Medicina in transizione e nuovi orizzonti

Sandro Spinsanti

MEDICINA IN TRANSIZIONE E NUOVI ORIZZONTI PER LE RESPONSABILITÀ PROFESSIONALI

in Il medico e l’infermiere a giudizio

Atti del I° Convegno Nazionale dell'Ordine dei Medici di Siena, Collegio IPASVI di Siena, CEDIPROS di Firenze

Siena, 10-11 aprile 1997 - Lauri Edizioni, Milano 1998

pp. 39-47

39

Nella formulazione della tematica di questo convegno la declinazione della responsabilità del professionista sanitario è fatta al presente. Sullo sfondo aleggiano delle concrete domande, comprensibili e giustificate: “Che cosa mi succede se mi comporto in questa maniera? Chi paga se le cose vanno male? A chi spetta fare che cosa? A chi devo rispondere del mio operato?”.

Questi interrogativi costituiscono lo scenario del convegno, che prende a tema la responsabilità professionale. Senza negare la centralità e l’urgenza di domande così rilevanti per la sicurezza nell’esercizio della professione, proporrei di riservarle soprattutto alla parte dibattimentale, dedicando invece questo momento di riflessione a un allargamento del tema.

Vorrei analizzare quali dimensioni sono proprie della responsabilità, oltre a quella di natura giuridica. In concreto, cercherà di coniugare il verbo non solo al presente (“Sono responsabile?”; oppure: “Chi è responsabile e rispetto a che cosa è responsabile?”) ma anche nei tempi del passato ― passato prossimo e passato remoto ― e del futuro ― futuro prossimo e futuro anteriore.

La responsabilità in medicina quale professione liberale

Per quanto riguarda il passato prossimo, mi riferisco a quella tradizione che colloca la medicina nel contesto di un esercizio delle professioni liberali. Il concetto di professione liberale isola, tra le diverse occupazioni professionali, quelle professioni che non sono come le altre. A colui che le esercita spetta una collocazione particolare nella società. Di conseguenza, anche la responsabilità di chi esercita la professione liberale è articolata come una responsabilità “sui generis”.

La responsabilità professionale in molte cose si distingue dalla responsabilità morale comune, in quanto il professionista di una professione liberale non risponde in tutto e per tutto come qualsiasi altro cittadino. Grazie alla morale professionale, nelle relazioni sociali

40

viene concessa ad alcune persone ― identificate appunto come professionisti ― una autorità speciale, a cui consegue una impunità per certi atti. Che cosa succede se le cose vanno male al professionista liberale? A meno che non ci siano quelle colpe che per la medicina sono state classicamente riassunte in imperizia, imprudenza e negligenza ― colpe che in ogni caso devono essere dimostrate: e di solito non è un’impresa facile ― se le cose non hanno l’esito previsto non succede niente. L’assunto può essere illustrato con un esempio letterario. Lo troviamo nella Madame Bovary di Flaubert.

Charles Bovary, il marito della protagonista, che esercita la professione di medico, a un certo punto decide di procurare un miglioramento qualitativo alla vita del garzone della locanda, che ha un piede equino.

Con il consenso di tutta la cittadinanza ― e con quello estorto al povero giovane, al quale vengono decantati i benefici ma non i rischi ― gli pratica la rescissione del tendine. Dall’operazione si aspetta riconoscimento e fama: se ne parlerà anche nei giornali di Parigi.

L’operazione, come era prevedibile, va male, molto male: non solo il garzone non migliora l’uso del piede, ma sopravviene un processo infiammatorio; la gamba va in setticemia e deve essere amputata. Che cosa succede a Charles Bovary? Semplicemente che fa una brutta figura, sia agli occhi dei concittadini che a quelli della moglie (che nel disprezzo per il marito si sente giustificata a fare un passo in più verso l’adulterio). È un esempio chiaro della pratica impunità di cui ha goduto, nel passato prossimo da cui proveniamo, la medicina quale professione liberale.

