- Obtaining Consent from the Family: A Horizon for Clinical Ethics
- Paternità/Maternità e le sfide della bioetica
- Maschio e femmina: dall'uguaglianza alla reciprocità
- Essere uomo, essere donna alla svolta del decennio
- Il posto della famiglia nella forma delle cure
- La famiglia, per coniugare i verbi della vita
- La coppia e la complicità
Sandro Spinsanti
IL POSTO DELLA FAMIGLIA NELLA FORMA DELLE CURE
in Il malato, l'ospedale, la famiglia, I quaderni di Janus
Zadig, Roma 2006
pp. 18-45
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Dobbiamo alla penna di un grande giornalista la descrizione di una scena che si ripeteva nei nostri ospedali in un tempo che possiamo considerare passato prossimo. Un giornalista speciale che, colpito lui stesso da un carcinoma, si è proposto come “inviato (suo malgrado) dentro il tunnel della malattia e dell'ospedalizzazione”. Stiamo parlando di Gigi Ghirotti, a cui spetta il merito di aver portato all’attenzione del grande pubblico, trent’anni fa, la condizione del malato nella nostra società. Ecco, dunque, alcuni tratti di un articolo apparso su La Stampa il 22 Settembre 1973, con il titolo «Gli ammalati, che seccatori»:
Bisogna mettersi ai cancelli dei grandi ospedali, la domenica, nell’ora in cui si aprono le visite ai parenti. Chi l’ha detto che la famiglia è in crisi? Mai vista una così comparata kermesse di valori familiari come, nei dì di festa, nelle corsie dove ho fatto scalo in questi mesi. La malattia di un congiunto ricostruisce il nucleo familiare schiacciato o disperso nell’immigrazione; recupera uomini, zie, compari d’anello, manda avanti i nipoti dell’ultima covata, con il palloncino in mano e il mitra di plastica ad armacollo.
È una vecchia Italia dei paesi, che la civiltà industriale e il travaso dai campi non sono riusciti a distruggere: avanza a fiumane, invade, festosa e pia, le camerate; apprensiva, esuberante, spropositata, all’appello del congiunto malato s’è armata della sua antica diffidenza verso le pubbliche istituzioni e ha infilato nella sporta tutto ciò che la gastronomia di “Carosello” ignora e che sopravvive immacolato e fragrante dentro la madia contadina. Salumi dell’Abruzzo e della Calabria, dolci della Sardegna, sedani e primizie dell’Agro Pontino, formaggi della Puglia, vini del Salento, caciotte, olio, confetti, focacce, mazzi di spaghetti; e quando è finita la visita, rimane nelle corsie quest’odore intenso di ben di Dio, di buona cucina casareccia, e sul ringhierino delle finestre fioriscono tanti sacchetti di plastica, come addobbi
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festosi, riempiti con quel che la vecchia Italia dei paesi ha portato in dono al congiunto malato, “che si tiri su”.
Il pezzo di colore continua con la descrizione degli espedienti per “colmare i vuoti e rimediare alle malefatte della cucina ospedaliera”, e agli scambi che ricolmano anche chi non ha parenti. «È l’unico giorno della settimana», conclude Ghiotti, «in cui il malato non si sente un seccatore, ma, piuttosto, un convitato importante».
La porta girevole
La scena evocata ha più che un valore aneddotico. Dietro l’allegra anarchia di quelle invasioni domenicali dell’ospedale da parte dei familiari dei malati c’era un ordine nascosto, che sovvertiva l’altro ordine, quello imposto dalle istituzioni. E c’erano delle idee molto precise a sostegno sia dell’uno sia dell’altro. Anzitutto la concezione che viene destabilizzata presuppone che l’ospedale sia il luogo dei malati, non dei familiari. L’eccezione domenicale, o di altri rigidi tempi di visita, non fa che confermare la loro esclusione dal luogo destinato alla cura. Possiamo ricorrere, a illustrazione di questo principio, all’immagine della porta girevole. Il malato, separato dal suo nucleo familiare, viene fatto entrare da quella porta che, simultaneamente, mette fuori i familiari. Nell’ospedale il malato è confinato (per il suo bene, naturalmente). Anche quando mantiene la denominazione arcaica di “luogo pio", l’ospedale in realtà viene concepito come una “macchina per guarire”. Pur non essendo un’istituzione totale, come il carcere o il manicomio, l’ospedale è chiuso a chi, essendo malato, è tenuto all’esterno. Una descrizione estrema dell’aspetto segregazionale dell’ospedale lo dobbiamo a Dino Buzzati, ne celebre racconto «Sette piani»: una volta ammesso nella struttura, il malato segue percorsi a lui estranei, sui quali non ha alcuna possibilità di controllo (nel
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caso del personaggio di Buzzati, viene fatto scendere di piano in piano, fino al primo, riservato ai malati senza speranza, dove le persiane sono perennemente chiuse...).
