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- Etica medica o bioetica? Una transizione epocale
- La bioetica per la formazione del personale sanitario
- La formazione del personale delle aziende sanitarie
- La formazione del personale sanitario in bioetica clinica
- Bioetica e deontologia professionale
- Certezze e incertezze del sapere medico
- Impariamo a litigare
- Né troppo né poco
- Un rapporto difficile
- Il bioetico non diventi un mandarino
Sandro Spinsanti
LA FORMAZIONE DEL PERSONALE SANITARIO IN BIOETICA CLINICA
in La rivista della Società medico-chirurgica vicentina
anno III, n. 3, settembre 1993, pp. 4-5
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Quali sono le associazioni mentali più probabili, quando sentiamo parlare di “bioetica”? Il termine è andato sempre più affermandosi nel dibattito pubblico relativo agli aspetti più problematici, dal punto di vista morale, dei progressi della medicina e della biologia. Ma, oltre a determinati contenuti, “bioetica” evoca anche un modo abbastanza stereotipato di trattarli. In genere all’origine di una discussione di bioetica c’è “il caso”: un fatto concreto, che i mass media provvedono a enfatizzare adeguatamente. Può essere una nascita che segna un nuovo traguardo nell’ambito della procreazione artificiale, un intervento spettacolare di terapia genica, un sofisticato trapianto di organi, un caso di eutanasia o di suicidio assistito, il dibattito su aborto o non aborto per le donne violentate in Bosnia. Praticamente, quasi ogni giorno possiamo aspettarci che la stampa ci fornisca, a grandi titoli, “il caso”.
A questo punto subentrano gli esperti. Opportunamente sollecitati, esprimono il loro parere. “Il caso” lo conoscono solo nella veste in cui è stato confezionato per l’informazione. Le esigenze mediologiche, inoltre, richiedono che il loro parere sia espresso in forma sintetica, efficace, con preferenza per gli schieramenti netti: sì o no, permesso o proibito, lecito o illecito. Gli adattamenti redazionali provvedono a fare gli opportuni raffronti tra le opinioni degli esperti, in modo da mettere in evidenza le contrapposizioni.
Gli americani hanno un’espressione molto evocativa per questo tipo di interventi. Lo chiamano to shoot from the hips. È il gesto del pistolero, che spara velocemente senza estrarre l’arma dalla fondina. I “casi” che arrivano all’attenzione del pubblico sembrano bersagli ideali per queste raffiche di giudizi etici, da parte di un gruppo ristretto e ben identificato di esperti che si vanno qualificando come “bioeticisti”.
Non possiamo che rallegrarci per la popolarità che sta assumendo il dibattito sulle scelte connesse con i trattamenti sanitari e la ricerca biomedica. Vediamo crescere una sensibilità per i dilemmi posti del trattamento responsabile della vita. E tuttavia il diffondersi del modello di bioetica qui evocato — con tratti ironici, ma spero non caricaturali — suscita parecchie perplessità. Possiamo riassumere le principali sotto tre termini: “rilevanza”, “competenza” e “metodo”.
Per “rilevanza” intendiamo la scelta di che cosa è ritenuto importante o degno di attenzione, e che cosa invece no. Ebbene, nella bioetica da mass media la riflessione etica viene messa in correlazione solo con i casi clamorosi ed estremi, quasi che quelli ordinari fossero irrilevanti. Semmai è vero il contrario: è soprattutto la pratica quotidiana della cura della salute e dell’assistenza agli infermi che è carica di perplessità e obbliga a scelte in cui si giocano importanti valori morali. Non è solo il dilemma se staccare o no la spina dal respiratore in un malato in coma irreversibile che presenta un problema etico, ma le mille piccole scelte connesse con il trattamento di una malattia grave o a prognosi infausta. Se e come dare l’informazione, il consenso del paziente ai trattamenti che lo riguardano, la ripercussione delle scelte terapeutiche non solo sulle possibilità di guarigione ma anche sulla qualità di vita: sono solo alcuni degli aspetti che fanno della cura quotidiana della salute un fatto non solo tecnico ma relazionale. Di rilevante importanza per l’etica, quindi, anche quando non si presenta sotto l’aspetto di un caso clamoroso.
