso e dell’immagine che ciascuno si crea dell’altro, nonché dagli aggiustamenti reciproci che s’instaurano nella concreta vita di coppia.
Secondo Bopp, nel laboratorio sociale in cui si stanno sperimentando creativamente nuovi modelli due prototipi emergono sugli altri: le «madri androgine» e i «nuovi padri», che fondono nel proprio comportamento i tratti tradizionalmente attribuiti al padre con quelli propri della madre (Bopp li ha chiamati i mapà, abbreviazione di mammapapà). Il modello della madre androgina è elaborato dalle donne emancipate, che lottano contro il dominio maschile e tendono a contrapporre la maternità al ruolo paterno. Per descriverla con una battuta che circola tra gli ambienti alternativi ― che i tedeschi chiamano die Szene ― la donna veramente emancipata è quella che inganna il proprio uomo facendosi concepire un figlio a sua insaputa, lo lascia nel caso in cui la manovra abbia avuto buon esito e, dopo la nascita del bambino, si fa pagare gli alimenti...
L’ideologia della maternità adottata dalle madri androgine si sostiene su alcuni assunti ai quali viene attribuito il valore di evidenza. Il primo è che la donna non ha bisogno del partner maschile in funzione di padre: ella può svolgere ambedue i ruoli; è la terra che fa scorrere «latte» e «miele», cioè nutrimento e amore per la vita. A un’analisi psicodinamica, nell’«Io-ideale» della donna androgina si rileva una forte accentuazione del valore positivo della femminilità. Nella sua funzione materna la donna sente di svolgere un ruolo quasi soterico.
Possiamo vedere in ciò una legittima reazione alla psichiatria degli anni Sessanta, che tendeva ad attribuire alla donna la colpa della malattia mentale e dei disturbi emotivi del bambino. La madre veniva costantemente portata sul banco degli imputati come capro espiatorio di tutto ciò che era patologico. Ancora
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nel 1979 il congresso psicoanalitico internazionale di New York sentiva il bisogno di criticare la «caccia alla madre» (mother hunting).
Parallelamente all’attribuzione di un valore positivo alla maternità, in quest’atteggiamento si idealizza il figlio e si demonizza il genitore maschile. Il bambino, buono di natura, diventa cattivo per opera del padre, il quale viene ricondotto a due stereotipi: il despota che mena la frusta o l’ombra senza carattere; colui che sbaglia tutto quello che fa o il bel tipo che non fa nulla ed è perciò inutile.
A una lettura psicanalitica, lo stereotipo del padre ridotto a figura negativa serve a sostenere le pretese monopolistiche sui figli da parte delle madri emancipate. Si tratta, in sostanza, di una «razionalizzazione» dei bisogni di potere materni. Il bambino, a sua volta, diventa una superficie proiettiva per i genitori. È chiaro che il risultato pratico di questi meccanismi di difesa è di bloccare i rapporti fra i sessi. La madre androgina non può avere con il marito o il partner un rapporto collaborativo; la coppia è su un binario morto oppure diventa una riserva inesauribile di «legami disperanti».
Il secondo modello individuato da Bopp d’innovare i modi espressivi della genitorialità è quello dei mapà 4. Questi nuovi papà non sono esclusivo prodotto degli ambienti alternativi: li possiamo riconoscere in diversi strati sociali. L’«Io-ideale» di questi uomini include anche la funzione materna. Il mapà ha un desiderio, talvolta esplicitato con candore: rimanere incinto e allattare. È un caso di narcisismo onnipotente applicato alla fecondità, che induce a svolgere anche il ruolo della madre che allatta. A riprova dell’ampiezza del fenomeno potremmo citare la notizia, riportata di recente da alcuni giornali, secondo cui in America sarebbe in vendita un completo di mammelle finte per maschi. Un thermos caldo inserito in esse permetterebbe al padre di provare l’emozione di allattare il bebé, ma soprattutto proteggerebbe la sua identità, risparmiandogli il trauma psichico di non essere un padre «nutriente»...