Parallelamente a questo principio di ordine, che si fonda sulla distinzione fra sani e malati, con la destinazione di spazi per gli uni e per gli altri, se ne può individuare un altro relativamente all’informazione e alla capacità decisionale. È un ordine invertito: i familiari sono gli interlocutori del mondo dei professionisti sanitari, mentre il malato ne è escluso. La porta girevole qui funziona in senso contrario: dà accesso ai familiari e “scomunica” (nel senso letterale di escludere dalla comunicazione) il malato. Non solo il minore d'età o la persona menomata nelle sue capacità cognitive: anche la persona adulta e capace di intendere e di volere è privata della diagnosi nei casi gravi e infausti e del coinvolgimento attivo nel percorso di cura. Non per niente la trasmissione televisiva «Orizzonti ― l’uomo, la scienza, la tecnica», in cui Gigi Ghirotti si è presentato al pubblico il 27 maggio 1972 dichiarandosi malato di cancro («Ho un cancro e lo so, parliamone insieme» ha fatto epoca: significativa l’infrazione di un tabù, un atto di deliberata ostilità verso l’ordine sul quale si reggeva la pratica della medicina trent’anni fa.
Molti cambiamenti intervenuti nel frattempo contribuiscono a renderci estraneo quello scenario. Più che quelli riconducibili a programmi di “umanizzazione” della vita ospedaliera (l’abolizione della “pigiamizzazione” forzata, il cambiamento degli orari dei pasti così lontani dai ritmi della vita civile, e naturalmente l’accesso facilitato a familiari e visitatori) ci interessano le trasformazioni profonde. Il movimento della bioetica, che ha appunto più o meno tre decenni di storia, ha messo in evidenza il diritto del malato a essere considerato persona autonoma, a essere informato della diagnosi e dei percorsi terapeutici, a poter decidere insieme al medico.
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L’autodeterminazione personale fa recedere sullo sfondo la famiglia, anche quella motivata da fini compassionevoli a tenere il proprio caro nello stato di passività e ignoranza. Negli ultimi anni sono state riscritte le regole deontologiche che, in codici precedenti, indicavano nei familiari e congiunti gli interlocutori del medico. L'informazione spetta, di diritto, al malato; ai suoi familiari può essere fornita solo subordinatamente a una autorizzazione da parte della persona interessata.
Un secondo cambiamento profondo riguarda il profilo epidemiologico delle malattie. Alla prevalenza delle malattie infettive e acute ha fatto seguito un crescente numero di malattie cronico-degenerative. Nel primo caso la concezione dell’ospedale come luogo riservato alla cura può essere appropriato. Quando una persona cade malata, la famiglia lo consegna idealmente all’ospedale e si fa da parte, affidandosi alle iniziative e alle regole organizzative del corpo professionale. Riceverà il proprio congiunto guarito, al termine della cura (o, nei casi infausti, lo accoglierà come moribondo, perché muoia nel suo letto; oppure riceverà il cadavere, se il decesso è avvenuto in ospedale). Lo scenario attuale è profondamente diverso. Con le malattie si vive, e a lungo. L’essere malato equivale a instaurare un lungo percorso con remissioni e ricadute; le energie personali e quelle familiari sono mobilitate al massimo e devono interfacciarsi con le risorse sanitarie professionali.