Le professioni liberali sono caratterizzate da conoscenze scientifiche e tecniche particolari, ma soprattutto dall’adesione a un ideale di servizio che giustifica la professione stessa. Questa convinzione fa parte dei miti che circondano le professioni liberali. Non li chiamo miti in senso svalutativo, ma in quanto partecipano alla condizione di convinzioni non verificate, che si coagulano intorno alla professione. I miti di cui si sono nutrite le professioni liberali sono: la scelta della professione come “vocazione”, l’altruismo e l’ideale di servizio alla società, la peculiarità della formazione ricevuta, l’impossibilità per il cliente di valutare la prestazione professionale, l’autoregolazione e il segreto professionale. Tutti questi elementi sono appunto “miti”, non in senso denigratorio ma descrittivo; conferiscono un profilo particolare alla professione liberale, in conseguenza del quale la professione gode di quella specie di extraterritorialità nella società stessa che si ritiene necessaria affinché la professione possa svolgere la propria funzione sociale.

Quando sentiamo dire che il professionista medico prende le sue decisioni in “scienza e coscienza”, siamo esattamente in questo ambito. L'impunità dunque è la prima fondamentale caratteristica di cui dobbiamo tener conto: parlare di una responsabilità penale per Charles Bovary, che ha fatto per il garzone della locanda ciò che riteneva essere per il suo bene, è un vulnus inferto all’identità alla professione liberale. Una ulteriore domanda che ci possiamo fare è se questa identità abbia un carattere classista; in altre parole, l’impunità

41

vale per tutti o si applica in modo differenziato? Un’altra citazione di un classico della letteratura ― Il malato immaginario di Molière ― può suggerire una risposta. Benché ambientato un paio di secoli prima della fioritura delle professioni liberali, che avverrà nell’ottocento, presenta già il profilo essenziale delle professioni tipiche dell’epoca moderna. Il malato immaginario sa che il farmacista ha un figlio che studia medicina; gli chiede se pensa di favorire il futuro di suo figlio trovandogli un posto a corte, date le relazioni che ha. Il farmacista risponde in senso negativo, perché ― spiega ― “il nostro mestiere presso i grandi non mi è mai sembrato gradevole: ho sempre trovato che è meglio per noi rimanere con il popolo. Il popolo è di facile contentatura. Non avete da rispondere delle vostre azioni a nessuno. Il fastidio tra i grandi è che quando si ammalano vogliono assolutamente che il medico li guarisca”.

Non voglio dire con ciò che ci sia una forma di classismo implicito nella concezione dell’etica professionale; bisogna ammettere che è stata talvolta invocata accentuando il suo carattere autoreferenziale, senza un corretto riferimento alla qualità delle cure vista dalla prospettiva dei cittadini oggetto delle cure. Tuttavia, anche se qualcuno ha utilizzato male l’etica professionale che sta nel nostro passato prossimo ― con un senso appunto di impunità che poneva il professionista al di sopra di ogni responsabilità ― è pur vero che questo modello ha veicolato un insieme di valori molto importanti, legati al fatto che la professione richiede di essere esercitata con uno spirito particolare. Ciò è vero soprattutto per la medicina. Questa richiede una dedizione al malato, che è l’anima stessa della professione.

Si è soliti chiamare ethos ippocratico questo spirito particolare che anima la medicina, giustificando con questo riferimento ideale lo statuto particolare del rapporto che lega il professionista medico al suo cliente.

