La famiglia, per coniugare i verbi della vita

De Rita - Di Mola - Fregni - Houssiau - Lombardi - Vallauri - Macconi - Maingain - Malherbe - Meire - Mozzanica - Piloni - Reich - Spinsanti

NASCERE, AMARE, MORIRE

Etica della vita e famiglia, oggi

a cura di Sandro Spinsanti

Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989

pp. 5-10

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INTRODUZIONE

LA FAMIGLIA, PER CONIUGARE I VERBI DELLA VITA

Un titolo così presuntuoso ― nascere, amare, morire: nientemeno che tutto lo svolgimento di una vita umana, dall’inizio alla fine ― bisogna farselo perdonare. L’assunto è davvero enorme. Solo un sapere enciclopedico, che comprenda tanto le conoscenze bio-mediche quanto quelle umanistiche, potrebbe stringere in un unico abbraccio quell’universale concreto che è la vita dell’uomo dalla nascita alla morte. Eppure questa considerazione non è stata sufficiente per far desistere il Centro Internazionale Studi Famiglia (Cisf), organismo istituito nell’ambito dell’Associazione Don Zilli dal Gruppo Periodici Paolini, dall’adottare proprio questa formulazione per il suo convegno annuale, tenuto a Milano dal 2 al 5 giugno 1988.

Ora che i risultati di quel convegno sono disponibili sotto forma di volume, è possibile una valutazione più distesa del progetto. Il titolo lo si può non solo perdonare, ma giustificare. Il disegno del convegno non ci appare finalizzato all’inseguimento della bioetica come moda culturale, in quel susseguirsi convulso di seminari di studio, simposi, congressi, a vari livelli e con diverso orientamento ideologico. Non sono più soltanto le istituzioni accademiche o le Chiese che si interrogano sulla legittimità degli interventi sulla vita, umana

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e non umana, resi possibili dagli sviluppi della tecnologia applicata alla bioetica e alla medicina: ormai anche i partiti ne discutono. E si delinea una forte spinta a portare il dibattito anche in sede legislativa, proponendo leggi che regolino questi delicati settori di confine. Su tutto il dibattito, in qualunque sede avvenga, gravano le nubi nere del pessimismo e prevale uno stato d’animo di allarme.

Si va sempre più diffondendo un senso di smarrimento: nei segmenti iniziali e finali della vita umana (riproduzione e morte) la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito ― sempre così difficile da tracciare ― sembra cancellata per sempre.

Non sono solo le agenzie di pensiero religioso ad essere preoccupate: anche il mondo laico è in agitazione. Almeno in America, si sta anche delineando qualcosa che assomiglia a un «movimento dei consumatori». Quello animato dall’avvocato Jeremy Rifkin, ad esempio, si propone di aprire gli occhi alla gente sui pericoli connessi con la manipolazione del genoma umano e con le varie tecnologie bio-mediche, che si presentano sotto un aspetto innocuo. Ancor più: queste innovazioni pretendono di essere un dono delle divinità della tecnica agli uomini, per risolvere i loro mali. Ma l’umanità ― ammoniscono i profeti laici di oggi ― ha già espresso le sue perplessità nei confronti di simili doni con il mito della scatola di Pandora...

Il convegno del Cisf ha puntato in altra direzione, rinunciando a percorrere i sentieri della preoccupazione. Ha proposto una lettura dei fatti rivolta piuttosto a mettere in evidenza l’ambivalenza dell’intervento umano sulla vita, ma senza rinunciare a muovere da un presupposto di speranza. Basterebbe già questo intento per giustificare la proposta del Cisf.