Quando il welfare state si restringe
Un terzo elemento strutturale è il cambiamento del ruolo attribuito alla famiglia nei confronti della cura e dell’assistenza. Tradizionalmente è stata la famiglia, per secoli, l’agenzia deputata a erogare le cure ai propri componenti malati e fragili. Ciò che la sociologia oggi chiama “capitale sociale” ― essenzialmente la fiducia condivisa di poter ricevere ciò di cui si ha
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bisogno mediante una rete di scambi e di appoggi che restituirà in futuro le cure dispensate ad altri ― era impersonato dalla famiglia, che entrava in funzione nelle crisi di salute. «Vogliamo abolire la famiglia, unica mutua naturale, che ci assiste dalla culla alla bara, con efficienza, con prontezza, con affetto, senza costare nulla allo Stato?»: la domanda retorica è stata lanciata da Amintore Fanfani nel 1974, come appello finale della campagna referendaria per l’abolizione del divorzio. “Mutua naturale”, perché riferita a un modo di concepire l’istituzione familiare che si supponeva avesse resistito ai cambiamenti culturali.
Sappiamo che l'appello di Fanfani non ha fatto breccia nelle preferenze della maggior parte degli italiani. Non solo: quattro anni dopo, nel 1978, sarebbero state cancellate le mutue (quelle istituzionali, non quelle simboliche rappresentate dalle famiglie) per introdurre il Servizio sanitario nazionale. Ben più del divorzio, la copertura universalistica dei bisogni di salute garantita dal Ssn avrebbe scosso la famiglia in una delle sue funzioni fondamentali: garantire che ci sia qualcuno che si prende cura delle persone fragili. Nella famiglia tradizionale c’è sempre qualcuno, spesso una donna, che si occupa dei bambini, si prende cura dei vecchi e dei malati, garantisce continuità di cure ai non autosufficienti. Le cure offerte costituiscono appunto un capitale sociale, in quanto fondano il ragionevole diritto di riceverle in contraccambio, quando ci si trovasse nella situazione di averne necessità.
Questo scambio cementa il legame tra le generazioni, non senza il contributo, nella tradizione giudaico-cristiana, del comandamento che chiede di «onorare il padre e la madre», che obbliga i figli a restituire le cure ricevute dai genitori. È un obbligo morale, non giuridico (non a caso, quando il presidente Reagan ha cercato di introdurre per legge l’obbligo per i figli
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di contribuire economicamente all’assistenza dei genitori anziani, ha suscitato una levata di scudi generalizzata e ha dovuto ritirare il progetto); eppure l’obbligo della “pietas filiale” è stato a lungo una garanzia di tutela.
La creazione di un servizio sanitario pubblico è l’ultima tappa di un processo che ha portato a superare i sistemi di garanzia particolaristici, passando da quelli “naturali”, come la famiglia, a quelli sociali, come la mutualità costituita da aggregazioni volontarie. “Dalla culla alla tomba ci pensa lo Stato”: era lo slogan del primo servizio sanitario nazionale, quello inglese, costituito nel 1948. La famiglia veniva così scavalcata. Possiamo rivendicare il diritto a cure mediche e assistenza non perché nati in una determinata famiglia o affiliati a una certa organizzazione, ma semplicemente in quanto cittadini. È una conquista di civiltà della quale siamo giustamente fieri. La porta girevole che lascia entrare il malato e lascia fuori la famiglia potrebbe, a essere molto benevoli, essere assunta come simbolo di una presa in carico del malato da parte della comunità, nella sua accezione più ampia e solidaristica. Ma la realtà è lontana da questo modello ideale.
Non possiamo negare che il superamento della famiglia come sistema di cure sia stato proclamato troppo in fretta e con molta superficialità. Fin troppo spesso le famiglie si vedono restituire un compito dal quale, teoricamente, dovrebbero essere sollevate. Sono situazioni che purtroppo i cittadini conoscono con dolorosa esperienza diretta. La porta girevole dell’ospedale fa un altro giro su se stessa, e il malato si ritrova fuori. In braccio alla famiglia, teoricamente...
I primi esempi che vengono in mente sono quelli associati all’assistenza ai malati mentali, alla gestione quotidiana delle malattie cronico-degenerative (pensiamo ai malati di Alzheimer
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e alle persone affette da demenza senile), all’assistenza ai disabili gravi. Dal punto di vista sia teorico sia pratico, il servizio sociale dovrebbe sostenere le famiglie in queste situazioni e integrare l’assistenza professionale con quella offerta in base ai legami di parentela, ma sappiamo che molto spesso non è così: le istituzioni tagliano i fondi destinati ai servizi sociali, le famiglie vengono lasciate sole e la patologia globale aumenta, perché al malessere dei malati si somma quello dei familiari gravati da pesi che eccedono le loro forze. Le famiglie si disgregano, i caregiver vanno in burnout o in depressione. Gli esiti estremi di questi stati di usuramento ci capita a volte di leggerli nelle notizie di cronaca, tradotti in gesti estremi su disperazione.