Ho trovato nel libro scritto da un medico, Giacomo Mottura, deceduto qualche anno fa ― un medico che ha molto meritato sia per la medicina che per la vita civile e politica della sua città ― una efficacissima descrizione del senso e della funzione dell'orientamento ai valori che si richiamano a Ippocrate. Si trova in un libro dedicato al giuramento di Ippocrate, dove vengono dettagliatamente esaminate le vicissitudini storiche e le trasformazioni dell’etica ippocratica nel corso dei secoli (Il giuramento di Ippocrate, Ed. Riuniti, 1986). Al termine del libro, proprio nell’ultima pagina, Mottura si domanda se abbia ancora una giustificazione riferirsi a Ippocrate al giorno d’oggi. La sua risposta è positiva: “Si tratta di dare una risposta al ‘chi me lo fa fare’, motto terribilmente sconfortante quando lo si sente usare cinicamente, appunto come replica senza risposta (...) Le ragioni del fare, quando il fare è gravoso, non risultano sempre spianate e convincenti dalla bocca di coloro che la sanno lunga sul Padre Eterno o da coloro che trattano con mirabile destrezza la filosofia. La risposta pare avvicinarsi quando, invece che al ‘perché’ si pensa al ‘per chi’, che è il prossimo, qualche volta anche dimenticando se l’azione può riuscire, se è utilitariamente conveniente, preferendo il gratuito, non rifuggendo da ciò che pare impraticabile”.

Quando il motivo dell’azione professionale non sono i soldi, né la carriera; quando si

42

aggiungono anche le responsabilità personali, l’etica ippocratica ci rinvia a un’eccedenza, un qualcosa in più che induce il professionista a fare il bene del paziente in derivazione da quello spirito del tutto particolare che anima la professione. Per illustrare l’affermazione Mottura conclude il libro con un aneddoto. Si tratta della vicenda di Celestina, che aveva conosciuto come giovane montanara nell’“alpe superiore”, dedita ai lavori della pastorizia. Dopo aver assistito i suoi genitori, a sua volta nella vecchiaia è costretta da un duplice carcinoma a ricoverarsi nell’ospedale, dove riceve professionalmente le cure che lei ha dato per amore filiale ai suoi cari. Pochi giorni prima di morire, disse a chi la curava: “Io non credo nel miracolo facile, ma è un miracolo vedere come tanti si sono dati da fare per aiutarmi”. In questo episodio di normale routine sanitaria, che non ha in sé niente di spettacolare, è racchiuso lo spirito che anima, al suo meglio, le professioni sanitarie: medici e infermieri insieme hanno fatto per questa donna quello che lei stessa ha fatto per i suoi genitori: si sono presi cura di lei con assoluta dedizione, facendo per professione l’analogo di ciò che lei ha fatto per pietas filiale.

Noi veniamo come passato prossimo da questa tradizione. I due aspetti che caratterizzano l’etica professionale del sanitario ― da una parte un grande valore morale: la medicina praticata da professionisti animati da spirito filantropico e dall’altra, come correlato, la loro collocazione al di sopra della responsabilità comune, quella riconducibile a norme e parametri validi per tutti ― appaiono intimamente intrecciati. Tuttavia questa prospettiva che ci fornisce il passato prossimo non basta: noi non riusciamo a capire la medicina liberale se non teniamo conto anche del passato remoto.

Le radici sacrali della professione medica

La concezione della medicina occidentale risale propriamente all’epoca greca, ed è antecedente alla stessa formulazione ippocratica. In quest’ultima, infatti, è confluito un modello sacrale o religioso, molto più arcaico e fondamentale. La responsabilità professionale articolata dalla medicina che si è espressa nella professione liberale in realtà è ereditaria di un modello a valenza più religiosa che giuridica. Siamo in grado di cogliere la transizione da un modello all’altro se prendiamo a guida proprio le due parole chiave che guidano la riflessione in questo incontro: professione e responsabilità.

Sappiamo che il termine “professione”, comune nelle lingue neo romanze, viene dal latino professio. Ha come radice il verbo fassiofassus, che troviamo in due parole: professione e confessione. L’idea contenuta nella radice si esprime, con due articolazioni diverse, sia nella professione ― come gruppo di persone che esercitano un’attività organizzata a beneficio di altri ― sia nella confessione. Questa ha il significato di pubblica promessa, di consacrazione. I due termini si sono molto ravvicinati quando nel medioevo il termine “professione” ha avuto una valenza religiosa esplicita, in quanto è stato utilizzato con riferimento alla vita monastica; anche oggi parliamo di “professione di fede” o di qualcuno che professa una religione. In questi casi diventa esplicito il significato fondamentale di

43

una consacrazione che è insito nella professione.