Questa modalità nuova di essere padre non è senza conseguenze
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nei confronti della partner. Invadendo il rapporto simbiotico che la madre ha con il bambino, il padre rende più difficile il rapporto di coppia. Le nuove madri tendono a vivere l’impegno dei nuovi padri nei confronti del bambino come una concorrenza. Senza parlare della situazione, confinante con il paradosso, in cui vengono a trovarsi: le madri si vedono costrette ad accettare, per motivi ideologici, un interventismo maschile che interferisce con le loro emozioni e che sostanzialmente sentono come sospetto.
Dal punto di vista sociale, la nuova figura del padre «materno» suscita un interesse che la donna non provoca. Da lei tutti si aspettano in ogni caso che si occupi del figlio, mentre un padre che cambi il pannolino del bebé è una star dei nuovi tempi. Le donne reagiscono alla sensazione indotta da questi comportamenti con la stessa diffidenza con cui la società maschile guarda alle donne emancipate. Anche in questo caso, dunque, il rapporto di coppia subisce minacce da parte dei nuovi stili di genitorialità.
Questa rapida carrellata sui nuovi modelli d’esercizio delle funzioni paterne e materne non ha alcuna pretesa di esame esaustivo, neppure dal punto di vista psicodinamico, che pure è stato privilegiato. Intende semplicemente esemplificare l’affermazione precedente: non possiamo parlare dell’identità sessuale, e quindi del valore che attribuiamo all’essere uomo e all’essere donna, senza toccare contemporaneamente il rapporto che s’instaura con il partner e la relazione patema o materna con il figlio. In altri termini: identità sessuale, partnership e genitorialità costituiscono un’unità sistemica. Sono aspetti di un unico fenomeno, inscindibilmente imbricati gli uni negli altri.
La scelta d’iniziare la trilogia prendendo in considerazione l'autocomprensione maschile e femminile è un’opzione forse arbitraria, ma che riflette una certa priorità logica e un’evidente centralità nel dibattito contemporaneo. Tuttavia, pur trattando tematicamente di questa dimensione, sappiamo che, in obliquo, anche le altre due devono essere tenute costantemente presenti sullo sfondo.
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3. Dall'uguaglianza alla reciprocità
Senza anticipare i lavori del convegno, mantenendomi rigorosamente sulla sua soglia, voglio limitarmi ad attirare l’attenzione su alcuni problemi avvertiti dagli organizzatori al momento di scegliere il titolo. Il quale comprende anche un sottotitolo: «Dall’uguaglianza alla reciprocità». Il sottotitolo si aggiunge in genere al titolo per amore di chiarezza, per evitare malintesi. In questo caso, però, è proprio il sottotitolo che può dare adito ai più gravi equivoci.
Dobbiamo escludere subito un’interpretazione fuorviarne di quel «Da... a...», come se si trattasse di un percorso lineare, marcato da tappe ― prima quella dell’uguaglianza, poi quella della reciprocità ― da lasciarci successivamente alle spalle, perché acquisite, per muovere verso altri obiettivi. È un’interpretazione riduttiva, in cui possiamo identificare un tributo al mito delle «umane sorti progressive». Se consideriamo la situazione sociale attuale, abbiamo ben pochi motivi di trionfalismo progressista: malgrado tanti proclami e dichiarazioni di principio, l’uguaglianza nel rapporto tra i sessi è una condizione tutt’altro che acquisita.
Basti pensare all’uguaglianza tra uomo e donna nel lavoro. Il concetto di «pari opportunità» è entrato nella legislazione dei Paesi europei appena nel dopoguerra. La Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne è stata ratificata dal Consiglio d’Europa solo di recente. Ma alle «pari opportunità», in quanto diritti formali, non corrispondono per lo più diritti reali. Dopo averla sancita come diritto, la pari opportunità va messa in pratica. Quando potremo riconoscerla come realizzata? Vorrei dirlo con una battuta caustica di Françoise Giroux: «La donna sarebbe veramente uguale all’uomo il giorno in cui, a un posto importante, si designasse una donna incompetente».