Parlando di “competenza”, mi riferisco invece ai
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soggetti autorizzati a svolgere tale riflessione etica. Ben vengono gli esperti di bioetica: purché, però, ciò non porti all’espropriazione dei veri titolari dell’etica. Vale a dire, di tutte le persone ragionevoli e responsabili. Una delle ragioni di non minor peso a favore del ricorso al termine bioetica, a preferenza del più tradizionale “etica medica”, è proprio il fatto che esso sposta l’accento dalla pretesa competenza esclusiva di un gruppo di professionisti — etica “medica”, intesa come etica propria “dei medici”, determinata dal loro sapere specifico — al coinvolgimento di tutti nelle decisioni che riguardano la vita e la sua cura. Sarebbe una beffa se la bioetica, invece di promuovere il dialogo e la partecipazione attiva di tutti nelle scelte di natura terapeutica e nell’applicazione del sapere biomedico, favorisse l’emergere di nuovi mandarini del sapere etico.
Il terzo motivo di perplessità nei confronti della bioetica quale viene messa in atto nei dibattiti pubblici è riferibile al metodo. Si ha l’impressione che il confronto sui principi e gli schieramenti ideologici abbia la precedenza. I diversi “casi” clamorosi, dei quali ama occuparsi la stampa e la televisione, vengono utilizzati in quanto portano materiale argomentativo per consolidare tesi precostituite.
Il disagio maggiore verso una bioetica di questo tipo lo esprimono quei sanitari che sono più sensibili e più impegnati sul fronte dell’etica clinica. Sentono una certa qual estraneità di quel procedere argomentativo che è proprio della bioetica — interessato ai principi più che ai fatti clinici nella loro concretezza e singolarità, e teso a produrre una sorta di sapere normativo, che pretende di guidare in modo del tutto esterno e per così dire “automatico” l’azione di chi opera nel contesto sanitario — rispetto al punto di partenza di ogni processo decisionale che è proprio del medico: la diagnosi, la prognosi e la considerazione comparativa dei rischi e benefici.
I clinici hanno sempre saputo che le decisioni che si prendono al letto del malato non sono illustrazioni astratte di teoremi morali, ma vere e proprie “creazioni” che nascono nell’orizzonte di incertezza che è proprio della medicina. Così è sempre avvenuto fin dal tempo della saggezza ippocratica e della filosofia aristotelica, la quale collocava le decisioni pratiche che devono essere prese in medicina nell’ambito dell’“arte” (techne), piuttosto che in quelle del sapere scientifico (episteme).
Qualunque sia il ruolo specifico che sono chiamati a svolgere — come medici, come pazienti o come familiari — coloro che devono prendere delle decisioni difficili in cui sono implicati fatti obiettivi e valori personali, benefici e danni, preferenze e scelte che fanno corpo con l’unicità irripetibile di una vita individuale, tendono a diffidare di filosofi e teologi. Questi propongono magari soluzioni ineccepibili, ma che spesso hanno il difetto di adattarsi alle situazioni.
L’etica clinica, senza essere sinonimo di pressapochismo, è un esercizio particolare della razionalità umana: quella che deve essere esercitata nel contesto di un sapere incerto e deve tener conto contemporaneamente della norma e delle eccezioni, dei principi e delle circostanze, di ciò che è formalmente “corretto” e di ciò che in una situazione concreta risulta “bene” o “male minore”. Questo ragionamento pratico ha il suo coronamento non nella deduzione astratta, ma in quel giudizio prudenziale che Aristotele chiama phrónesis e che i latini hanno tradotto con il termine prudentia.
Il medico che si è esercitato nel giudizio “prudente” sa che non è stato mai possibile praticare una buona medicina che non fosse anche intrinsecamente etica, ovverossia penetrata di quella razionalità comune alle decisioni cliniche e alle scelte morali. Oggi cambia semmai il ruolo del paziente, al quale si richiede maggiore disponibilità a lasciarsi coinvolgere nei diversi scenari terapeutici e nelle scelte conseguenti, rinunciando ad affidarsi a quel paternalismo medico che ama nascondersi dietro il generico appello alla “scienza e coscienza”. Ma la struttura dell’etica clinica resta la stessa e il giudizio prudenziale continua ad essere la sua pietra angolare.
Se i medici sentono la bioetica come estranea al sapere che è loro proprio, i “bioeticisti” (come si comincia a chiamarli, con un brutto neologismo di stampo americano) farebbero bene a farne l’occasione per un ripensamento della loro disciplina, E magari a domandarsi come integrare nel dibattito pubblico sulle scelte a cui la medicina ci obbliga quel sapere morale allo stesso tempo universale e concreto, cieco come la giustizia ma anche parziale come l’amore, che caratterizza le buone scelte etiche che si fanno al capezzale del malato.