C’è chi pensa, sfidando non solo il paradosso ma la stessa logica, che per ovviare ai mali della sanità pubblica bisognerebbe privatizzarla. Ciò vuol dire che, quando lo Stato si ritira, saranno soprattutto le famiglie a sostenere i pesi maggiori. I risparmi che si ottengono scaricando l’assistenza sulle famiglie sono illusori: non fanno che spalmare il malessere e malattia su un numero più ampio di cittadini.
L’empowerment della famiglia
Se vogliamo mantenere come una conquista di civiltà irrinunciabile la solidarietà allargata che fa perno su un servizio sanitario pubblico universalistico, dobbiamo immaginare nuove soluzioni da sostituire alle forme di welfare state che abbiamo conosciuto nel passato recente. Il cammino verso la welfare community prevede risposte diverse ai bisogni crescenti, nelle quali servizi pubblici e famiglie sappiano integrarsi reciprocamente. L’alternativa da promuovere è la diffusione di un lavoro a rete che sappia valorizzare le risorse del pubblico e del privato, dei servizi ospedalieri e di quelli territoriali, del privato sociale e della famiglia.
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Qualche esempio può aiutarci a dare concretezza al nuovo profilo che può assumere la collaborazione tra i servizi sanitari e la famiglia del malato. Pensiamo ai danni cerebrali acquisiti. Ogni anno migliaia di persone precipitano, da un giorno all’altro, in un abisso di cui non sospettavano l’esistenza: i disturbi permanenti di tipo motorio, cognitivo e comportamentale che fanno seguito a uno stato di coma. Sono le persone, per lo più giovani, che subiscono incidenti della strada ed emorragie cerebrali. Dopo i trattamenti rianimatori e neurochirurgici di tipo intensivo, comincia l’accidentato percorso della riabilitazione, per affrontare menomazioni e disabilità persistenti e per favorire il reinserimento familiare, sociale, scolastico e lavorativo.
Il viaggio verso la ricostruzione di un progetto di vita, dopo la catastrofe della malattia, richiede un’organizzazione dei servizi che valorizzi sia l’ospedale sia il territorio. Esemplare, in questo senso, il progetto Gracer (Gravi cerebrolesioni Emilia Romagna), con un modello organizzativo a rete “Hub e Spoke" (letteralmente: a mozzo e a raggio), con la collaborazione sia di centri altamente specializzati (centri Hub), sia di ospedali del territorio (Spoke) che possono inviarci i pazienti quando le loro condizioni lo richiedono. Non meno importante è la collaborazione delle famiglie. Il coinvolgimento dei familiari non può essere improvvisato; né tanto meno si può scaricare sulle famiglie il peso di un lungo percorso di ricostruzione di una storia interrotta, senza fornire strumenti adeguati.
A questa necessità risponde appunto il “Diario di Bordo” elaborato dall’Unità operativa per la riabilitazione delle gravi cerebrolesioni dell’Azienda ospedaliera S. Anna di Ferrara. «Schede informative per i familiari di persone che hanno subito un danno cerebrale», specifica il sottotitolo della pubblicazione. I familiari non sono solo i destinatari, ma anche gli artefici remoti
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di questo strumento: il Diario è stato costruito, infatti, tenendo conto dei quesiti e delle necessità di informazione che più spesso sono stati espressi dai pazienti e dalle loro famiglie. I capitoli considerano le diverse aree di intervento in cui si articola il progetto riabilitativo (il coma e l’uscita dal coma, le problematiche fisiche, cognitive e comportamentali conseguenti a danno cerebrale, la disabilità). Non secondarie sono anche le informazioni relative alle norme che tutelano le persone disabili, alle agevolazioni di legge e fiscali.