Non possiamo, dunque, pretendere di avere acquisito l’uguaglianza, sotto forma di parità, e di sentirci autorizzati a muovere verso l’obiettivo della reciprocità. Tuttavia l’idea di movimento evocata dalle due preposizioni «Da... a...» è suscettibile di un’altra interpretazione, che giustifica il suo utilizzo: il sottotitolo, una volta eliminato l’equivoco, esprime adeguatamente l’idea che l’autocomprensione degli uomini e delle donne, senza essere
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data una volta per tutte, è un processo che si realizza in modo progressivo.
L’espressione «Dall’uguaglianza alla reciprocità» si riferisce indirettamente alle trasformazioni culturali avvenute nel movimento delle donne. Lasciamo in sospeso se sia legittimo periodizzare lo sviluppo d’identità, di obiettivi e di ruoli femminili, avvenuto all'interno del movimento, parlando di una prima, una seconda e una terza fase del femminismo. Questa è un’ipotesi storiografica, che va eventualmente proposta o contestata con argomenti appropriati. Con l’idea di processo non vogliamo neppure avallare l’ipotesi, con un giudizio sbrigativo e superficiale, di una fine del femminismo come movimento storico o dell’avvento in un post-femminismo. Ci basterà constatare lo spostamento evidente dell’attenzione verso altri obiettivi e l’accentuazione di nuovi contenuti nella ricerca dell’identità sessuale.
Il movimento delle donne è esemplare nell’intreccio di continuità e cambiamento nella sua ricerca. Oggi registriamo il passaggio da un femminismo centrato sulla rivendicazione dell’uguaglianza a una fase intesa a individuare la differenza e a valorizzarla come risorsa 5. Basti pensare al diverso atteggiamento nei confronti della differenza biologica. È lontano il tempo in cui Simone de Beauvoir si sentiva autorizzata ad affermare che la differenza tra gli uomini e le donne dipende non tanto dall’avere un cromosoma Y in più o in meno quanto dall’aver giocato con i soldatini anziché con le bambole... Questa svalutazione pratica del biologico ha lasciato oggi il posto a un interesse per il tessuto fisico della maschilità e della femminilità che ispira sofisticate ricerche sulle differenze cerebrali tra i due sessi.
Un cambiamento notevole si registra anche nel diverso atteggiamento nei confronti della maternità. Nel passato, in epoche
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di rivendicazione dell’uguaglianza formale tra uomini e donne, la maternità era avvertita come un peso che metteva la donna costantemente a rischio di essere discriminata. Le donne si sentivano costrette a scegliere tra essere donne o essere madri. Oggi, a distanza di meno di una generazione dagli slogan del femminismo più aggressivo, Betty Friedman, una delle pioniere del movimento, può lanciare il nuovo grido di battaglia: «La nuova frontiera dell’uguaglianza è la maternità».