Un percorso analogo ci fa fare il secondo termine: “responsabilità”. Viene dal latino spondeo, che significa prendere un impegno solenne a carattere religioso. Il modello fondamentale per l’antica cultura latina era il padre, il quale spondebat la figlia. Il padre si impegnava a dare in matrimonio la figlia, la quale in quanto “sponsa” era l’oggetto della promessa; quindi “spondere” significa dare esecuzione a un adempimento solennemente assunto; colui che “spondebat” rispondeva alla sua promessa. “Rispondere” significa impegnarsi in qualcosa mediante una promessa vincolante e “responsabilità” rimanda alla condizione di chi si è impegnato. Quindi la responsabilità nella sua eccezione fondamentale ha un carattere metagiuridico: è un impegno di donazione assoluta e perpetua, che si può assumere solo con azioni transgiuridiche, ovvero con ragioni morali o religiose.

Vediamo perciò profilarsi due forme di responsabilità: una “forte” e una “debole”. La responsabilità forte è quella che caratterizza alcune professioni (oppure la responsabilità che vediamo in azione negli sponsali storici: in questi, infatti, a differenza della responsabilità che si assume mediante un contratto giuridico, la figlia sponsa rimaneva promessa; questi sponsali erano intesi come indissolubili, a differenza del matrimonio moderno, che riposa sulla volontà degli sposi di mantenere il legame). Abbiamo quindi due tipi di professioni: le professioni propriamente dette e i mestieri. Questi ultimi sono caratterizzati da una responsabilità giuridica, mentre le professioni hanno una responsabilità quasi religiosa.

Tradizionalmente sono tre le attività umane che hanno beneficiato di questa forma di responsabilità forte: il “sacerdozio”, la “regalità” ―con il potere giuridico correlato della magistratura ―e la “medicina”. Queste tre attività sono state intese come professioni forti, nel senso sacrale; di conseguenza hanno goduto di una responsabilità forte, in quanto la responsabilità che si contrae in questa professione eccede il contratto giuridico. Il professionista è responsabile della persona che gli si affida o che ha bisogno di lui, in modo molto più vincolante rispetto alla responsabilità che si contrae facendo, per esempio, un contratto di compravendita, soggetto a clausole di rescissione. Nella responsabilità forte delle professioni che mantengono l’aureola sacrale di cui si sono fregiate ―professioni regali, sacerdotali e mediche ― questo concetto transgiuridico di responsabilità esercita la sua influenza.

La transizione verso la modernità

Ci si potrebbe domandare se questo cammino a ritroso, che dal passato prossimo della medicina liberale ci ha portato a parlare del passato remoto di una medicina concepita come professione a carattere sacro, sia pura erudizione o abbia una vera incidenza sul presente. La mia tesi è che questa luce radente del passato ― prossimo e remoto ― dà rilievo al presente e ci aiuta a preparare il futuro. Il passato e il presente sono in rotta di collisione. Infatti il modello forte di responsabilità ― che considera il professionista sanitario responsabile per il malato indipendentemente da quello che la legge o altri vincoli contrattuali di

44

natura giuridica possono obbligarlo a fare, responsabile per una forma di dedizione che eccede quanto può essere radicato nel contratto sociale; una dedizione che è la contropartita etica dei rapporti di natura paternalistica ― non si può più coniugare con la cultura moderna.