Insegnare a fare i genitori di un bambino malato
Un secondo esempio di forte investimento sulla famiglia per garantirle le competenze necessarie per assumere quei compiti di cura che pur sarebbero disposte a far propri riguarda i genitori con bambini affetti da malattie gravi, a volte inarrestabili fino alla morte. Da citare a questo proposito il Servizio di abilitazione precoce dei genitori (Sapre), promosso da Chiara Mastella presso gli Istituti clinici di perfezionamento di Milano.
Chiara Mastella riporta la voce di un genitore: «Cerco qualcuno che mi possa insegnare a fare il genitore di un bambino malato. C’è un vuoto assoluto dalla diagnosi in poi. Nessuno ci insegna a capire e accettare la malattia dei nostri figli, nessuno ci aiuta a scegliere per loro e a volte ad accettare la loro morte e a lasciare che se ne vadano via serenamente tra le mura domestiche. Nessuno ci aiuta nella loro gestione quotidiana». Insegnare ai genitori di bambini affetti da patologie a prognosi invalidante o infausta a sviluppare le abilità necessarie a gestire la prassi ordinaria e straordinaria della vita quotidiana è essenziale soprattutto per garantire una conclusione serena, in seno alla famiglia, alla vita dei bambini per i quali non c’è speranza di guarigione.
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Quando, trent’anni fa, Gigi Ghirotti lanciava le sue accuse a una società insensibile alla sorte dei malati, un capitolo tra i più dolorosi era il ricovero di bambini e ragazzi in condizioni che non tenevano conto dei loro bisogni. Nell'articolo “Ragazzi in ospedale”, datato 9 dicembre 1973, Ghirotti parlava di Vincenzo, un ragazzino affetto da morbo di Hodgkin: «Un giorno lo scoprii affacciato alla finestra della corsia mentre, con un coetaneo, ricoverato anche lui, giocava a chi dei due riusciva a vedere per primo, avanzanti lungo i viali interni del policlinico, i feretri a ruote che da ogni clinica muovevano, trainati a mano, verso la cella mortuaria. “Cinque, io ne ho visti cinque!”, gridava Giovanni. E Vincenzo: “Io sei!”, gli faceva eco, con un moto di schietta esultanza sportiva”.
No, i tempi non sono più quelli. Ma siamo lontani dall’aver pienamente accolto il bisogno di vere alternative all’ospedalizzazione non necessaria dei bambini. È solo di quest’anno, infatti, l’iniziativa della Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio di mobilitare le riflessione e l’azione di coloro che si occupano di cure palliative intorno alle esigenze di hospice pediatrici e soprattutto di assistenza a domicilio di bambini destinati a soccombere alla malattia. La Consensus conference “Bambini che non guariranno”, finalizzata ad avviare un progetto nazionale di cure palliative pediatriche (Roma, 1 febbraio 2006), ha denunciato che i bambini italiani con malattie inguaribili continuano a vivere per lunghi periodi, e a morire, in ospedale. Questo tipo di malato molto speciale (neonato, bambino, adolescente) ha diritto all’assistenza domiciliare: deve vivere il più possibile all’interno della sua famiglia e della sua rete sociale. Assicurato l’adeguato controllo dei sintomi, il ritorno a casa e il reinserimento in famiglia del bambino che non guarirà è un traguardo molto positivo e costantemente richiesto. Ciò comporta l’organizzazione di reti di cure palliative dedicate a questa fascia di popolazione, che prendano in carico il bambino e la sua famiglia.
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Queste due situazioni emblematiche non esauriscono la casistica in cui è auspicabile che la famiglia riassuma attivamente i compiti di cura. Gli esempi vogliono solo dare concretezza alla nuova direzione verso la quale dobbiamo convogliare le nostre risorse di fantasia e capacità organizzativa: dare alle famiglie, che la gestione della patologia di uno dei suoi componenti costringe a dei veri e propri salti mortali, una rete di sicurezza che le impedisca di precipitare nei buchi neri dell’impotenza e dell’angoscia.
BIBLIOGRAFIA
G. Calcagno (a cura di), Gigi Ghirotti nel tunnel della malattia, Ed. La Stampa, Torino 1994.
D. Buzzati, “Sette piani”. In: Il meglio dei racconti di Buzzati, Mondadori, Milano 1989.
L. Borsato, “Diario di bordo: una guida per la riabilitazione”, in Janus 23, 2006.
C. Mastella, “Mio figlio è malato. Chi mi insegna a fare il genitore?”, in Janus 15, 2004.