Sandro Spinsanti
LA PROMOZIONE DELLA SALUTE MENTALE
Il paradigma della bioetica
in Neopsiche, Rivista di Analisi Transazionale e Scienze Umane, Anno 2012, Numero 11
Ananke, Torino
pp. 11-16
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I professionisti della salute mentale sono stati sempre consapevoli ― almeno a livello implicito ― della profonda differenza che esisteva tra il loro rapporto con coloro che ricorrevano alle loro prestazioni e le relazioni che attivavano il ricorso alla medicina. I medici godevano di ampia delega sociale a intervenire nell’ambito della salute (fisica). Ancor più: non avevano bisogno di chiedere ai pazienti quali fossero i benefici che questi si aspettavano dall’intervento professionale. Al medico si attribuiva un sapere certo relativamente al bene del paziente (in inglese: Doctor knows best!).
Lo psicologo/psicoterapeuta, invece, non poteva far affidamento su una domanda implicita che affidava alla sua professionalità l’individuazione del bisogno e della risposta terapeutica appropriata. Doveva, invece, ricevere una domanda esplicita di aiuto ed elaborarla in un costrutto che contenesse gli obiettivi che il processo terapeutico si proponeva di ottenere. Per dirlo con una formula: la medicina veniva esercitata all’interno di una modalità relazionale di tipo paternalistico (in cui chi sta nella posizione dominante di one up definisce e persegue il fine di chi sta in posizione one down), mentre la psicoterapia aveva bisogno di una relazione che riconoscesse l’autonomia sia del terapeuta che del paziente/cliente.
Un movimento culturale ha portato a modificare le modalità di esercizio della medicina. Il cambiamento ancora in corso ― ha poco più di due decenni di storia. Lo possiamo qualificare come il passaggio dell’etica medica alla bioetica.
La transizione dal paradigma dall’etica medica a quello della bioetica comporta un cambiamento di scenario non solo dal punto di vista procedurale (non è più il medico che decide, in scienza e coscienza, il trattamento opportuno), ma anche sostantivo. La determinazione di ciò che è “bene” per il paziente ― tanto per le sofferenze
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somatiche che per quelle psichiche ― prevede l’intervento attivo della persona stessa 1. Si tratta di un empowerment che non può essere cancellato dalla localizzazione della patologia. Rispetto alla medicina somatica, però, il quadro si complica, perché della malattia mentale si occupano diverse discipline e pratiche professionali, portatrici di diversi assunti impliciti. Ogni professione si appoggia a un corpo dottrinale teorico (che mostra la tendenza a irrigidirsi in una “ortodossia”) e si esprime in una pratica condivisa (rafforzata spesso da una specifica codificazione deontologica). Le diverse professioni costituiscono sovente dei mondi autonomi, con scarsa comunicazione, senza sistematici accessi reciproci.
Una situazione di questo genere si verifica anche nei confronti della sofferenza mentale o psichica. Si possono distinguere tre profili professionali che rispondono all’interpellazione del disturbo psichico: la psichiatria, la psicoanalisi/psicoterapia e il counselling a orientamento umanistico-transpersonale. Ogni professione lavora con un paradigma interpretativo, più o meno esplicito ed elaborato, della malattia mentale; ognuna accentua una dimensione dell’essere umano o attribuisce il primato a un diverso elemento. Mentre la psichiatria sottolinea il primato della dimensione somatica ― neurologica o biochimica del cervello ―, la psicoterapia accentua il primato della persona e la prospettiva umanistica si orienta verso la dimensione transpersonale. Quando i referenti dottrinali si irrigidiscono in dogmatismo, tendono a negare il valore di altri sistemi e di altri approcci pratici.
I tre profili professionali si modificano con il tempo. Il paradigma psichiatrico-sintomatico è stato profondamente scosso dalla svolta avvenuta in medicina con la recente scoperta di farmaci efficaci. Nella medicina dell'inizio del nostro secolo (e in buona parte anche dopo) la diagnostica procedeva più celermente della terapeutica. I migliori medici sapevano diagnosticare egregiamente l’ubicazione e la modalità delle malattie; ma, quanto al trattamento, sapevano tutt’al più palliare i mali, non curare le cause. La rivoluzione farmacologica ―
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con l’uso di antibiotici a largo spettro, corticosteroidi, psicofarmaci ecc. ― ha permesso di bloccare le manifestazioni morbose, anche senza conoscere le loro vere cause. L’introduzione degli psicofarmaci ha sconvolto il nichilismo terapeutico della psichiatria tradizionale, che per questo era costretta a ricorrere ai sistemi di contenzione in uso negli ospedali psichiatrici. La possibilità di eliminare i sintomi non ha condotto a rimettere in discussione il paradigma psichiatrico-sintomatico; anzi non pochi psichiatri hanno ripiegato su un organicismo sempre più radicale. Lo sviluppo delle neuroscienze ha costituito un giro di vite nella direzione del riduzionismo.