Questa ricerca della differenza come risorsa comporta anche un nuovo modo di vedere l’uguaglianza. Parlando a nome delle donne, Virginia Woolf affermava: «Pur guardando il medesimo mondo, lo vediamo con occhi diversi» 6. Nella sua prospettiva, la diversità andava assunta come stimolo per un cambiamento radicale: non si trattava più di competere con gli uomini per essere alla loro altezza, ma di dare una nuova direzione al progresso. Applicando questa prospettiva al lavoro, la Woolf, in pagine di alto lirismo e satiriche insieme, dipingeva il corteo degli uomini, tutti rappresentanti del mondo borghese, che esercitavano libere professioni. Essi andavano in tribunale, discutevano cause, tenevano conferenze, scrivevano libri, predicavano dal pulpito... In tutte queste attività, ciò che si ripeteva era il vecchio ritornello di sempre: «Giro, girotondo, giro intorno al mondo, lo voglio tutto io, è mio, è mio, è mio». Sembrava quasi che la specie umana non conoscesse il progresso, ma solo la ripetizione. «Le libere professioni ― proseguiva la Woolf ― esercitano innegabilmente un effetto particolare su coloro che vi si dedicano. Diventano possessivi, gelosi di qualunque violazione dei loro privilegi, e fortemente aggressivi nei confronti di chi osa metterli in discussione. Tra un paio di secoli, se eserciteremo le professioni allo stesso modo, non saremo anche noi possessive, gelose, aggressive, sicure di noi e del giudizio immutabile di Dio, della Natura e della Proprietà come sono oggi questi signori?» 7.
Il movimento «Dall’uguaglianza alla reciprocità», indicato dal sottotitolo del convegno, escludendo l’esaltazione trionfalistica di mete raggiunte, vuol essere la cifra di quest’orientamento a coniugare l’affermazione della differenza con la ricerca dell’uguaglianza. Vuole definire tanto la comune realtà umana
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quanto la differenza tra gli uomini e le donne, che troveranno pieno adempimento solo quando la realtà sarà detta a due voci e realizzata da uomini e donne sinergicamente, in un’emancipazione che non sia di un sesso dall’altro e contro l’altro, ma dei due sessi insieme. La reciprocità, in questo senso, non viene dopo l’uguaglianza, ma è una condizione per l’uguaglianza. Non è uno dei tanti cambiamenti nello scenario mutevole del rapporto tra i sessi, ma è un sinonimo del cambiamento stesso.
4. Uguaglianza e reciprocità come metodo
Se questi sono i contenuti possibili del movimento di ricerca che comprende uguaglianza e reciprocità, esiste anche un’altra prospettiva da cui possiamo considerare queste due categorie: vedere nell’uguaglianza e nella reciprocità non solo i contenuti di una cultura che andiamo costruendo ― o che dovremo costruire insieme, uomini e donne ― ma anche un metodo o un criterio formale con cui definire la differenza sessuale e valutare le proposte culturali relative all’identità.
Sottoporre un’affermazione al criterio dell’uguaglianza comporta che tutto quello che diciamo dell’uomo e della donna debba rispettare una proporzionalità, se non un’identità speculare. Espresso in negativo, questo criterio ci suggerisce di diffidare di ciò che vale solo per un sesso, anche se è espresso nei termini più lusinghieri. È la vecchia diffidenza nei confronti dei portatori di doni (Timeo Danaos et dona ferentes). Le donne, in particolare, hanno una lunga esperienza di altari costruiti per loro, ma con funzione di discriminazione...
Anche la reciprocità può essere considerata come un criterio formale sul cui metro dobbiamo valutare ciò che affermiamo dell'uomo o della donna. Essa implica che la differenza o la specificità dell’uno, che noi stabiliamo, ha bisogno della conferma dell’altro. La reciprocità domanda che l’identità sia formulata nel dialogo, non come prescrizione unilaterale ma con il coinvolgimento attivo dell’altro.
A verifica dell’utilità di questi criteri formali, possiamo riferirci a quanto Giovanni Paolo II ha affermato sulla differenza maschile e femminile nella lettera apostolica Mulieris dignitatem del 15 agosto 1988. Senza mettere in discussione l’originalità e il valore
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del documento, non possiamo non avanzare qualche riserva quando confrontiamo con il duplice criterio ciò che viene identificato come «genio della donna». Al paragrafo n. 17, per esempio, verginità e maternità sono presentate come due dimensioni particolari nella realizzazione della personalità femminile. Maternità e verginità vengono a definire l’orizzonte realizzativo della donna. «Si trae l’impressione ― commenta Livia Sebastiani ― che maternità e verginità esauriscano in un certo senso l’intero campo di significati simbolico-spirituali dell’autorealizzazione femminile» 8.