Il conflitto che si delinea sta scuotendo equilibri secolari nell’ambito dell’etica che regola la medicina: i valori etici che sono stati veicolati dalla concezione sacrale e da quella libero-professionale devono confrontarsi oggi con una società in cui non c’è più, da una parte una persona che in forza della sua dedizione è vincolata da obblighi quasi unilaterali, come l’impegno a orientarsi a fare il bene del malato, anche contro il proprio interesse, e dall’altra un malato, visto unicamente sotto l’angolatura del suo stato fragile e di bisogno. Il sanitario ha di fronte un altro individuo, con il quale entra in un rapporto di responsabilità condivisa, che assomiglia sempre di più alla responsabilità debole, cioè a quella giuridica.

Un documento ufficiale del Comitato Nazionale per la Bioetica ― Informazione e consenso all’atto medico, del 1992 ― descrive questa transizione con parole molto appropriate e pertinenti al nostro tema della responsabilità: “Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società. Si ritiene tramontata la stagione del paternalismo medico, in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato ad esplicare nell’esercizio della professione, legittimato ad ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente e a trasgredirle quando fossero in contrasto con le indicazioni cliniche in senso stretto”. La transizione si gioca quindi tra il modello sacrale ― rafforzato dalla concezione dell’etica medica liberale ― e il modello moderno, dove al paziente spetta un ruolo attivo (“partecipazione alle decisioni che lo riguardano”, specifica il Comitato nazionale per la bioetica). Il consenso informato è il luogo critico dove si traduce in questa nuova modalità di fare medicina.

Fino che a qualche tempo fa non avremmo mai immaginato di trovare in libreria un libro rivolto al comune lettore con il titolo: Come riconoscere il medico giusto e difendere i vostri diritti di pazienti (ed. Franco Angeli, 1994). Potremmo prenderlo come un segnale del fatto che nella nostra società il modello della responsabilità assoluta del medico, su base sacrale, sta battendo in ritirata. Nel libro in questione troviamo un paragrafo intitolato: “Il medico informa e propone, l’ammalato decide”. La transizione, riassunta in termini così drastici, può far sorgere qualche perplessità. Ma la ricostruzione storica cui si appoggia è incontrovertibile: “Per molti secoli al medico ci si rivolgeva un po’ come al proprio confessore: a quest’ultimo si comunicavano le inquietudini dello spirito, al dottore i mali del corpo. E il medico, come il sacerdote, trattava il malato con modi quasi paternalistici. Questa visione ha dominato nel mondo della medicina fino a qualche decennio fa; poi si è gradualmente fatta strada una nuova filosofia che ha finito di rivoluzionare il rapporto tra medico e paziente. Oggi prima di iniziare qualsiasi terapia il primo passo da fare è quello di ottenere il cosiddetto consenso informato del paziente”.

45

In che misura e attraverso quali modalità il modello moderno quanto è entrato nella cultura sanitaria di oggi? Qualcuno sostiene che i pazienti italiani si attengono ancora ai modelli di comportamento premoderni. Non vorrei che certezze soggettive di questo genere corrispondessero alla realtà come la convinzione dell’indiano che, con l’orecchio appoggiato al terreno, ritiene che i bufali siano lontanissimi (mentre lo stanno per incornare) per il motivo che è sordo! È possibile che coloro che ritengono che i pazienti siano ancora molto lontani dalla modernità siano afflitti da qualche difetto di udito.

L’attenzione al paziente e ai suoi diritti di informazione dovrebbe svilupparsi, se non per motivi di etica, almeno per prevenire che molte insoddisfazioni nel trattamento prendano la via del Tribunale per i diritti del malato o diventino un contenzioso legale. Il paziente oggi non domanda più soltanto di essere guarito (come nobili e potenti al tempo di Molière!) ma ― nella misura in cui è diventato moderno ― richiede l’informazione quale condizione previa per partecipare all’atto medico. Sono frequenti le situazioni in cui il contenzioso che arriva davanti al giudice ha come antefatto una cattiva o addirittura nessuna informazione data al paziente.