Le possibilità che ci sono offerte dalle nuove tecniche bio-mediche possono essere comprese, meglio che con un discorso solamente razionale, attraverso un simbolo: quello della terra promessa. La terra «stillante latte e miele» ― secondo il linguaggio biblico ― quella che libera gli uomini dal triste

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giogo della costrizione imposto dalla pesantezza della natura, non è una terra vergine. Il simbolo della terra promessa si differenzia essenzialmente, da questo punto di vista, dall'immaginario che ha trascinato schiere di coloni americani verso la frontiera dell’Ovest. Essi immaginavano quelle terre come vergini, bisognose solo del loro sudore per produrre frutti in abbondanza. Gli autoctoni ― gli indiani ― non erano considerati come proprietari, ma come ostacoli da superare, ostilità naturali da distruggere, alla stessa stregua dei bisonti e degli orsi grizzly. Non così gli Ebrei nei confronti della Palestina. Sapevano che la loro terra promessa era abitata. La conquista doveva avvenire sotto forma di insediamento di un popolo, a prezzo della cacciata o dello sterminio di un altro.

La dimensione conflittuale è rimasta incollata al simbolo della terra promessa (e la situazione attuale della Palestina ce lo ricorda). Per questo motivo viene ad essere un’immagine più adatta di quella della «nuova frontiera» per evocare ciò che sta avvenendo in ambito bio-medico. La situazione si può riassumere in termini di scontro frontale: c’è già qualcuno che occupa quella terra, mentre un invasore ― ma che si sente autorizzato alla conquista da un mandato divino ― cerca di occuparla. Chi abita la terra è «la natura»; chi la invade è «il desiderio».

Le modalità del nascere, del riprodursi e del morire sono determinate dalla necessità della natura: con le sue potenzialità e i suoi limiti, la sua saggezza e le sue incomprensibili oscurità, con il suo volto benefico e le sue mostruose violenze. La storia dell’umanità può essere descritta come una storia di adattamenti al triste peso della necessità, mentre ben poche erano le possibilità di modificarla. La sterilità, ad esempio, doveva essere accettata, quando giungevano ben presto a termine le poche risorse mediche e le più numerose, ma dubbie per efficacia, risorse magiche per sventare le infecondità naturali; i limiti delle risorse terapeutiche rendevano spesso vana la lotta contro le malattie; l’incombere della morte non poteva essere procrastinato, una volta esaurite le limitate possibilità della medicina di darle scacco. Nascere,

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amare e morire: gli eventi fondamentali della vita biologica si realizzano, in regime di natura, sotto il segno di una sorda resistenza della materia ai progetti soggettivi.

Si può dare senso unitario ai progressi bio-medici contemporanei descrivendoli come un’occupazione della terra della necessità da parte del desiderio di salute, benessere, fecondità, longevità. «A me ― sembra dire il Desiderio ― questa terra è promessa!». L’uomo plasma il biologico secondo i propri progetti. La procreazione sarà quindi svincolata dallo spazio e dal tempo, addirittura resa indipendente dall’incontro sessuale: un figlio quando voglio, nel modo in cui voglio, addirittura un figlio su misura. La sessualità sarà separata dalla riproduzione. La morte stessa potrà essere tenuta sotto controllo, diventando il momento del morire una variabile dei mezzi rianimatori impiegati.

Restando all’interno della metafora, ci possiamo rendere conto che non è vera terra promessa quella che preveda il benessere di alcuni a spese di altri, secondo la logica della sopraffazione. La metafora stessa ci obbliga a inventare un’altra dimensione del simbolo. La benedizione di Dio non può essere fatta coincidere con il possesso di un bene, di cui si priva qualcun altro. Sarà vera terra promessa solo quella che permetterà ai due popoli di vivere insieme, sostituendo la modalità della proesistenza a quella del dominio violento.

Applicata l’immagine alla sintassi fondamentale dell’esistere nel corpo che abbiamo circoscritto entro le vicende del nascere, amare e morire, possiamo ipotizzare che la sola terra promessa che abbia carattere etico sarà quella in cui ci sia spazio tanto per la natura, quanto per il desiderio. Quest’ultimo non violenterà le strutture naturali, producendo nascite e morti totalmente svincolate dalla scansione che impone l’inerzia della materia; la natura, a sua volta, non eliminerà come irrilevante il desiderio, ma si piegherà ad esso, nella misura del possibile. Nella terra promessa gli opposti si relazionano non secondo la modalità disgiuntiva, ma congiuntiva: physis e techniképathos ed eros, la sottomissione

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alla vecchia Legge (Thora) e a quella nuova (Euangelion).