Lo stesso procedimento di statuizione di una specificità non viene applicato all'uomo. «In ambienti laici ed ecclesiastici ― afferma Giulia Paola Di Nicola ― nessuno, pena la derisione, oserebbe affermare che la missione principale dell’uomo è essere padre, mentre ancora milioni di persone affermano, senza essere sfiorate da alcun dubbio, che la missione principale della dona è quella di essere madre».
La donna, dunque, viene definita da una funzione ― la maternità ― mentre il corrispondente compito dell’uomo ― la paternità ― non concorre a definire l’identità maschile: dunque, in base al criterio dell’uguaglianza, questo procedimento ci appare insufficiente.
Considerazioni analoghe valgono per quella che la Mulieris dignitatem chiama «naturale disposizione sponsale della personalità femminile» (n. 20), specificandola ulteriormente come attitudine al dono di sé. Ci domandiamo: una tale disposizione è riferibile solo alla donna o anche all'uomo? La «sponsalità» è un tratto della personalità femminile oppure una dimensione antropologica generale, che evidenzia la vocazione all’incontro propria dell’essere umano? «Anche l’uomo ― annota ancora Livia Sebastiani ― può essere vergine o può essere padre, ma non è “imprigionato” in queste scelte possibili, né in senso esistenziale né spirituale-simbolico. E non si può fare a meno di chiedersi: se la donna si definisce tale sulla base della sua vocazione a “donarsi”, nella maternità o nella scelta verginale, su quale base si dovrà dunque definire l’uomo? L’autorità, il potere, la trascendenza?».
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Un’altra affermazione ancora dello stesso documento pontificio ci sollecita a una verifica metodologica. Al n. 18 viene detto che «l’uomo deve imparare dalla madre la propria “paternità”». La donna è dunque presentata come modello di genitorialità, intendendo come esemplare l’amore disinteressato e oblativo che la tradizione ha attribuito come compito alla madre. Come risvolto pratico di questo «apprendere dalla madre a essere padre» ci vengono subito in mente le realizzazioni caricaturali, che abbiamo menzionato in precedenza, delle nuove forme di paternità (i mapà).
Più che le prevedibili complicazioni psicologiche nei figli e i risvolti patologici, ci dissuade dall’omologare il compito paterno con quello materno l’esigenza metodologica della reciprocità. Questa esige non l’appiattimento su un unico modello di genitorialità, ma la sua traduzione in atto in modo differenziato da parte dell’uomo e della donna. E magari può richiedere anche il superamento del modello ideologico dell’amore oblativo a senso unico, a favore di una concezione del dono che domanda la responsività: donazione, sì, ma con attesa di ritorno.
Le osservazioni severe di natura metodologica nei confronti della Mulieris dignitatem non intendono affatto intaccare i contenuti validi del documento né, soprattutto, la nobile intenzione che lo ispira. Rimane però l’esigenza, nel cercare di stabilire il proprium dei sessi e la differenza da adottare come risorsa, di procedere in modo che non venga infranto il criterio della reciprocità. La differenza deve essere pattuita, non statuita; deve essere non solo frutto di logos, ma di un dia-logos.
In un’istanza autoritaria che statuisca i confini dell’autocomprensione delle donne possiamo vedere in filigrana un’implicita precomprensione sessista. Una lettera ― anche una lettera apostolica ― ha un mittente, e costui appartiene a un sesso. La riflessione più recente delle donne ha smascherato l’insidia del sessismo in saperi che si presentano con la pretesa di universalità, denunciandoli come prodotto di una «uni-versalizzazione», cioè di una modellazione implicita sul maschile. Il pensiero va all’apporto di Carolyn Merchant per la critica del pensiero scientifico e del rapporto con la natura che da esso deriva, di Hazel-Henderson per l’economia, di Carol Gilligan per l’etica, di molte teologhe per la religione.