Per il passaggio dal modello pre-moderno al modello moderno è essenziale monitorare il problema del “buon uso del consenso informato”, evitando di ridurlo alla firma apposta sotto un modulo, presentato in qualche maniera (“Firmi là dove c’è la crocetta...”). Non è raro che proprio gli infermieri siano utilizzati a questo scopo, chiedendo la loro collaborazione per far riempire dei moduli concepiti in forma difensiva dai professionisti sanitari, ma senza modificare sostanzialmente il rapporto paternalistico con i pazienti. Il problema va affrontato anche in termini formativi. Se si tratta, infatti, di cambiare un atteggiamento di fondo, è necessario che ci sia un investimento rilevante nella formazione permanente, in quanto nessun medico che viene fuori oggi dall’università ha interiorizzato il modello moderno, ma ha costruito la sua identità su rapporti strutturati in senso paternalistico.

Il futuro anteriore, ovvero l’aziendalizzazione in sanità

Seguendo lo schema temporale, ci rimane di coniugare la responsabilità professionale al futuro. Non mi riferisco al futuro semplice: non so estrapolare dalla situazione presente quale sarà il rapporto futuro tra sanitari e malati (anche perché ― come ho appena detto ― ciò dipende da alcune variabili incerte, come lo sforzo formativo che saremo disposti a fare per mettere le professioni sanitarie in grado di modificare i comportamenti). Coniugherò la responsabilità professionale al “futuro anteriore”, vale a dire quel tempo che, secondo la grammatica, indica un evento futuro che precede altri eventi, pure del futuro, costituendo una sorta di “passato nel futuro”. Il futuro anteriore della responsabilità dei professionisti sanitari, condizione per il nostro futuro prossimo, è facilmente individuabile: è scritto nelle leggi di riordino della sanità italiana, elaborate agli inizi degli anni ’90.

La responsabilità va misurata su un altro parametro ancora: quello che la correla con il famigerato processo di aziendalizzazione. Là dove quest’ultima non è stata intesa soltanto

46

in termini riduttivi economicistici, affidandole il compito di pareggiare i conti della sanità in epoca di risorse limitate, appare come una diversa organizzazione del lavoro; e quindi anche come una nuova modalità di rapportarsi tra i professionisti e coloro che ricorrono ai loro servizi.

Traggo dal libro di Galgano La qualità totale (Ed. Il Sole 24 ore, 1990) un’affermazione attribuita a un manager giapponese nell’incontro con dei colleghi inglesi: “Per voi l’essenza del management consiste nel tirare fuori le idee dalla testa del dirigente per metterle nelle mani degli operatori. Per noi l’essenza del management è precisamente l’arte di mobilitare le risorse intellettuali di tutto il personale al servizio dell’azienda. Dato che noi abbiamo valutato meglio di voi le sfide economiche e tecnologiche, sappiamo che l’intelligenza di un gruppo di dirigenti, per quanto brillanti e capaci essi siano, non è sufficiente per garantire il successo”. La responsabilità del futuro presuppone, dunque, un nuovo modo di organizzare il lavoro in cui dal modello verticistico si passa a un coinvolgimento di tutti nell’azione, per ottenere il conseguimento dell’obiettivo comune. Riusciamo con difficoltà a immaginare che cosa comporti questo in sanità, ma sappiamo che presuppone uno sconvolgimento del modello tradizionale.

In uno dei documenti più importanti della nuova sanità, il testo del Piano sanitario nazionale per il triennio ’94-’96 (una specie del libro dei sogni, in quanto contiene le cose che avremmo dovuto fare in questi anni, ma che non abbiamo fatto) è indicato esplicitamente che, se noi vogliamo realizzare la nuova sanità, dobbiamo prima di tutto investire in formazione dei quadri della dirigenza e dei quadri intermedi. Di questa formazione vengono forniti quattro contenuti specifici, il primo dei quali è “un approccio alla gestione orientata al raggiungimento di obiettivi più che alla esecuzione di compiti”. È interessante notare che la “padronanza dei criteri della gestione economica” ― che secondo alcuni sintetizza il cambiamento in atto nella sanità ― viene solo in secondo luogo. Se noi vogliamo nuova la sanità introducendo in essa “lo stile azienda”, non dobbiamo mettere come priorità la capacità di fare i conti, ma piuttosto il passaggio da una modalità di lavoro orientata alla esecuzione di compiti ― il mansionario è soltanto un modo, anche se il più vistoso, di parcellizzare il lavoro, delimitando al tempo stesso le responsabilità ― a quella ispirata agli obiettivi. L’obiettivo si raggiunge soltanto se si riesce a immaginare e a realizzare un coinvolgimento di tutti, trasversale alle professioni.