La pratica psicoterapica ― di cui la psicanalisi costituisce il caso eccellente ma non esclusivo ― ha in abominio il procedimento esclusivamente sintomatico. Nel suo paradigma il sintomo è piuttosto un messaggio da interpretare; costituisce una crisi in un’autobiografia, o in un sistema relazionale, che equivale a un appello e a uno stimolo al cambiamento. La terapia consiste essenzialmente nel far parlare ciò che è stato “scomunicato” (nel senso letterale della parola, ossia sottratto alla comunicazione). Questo paradigma si può anche trovare, senza alcuna forzatura, nella medicina tradizionale, che sapeva ancora leggere il sintomo come segno.
Con gli sviluppi dell’arte medica più recenti, l’interpretazione dei sintomi, finalizzata alla svolta e al cambiamento, è diventata estranea alla pratica medica, per essere riservata all’esercizio della psicoterapia. Questa divisione di compiti e funzioni è stata profondamente interiorizzata dal paziente dei nostri giorni: dal medico (psichiatra) ci si aspetta che tolga il sintomo, senza lavoro interpretativo o di scavo; coloro che vogliono altro, vanno dallo psicoterapeuta. Il medico si trova così costretto a colludere col desiderio del paziente, teso a coprire con il farmaco più efficace il male più profondo che si manifesta nei sintomi (ansia, insonnia, depressione, disturbi neurovegetativi...). Molti pazienti stessi non accetterebbero un procedimento diverso.
Il film più recente del regista inglese Mike Leigh, Another year, presentato con successo al festival di Cannes nel 2010, offre un esempio illuminante di tale atteggiamento riduttivo. Il film si apre con una scena che si svolge in un ambulatorio medico. Gerri, la protagonista, è una psicologa in una struttura pubblica. Le si presenta
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una paziente che ha la depressione e l’infelicità scritte in faccia. Soffre d’insonnia e chiede un farmaco per dormire. La psicologa si dice disposta a prescriverglielo, ma allo stesso tempo le propone di fare dei colloqui. Fanno parte del trattamento e sono coperti dal servizio sanitario. La paziente è riluttante e solo con grande difficoltà la psicologa riesce a convincerla a presentarsi all’appuntamento. L’incontro ha luogo, ma si conclude con un fallimento: la signora non è disposta a sciogliere nessuno dei nodi con cui è stretta all’angustia familiare e personale che la psicologa ― e noi spettatori con lei ― indovina dietro le occhiaie dell’insonnia: la paziente si dice convinta che, se riuscirà ad avere un sonno regolare per un mese, tutto sarà sistemato. Insiste quindi nella richiesta delle pillole. Alla psicologa non resta che una ritirata con discrezione.
Qual è la malattia? E quale il rimedio?
La paziente e la professionista sanitaria hanno due concezioni diverse della patologia e della cura adeguata; immaginano due diversi percorsi verso la guarigione. Per la signora che ricorre all’aiuto professionale della psicologa il problema si chiama insonnia; quando non avrà più questo sintomo fastidioso, si considererà guarita. La professionista ― in questo caso la psicologa ― ha una diversa rappresentazione della malattia: per lei il male parla attraverso il sintomo, ma non si identifica con il sintomo stesso. Va scoperto e stanato dalla profondità dove si nasconde, affinché la persona possa camminare verso la guarigione. Dissente dalle categorie di patologo/terapeutico che il paziente si è costruito, perché vuol portarlo a un modello più alto di salute. Possiamo chiamare questo stato, prendendo in prestito l’espressione da Friedrich Nietzsche, la “Grande Salute”, ovvero uno stato nel quale prende una forma più completa di autorealizzazione dell’essere umano.