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La deformazione sessista si rivela anche nello sfrenato bisogno di dire la differenza, invece di ascoltarla. Dobbiamo ancora una volta ricorrere al contributo di Martin Heidegger nella sua critica al «logos dimidiato» e all’impianto logocentrico della cultura occidentale 9. Ai limiti del logos rilevati dal filosofo tedesco bisogna anche aggiungere che esso è stato, nella nostra tradizione, monopolio maschile. La reciprocità nel pattuire la differenza ci richiama l’esigenza non solo di dirla, ma anche di riceverla, secondo la cadenza originaria che Heidegger ha individuato in leghein: dire, ma anche raccogliere, porre, lasciar essere.
Il valore della Mulieris dignitatem non va cercato là dove non risiede, cioè in definizioni unilaterali, magari viziate di sessismo implicato dello specifico femminile, ma piuttosto nella sua capacità d’indicare nella donna ciò che è proprio della creatura a immagine di Dio, riferito perciò tanto agli uomini quanto alle donne. Anche le caratteristiche che nel documento vengono attribuite in proprio alla femminilità ― maternità, verginità, sponsalità ― vanno piuttosto riferite esemplarmente all'umanità vissuta in pienezza, da qualsiasi essere umano. Siamo così su un livello diverso rispetto a quello dell’identità sessuale stabilita su un piano psicosociale: siamo, precisamente, sul livello che è proprio della religione.
5. Maschio e femmina
La menzione del livello interpretativo religioso sposta la nostra attenzione sul titolo del convegno, che finora, nella preoccupazione di specificare il sottotitolo, abbiamo lasciato in ombra. La formulazione ha volute assonanze religiose. Per quanto secolarizzati vogliamo essere, siamo inevitabilmente rinviati al testo classico della Genesi che racconta la creazione dell’uomo.
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Ecco, nella traduzione originale di André Chouraqui 10, i versetti di Gn 1,26-27:
Elohim dice: Noi faremo Adam ― il Terroso ― a nostra replica, secondo la nostra somiglianza.
Essi assoggetteranno il pesce del mare, i volatili dei cieli, le bestie, tutta la terra, ogni rettile che striscia sulla terra.
Elohim crea il Terroso a sua replica, a replica di Elohim lo crea, maschio e femmina, li crea.
Questo luogo classico dell’antropologia teologica è l’orizzonte entro cui si colloca la riflessione di tutto il convegno. La semplice menzione di maschio e femmina evoca necessariamente questo contesto biblico-religioso. L’orizzonte non è quello del rilevamento empirico dei dati relativi ai travagliati processi culturali che accompagnano i cambiamenti nel tempo dell’identità e dei ruoli sessuali, né quello di una più sofisticata e necessaria interpretazione dei dati stessi col contributo delle scienze umane. L’orizzonte della Bibbia non è neppure quello entro cui si colloca la religione, quando diventa cura pastorale, nel duplice significato che la parola cura ha, così come Sorge in tedesco: servizio disinteressato e preoccupazione. I cambiamenti nell’identità e nei ruoli sessuali sono, infatti, una preoccupazione per la Chiesa nella sua funzione pastorale 11, per non parlare della difficoltà a stabilire una pastorale per l’omosessualità e le varie forme di sessualità deviami.