La nuova sanità ha introdotto una modifica negli obiettivi ai quali deve tendere l’erogazione di servizi sanitari. L’etica medica tradizionale ha identificato come unico obiettivo della sanità il bene del paziente: dobbiamo fare ciò che è appropriato per la guarigione del paziente, dal momento che non sono più soltanto i potenti e le classi nobili che vogliono essere guariti, ma tutti pretendono di avere accesso alle risorse più efficaci della medicina. Il paradigma moderno ci dice che il paziente vuol partecipare alle decisioni, quale soggetto attivo e responsabile. Nel modello postmoderno, che identifichiamo con l’organizzazione di tipo aziendale, siamo invitati a trattare questo paziente come un cliente. Come un cliente,

47

infatti, il paziente che accede ai servizi sanitari vuole essere soddisfatto: richiede il rispetto delle procedure, servizi appropriati e un trattamento civile, attento alla dignità della persona. È quanto costituisce la qualità percepita dall’utente, prevista dall’art. 14 dei DD.LL. 502/1992 e 517/1993, della quale il ministero della sanità, con proprio decreto, ha reso noti gli indicatori (15 ott. 1996).

Gli indicatori ci orientano a considerare l’umanizzazione delle strutture, l’informazione, il comfort alberghiero e l’attività di prevenzione delle malattie. Non possiamo più soltanto limitarci a preoccuparci per il paziente così come può essere visto nell’ottica clinica, ma dobbiamo introdurre anche altre dimensioni. Secondo il manuale di John Ovretveit, La qualità nel servizio sanitario (ed. EdiSES, 1996) la qualità ha tre dimensioni, riferite all’angolatura di chi la valuta: il professionista, l’organizzazione e i pazienti in qualità di clienti. Cosa succede se i pazienti che si riferiscono alle nostre strutture ― e quindi sono i nostri clienti ― non sono soddisfatti? Il libro di Ovretveit mostra in un grafico i risultati di indagini fatte in Inghilterra sulla soddisfazione rispetto al servizio sanitario nazionale. Risulta che i reclami formali rappresentano solo la punta dell’iceberg dell’insoddisfazione totale: ciò che emerge è solamente un decimo dell’insoddisfazione dei cittadini; di questo decimo, soltanto una minima parte degli insoddisfatti fa un reclamo formale con potenziale richiesta di risarcimento dei danni (peraltro un problema notevole ora per le aziende, che dal fondo economico loro destinato dovranno detrarre le spese per le cause di malpractice e per le richieste di risarcimento: se non vogliamo trattare bene i pazienti per motivi umanitari, saremo in ogni caso costretti a farlo per motivi aziendali!). Il decimo dei pazienti insoddisfatti che non reclamano vanno altrove, con perdita di incassi per l’azienda, difficoltà a riacquistare clienti e immagine negativa per la struttura (gli insoddisfatti del servizio infatti, ne parlano con altri...).

La panoramica tracciata, che considera la responsabilità professionale del sanitario al tempo passato e al tempo futuro, non intende affatto svalutare la responsabilità al tempo presente: di che cosa sono responsabile? Come devo articolare la mia responsabilità con quella di altre professioni ?

Ma questi interrogativi, che sono meglio collocati nel dibattito giudiziario, hanno bisogno della dimensione della profondità per essere pienamente valorizzati.