È una visione troppo idealizzata? Dovremo affidarci a una regolazione arbitraria, procedente da considerazioni etiche astratte, del conflitto che contrappone ciò che l’uomo subisce dalla natura a ciò che egli vorrebbe produrre nella natura, modellandola sul suo desiderio? Qui interviene l’elemento innovativo che il convegno del Cisf ha voluto introdurre nella problematica della bioetica: la famiglia. «Etica della vita e famiglia», specificava il sottotitolo del convegno. La famiglia è un luogo in cui il costante braccio di ferro tra natura e desiderio, tra costrizione e libertà, trova una specie di regolazione spontanea. Essa offre una modulazione naturale del conflitto tra i due pretendenti al possesso della terra. E questa si dimostra veramente «terra promessa» in quanto dilata i propri confini per accogliere gli uni e gli altri.

È ben vero che la famiglia non è un’oasi felice, dove si spengono le tensioni di fondo che travagliano l’esistenza umana. Ad esse, piuttosto, si aggiungono quei conflitti che derivano dall’intersoggettività, dal dover cioè condividere uno spazio ristretto con altre persone, portatrici di diversi progetti e desideri. Tuttavia in tanti secoli l’umanità non è riuscita a inventare qualcosa di meglio ― o, se si preferisce, di meno peggio ― della famiglia, come luogo in cui i desideri si compongono, perdendo la loro carica distruttrice anarchica. La famiglia è, oggi come ieri, un buon luogo per nascere, amare e morire. E anche un buon luogo per risolvere i dilemmi etici che pone oggi l’applicazione della tecnologia a tutto l’arco della vita umana, dalla nascita alla morte.

Non solo la bioetica, ma la stessa medicina tendenzialmente ignora la famiglia. La pratica medica adotta abitualmente un’ottica che esclude a priori qualsiasi modo di considerare la malattia che non la riduca a un fatto organico che avviene nel corpo del singolo individuo, e che il medico si preoccupa di rimuovere per ristabilire la salute. La famiglia del malato, come luogo in cui si svolge sostanzialmente tanto l’ammalarsi quanto il guarire, non viene presa in considerazione.

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Di fatto, il luogo deputato a trattare i problemi della salute è sempre più l’ospedale: il malato, sottratto alla famiglia, vi viene deposto; i contatti con i familiari vengono ridotti al minimo. Finita l’emergenza che ha portato al ricovero, l’ammalato viene dimesso, senza che i sanitari abbiano mai avuto veramente bisogno di prendere contatto con la famiglia.

L’esclusione della famiglia diventa addirittura tragica quando si tratta di assicurare al malato che non guarisce una morte con dignità. Chi si prende cura del malato terminale non deve essere necessariamente la famiglia in senso anagrafico. Questa ― ridotta nel numero e gravata dal costo e dalla sofisticazione delle cure ― è sempre più inadeguata a prendersi cura del malato cronico. Bisognerà supplire con l’intervento di altre presenze, professionali o no. Ma senza una «famiglia», nel senso spirituale che evoca questa parola, non si può ben concludere la vita. Come non si può ben iniziarla. Proprio la punta più avanzata del progresso tecnologico ci porta quindi a riscoprire l’aggregazione più antica e tradizionale, riconoscendole il valore di contenitore naturale di quella vicenda esistenziale che si modula sui verbi della vita, con i conflitti morali, vecchi e nuovi, che da essa si originano.

L’introduzione della famiglia nel dibattito sulla bioetica ha il vantaggio di contrastare la tendenza a cercare la sicurezza nei ridotti dell’ideologia, nella situazione di crisi provocata dalla transizione culturale e dal cambiamento dei parametri di comportamento etico tradizionali. L’indicazione globale che viene dagli studiosi convenuti a un confronto sul nascere, amare, morire, quale vicenda umana del massimo spessore etico, è univoca: nella famiglia è possibile non solo tutelare la vita, ma prendersi cura di essa. Senza la struttura fondamentale della reciprocità, che la famiglia rende possibile e garantisce, la vita umana perde il carattere di qualità che la rende appetibile.