L’orizzonte pratico, applicativo, non è quello originario e fondante della religione. La prospettiva propria di questa, prima di diventare dottrina o prassi etica e pastorale, è quella transtorica. Per relativizzare e criticare l’ordine esistente, la religione ha a disposizione due strategie possibili: o proiettarsi verso l’inizio degli inizi, come un archetipo di fondazione, o lanciarsi
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verso la fine delle fini, in dimensione escatologica. Ambedue le strategie vennero ampiamente utilizzate nel Cristianesimo delle origini. Per contestare l’ingiustizia fatta alla donna mediante la legge umano-divina del ripudio ― situazione di privilegio che permetteva all'uomo di lasciare la donna a proprio comodo ― Gesù si rifece alle origini: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?» (Mt 19,3). In un altro contesto e rispetto a un’altra situazione che snaturava il rapporto tra i sessi ― ridurre la relazione uomo-donna alla coazione a riprodurre, in ossequio alla legge del levirato che obbligava l’uomo a sposare la vedova del proprio fratello per generargli prole con il suo nome ― Gesù adottò la prospettiva della fine-fine : «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20,34-36).
All’inizio degli inizi e alla fine delle fini, ambedue fuori della storia, appaiono due figure estreme: il Terroso e l'Angelico. Non possiamo immaginare contrapposizione più radicale. Eppure entrambe queste figure svolgono la stessa funzione: il Terroso e l'Angelico contestano l’ordine attuale, storico, in cui il rapporto fra i sessi sviluppa le sue potenzialità ambigue, sia quelle giuste sia quelle ingiuste, sia quelle realizzatile della persona sia quelle alienanti.
La religione, nella sua cadenza originaria, veicola il cambiamento radicale. Essa esprime la necessità di criticare e superare l'esistente, affinché appaia il non ancora realizzato. La religione si apparenta cioè con l’utopia e con la profezia. Il richiamo a maschio e femmina, nella sua connotazione biblica, si rapporta a qualsiasi realizzazione storica della maschilità e della femminilità, anche a quelle più umanizzate e progressiste, in modo critico, aprendo un orizzonte di superamento dell’ordine esistente. Il referente più vicino alla prospettiva che è propria della religione è quello della psicologia analitica di Cari Gustav Jung, in cui il riavvicinamento uomo-donna assomiglia a un processo alchemico: è una sintesi che non mira alla pacificazione, ma alla trasformazione.
La ricerca di nuove modalità di essere uomo e di essere donna appare oggi come un’articolazione significativa di ciò che Christopher
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Lash ha chiamato «cultura del narcisismo». Anche le espressioni più progressiste dell’identità sono contaminate da un’enfatizzazione dell’«ego», spesso dall’elefantiasi dei bisogni di autoaffermazione riferiti alla propria persona. Questa forma di patologia culturale non minaccia soltanto i singoli ma anche i sessi, in quanto produce una gara di appropriazione, in chiave di autoaffermazione, di ciò che distingue un sesso dall’altro.
In passato l’identità maschile e femminile aveva elementi caricaturali, in quanto portava all’estremo alcuni tratti, senza il correttivo di ciò che veniva attribuito in proprio all’altro sesso. Avevamo maschi che tendevano al «machismo», non avendo integrato il femminile; per converso le donne, senza l’arricchimento della polarità maschile, producevano una femminilità troppo muliebre. Oggi abbiamo, sì, una donna più maschile e un uomo più femminile, ma con il rischio che l’immagine dell’essere umano venga deformata dall’arroganza e dall’invidia. Nella ricerca dell’identità, anche con quell’integrazione dell’altra polarità che va nel senso dell’auspicata reciprocità, rischiamo di vedere emergere sempre più uomini e donne «senza qualità» (nel senso in cui Robert Musil parla di Ulrich, il protagonista del romanzo omonimo: ha singole qualità, ma non ha la qualità).
L’orientamento che la prospettiva religiosa ci fa intravedere costituisce la terapia di questa patologia. Dobbiamo andare oltre la persona, in quanto persona è anche, come dicevano gli antichi, maschera, limite e deformazione. L’appartenere a un sesso ci appare allora come «la struttura che connette», nel senso di Gregory Bateson. Il sesso è più del sesso. Il sesso connette con l’altro: l’uomo con la donna e la donna con l’uomo; ma anche l’uomo e la donna con il Tutto.