Con queste considerazioni siamo entrati nel terzo scenario, costituito dal paradigma umanistico-transpersonale. L’antecedente culturale remoto della dimensione trascendente entro la quale considerare i sintomi dei quali si occupa la psichiatria è costituito dalla prospettiva religiosa 2. Una rilevante trasformazione storica ha portato le religioni
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istituzionalizzate a lasciare progressivamente il campo dei fenomeni psichici, compresi quelli a contenuto religioso, a discipline specialistiche dell’ambito medico. L’ambito spirituale si è psichiatrizzato. Oggi non si rischia più di finire sul rogo se si pretende di aver avuto “commercio con il diavolo”; è anche molto improbabile di avere gli onori degli altari per visioni e rivelazioni... (semmai, se qualcuno confessa al padre spirituale di sentire delle voci, ha un’alta probabilità di ricevere, di rimando, l’indirizzo di uno psichiatra di fiducia!). Il paradigma umanistico-transpersonale si è sviluppato perciò entro un contesto secolare, non religioso. Alle fondamenta di questa concezione della malattia mentale possiamo collocare la teorizzazione del normale/patologico proposta dalla “medicina antropologica” di Viktor von Weizsäcker, secondo la quale la malattia va interpretata come evento biografico 3. La malattia dell’uomo, in questa concezione, “non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso” Questa visione filosofica della malattia, che la medicina antropologica applica a tutto il vasto arco del patologico, è particolarmente rilevante per la malattia psichica.
La sfida costituita da questo ripensamento dei malesseri psichici ed emotivi è stata raccolta, successivamente al movimento della “medicina antropologica”, fiorito nella prima metà del XX secolo, dal movimento umanistico-transpersonale, che è andato prendendo forma nella seconda metà del secolo scorso. Le espressioni psichiche malate e disadattate, abitualmente interpretate entro paradigmi psichiatrici, potrebbero invece essere il segno di una “emergenza spirituale” (Stanislav Grof). Il movimento transpersonale afferma con forza una concezione antropologica che vede nell’uomo anche una potenzialità spirituale, che tende a stati di coscienza unitiva con il Tutto, meglio descritti con il linguaggio dei mistici che degli
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psichiatri 4. Esso sta educando la comunità scientifica, che non scelga di chiudersi pregiudizialmente a tale ipotesi, a nutrire quanto meno il sospetto che ci possa essere una dimensione di crescita che punta in questa direzione. Il sospetto appare più saggio dell’atteggiamento di sufficienza proprio del riduzionismo scientista.
L’approccio umanistico-transpersonale può essere apparentato al filone filosofico che promuove l’autocura e lo sviluppo di una “storia interiore di vita”. La riscoperta della “cura di sé” oggi percorre le vie del counselling filosofico, secondo il modello della pratica filosofica divulgato da Gerd Achenbach. I pensatori di riferimento comprendono un arco molto vasto che va da Pierre Hadot, che rilancia la tradizione dell’antichità classica della filosofia come “esercizio spirituale”, a Victor Frankl con la sua “logoterapia”, fino a Ludwig Binswanger e la Daseinanalyse, senza dimenticare approcci di psichiatria a indirizzo fenomenologico, rappresentati in Italia in modo eminente da Eugenio Borgna.
In questo paradigma i sintomi non sono psichiatrizzati ma piuttosto interpretati come segno di una stasi nella crescita personale e come il richiamo di una dimensione che trascende la persona. I sintomi possono essere il linguaggio di uno stato di coscienza superiore (anche se lo Champollion che possa interpretare questi geroglifici non sembra ancora nato... !). Noi ci aspettiamo che la bioetica sappia tenere aperto un orizzonte in cui tutt’e tre i paradigmi professionali menzionati abbiano una loro giustificazione e possano trovare una proficua complementarietà. Il discorso relativo all’utilità degli psico-farmaci e alle relative indicazioni, a seconda delle diverse situazioni, è demandato a una medicina clinica, che sappia però tenere in considerazione la complessità del fenomeno umano.
NOTE
1 Cfr. Sandro Spinsanti, “Etica medica e bioetica in cento anni di professione”, in AA. VV., Centenario dell’istituzione degli ordini dei medici, Roma 2010, pp. 223-236.
2 Cfr. William J. Richardson, “Religion and Mental Health”, in Warren Reich (a cura): Encyclopedia of Bioethics, Macmillian, New York 1978, pp. 1064-1070. Cfr. Sandro Spinsanti, Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di Viktor von Weizsäeker, ed. Paoline, Milano 1988.
3 Viktor von Weizsäcker, Arzt und Kranker, Leipzig 1941, cfr. Anche V.v. Weizsäcker, Pathosophie, Göttingen 1967.
4 Stanislav Grof, Oltre il cervello. L’esplorazione trans personale delle possibilità della coscienza umana, Cittadella, Assisi 1988.