Maschio-femmina: questa struttura fondamentale dell’essere umano va inserita nella dialettica tra il tutto e le parti. Il tutto è più della somma delle parti: è uno degli assiomi della psicologia della Gestalt. Analogamente, possiamo dire: il Terroso, l’Angelico sono più della somma del maschile e femminile, ottenuta mediante la giustapposizione dei sessi. Nel sesso c’è un’eccedenza irriducibile.
Per esprimerci ancora una volta ricorrendo a un’espressione artistica, citiamo il personaggio di Arnheim, l’intellettuale che nel romanzo di Musil è la controfigura di Ulrich, l’uomo «senza qualità». A lui è attribuita l’intuizione che «nella vita l’insieme ha
la precedenza sui particolari»; la presenza di una forza, che supera ciascuna delle singole manifestazioni, è il segreto su cui poggia tutto ciò che vi è di grande nella vita 12. A questo punto ― commenta Musil ― ad Arnheim «era sembrato di afferrare per un lembo del mantello il soprannaturale».
1 P. Donati (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989.
2 Cfr. S. Spinsanti (a cura di), Nascere, amare, morire. Etica della vita e famiglia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989.
3 J. Bopp, Die Mamis und die Mappis. Zur Abschaffung der Vaterrolle, in Kursbuch, 1986, LXXV, pp. 53-74. Parzialmente tradotto in Famiglia Oggi, 1988, XXXTV, pp.
4 J. Bopp chiama questi nuovi padri con il neologismo Mappi, che deriva dalla contrazione di Mami e Pappi. Anche l’italiano mapà permette di conservare lo stesso gioco linguistico.
5 Cfr. C. Saraceno, La differenza come risorsa, in Il progetto, 1985, XXIX, pp. 9-13. Con ampia visione prospettica, il rapporto sullo stato della popolazione mondiale dell’ONU del 1989 riserva alle donne il posto centrale per lo sviluppo degli anni Novanta. Più che dare il primato alle donne, si tratta propriamente di «investire nelle donne» (Investing in Women è il titolo del saggio che presenta il rapporto). «Lo status delle donne ― vi si afferma ― sarà cruciale nel determinare la futura crescita della popolazione. La misura in cui le donne saranno libere di prendere le decisioni che riguardano la loro vita può essere la chiave per il futuro, non solo per i Paesi poveri, ma anche per quelli ricchi. Come madri, come responsabili per la produzione del cibo,... come commercianti e artigiane, come leaders nella politica e nella comunità, le donne sono al centro del processo di cambiamento» (p. 11).
6 V. Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 1985, p. 39.
7 Ibid., p. 97.
8 Il dossier di Famiglia Oggi, 1989, XXXVIII, pp. 59-84, analizza la lettera apostolica da diverse angolature. Questa citazione e le successive si riferiscono a contributi che costituiscono il dossier.
9 Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, SugarCo, Milano 1979. Dello stesso autore, cfr. anche Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976 e In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973. Una presentazione sistematica della critica heideggeriana al «logos dimidiato» è offerta da G. Corradi Fiumara, Filosofia dell'ascolto, Jaca Book, Milano 1985.
10 La Bible, Desclée de Brouwer, Parigi 1986. Tra le tante testimonianze sulla qualità unica di questa traduzione, basti citare quella del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, il quale affermò che la traduzione di André Chouraqui era la prima che avesse consultato, lodandola come «un’opera veramente ispirata, che ci ha restituito la Parola».
11 In un discorso tenuto nella cattedrale cattolica di Copenhagen, durante il suo viaggio nei Paesi nordici nel giugno 1989, Giovanni Paolo II ha indicato nella confusione circa il ruolo dell’uomo e della donna uno dei mali del nostro tempo, insieme con il divorzio, la mentalità ostile alla vita, la contraccezione artificiale e l’aborto.
12 Cfr. R. Musil, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957, p. 186.