I malati in mezzo a noi

Sandro Spinsanti

I MALATI IN MEZZO A NOI

in RPL

inserto n. 2, 1979, pp. 5-24

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1. SALUTE E CULTURA, OGGI

Quando si dice che la salute è uno dei nodi cruciali della cultura contemporanea, si fa un’affermazione che ci porta oltre i dibattiti sulla riforma sanitaria. Le polemiche scatenate dal varo della riforma e la sua attuazione hanno indubbiamente contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica. Ancor più importante è la convinzione, di cui registriamo il lento maturare, che al di sotto delle questioni di politica sanitaria vi sia il problema della salute dell’uomo, e che questo è essenzialmente un problema di civiltà. In un documento recente dei vescovi francesi sul mondo della sanità, si suggerisce che si stia insensibilmente operando uno slittamento tra due tipi di civiltà; mentre il diciannovesimo secolo metteva in risalto soprattutto il diritto al lavoro, il nostro tempo insiste sul diritto alla felicità. È uno spostamento di visuale che incide non solo sui problemi della salute, ma sulla concezione stessa dell’uomo.

Il problema della salute, al centro dell’opinione pubblica e delle preoccupazioni personali, sta divenendo una discriminante culturale e politica. Su di esso si manifestano le differenti concezioni antropologiche.

Il cambiamento non avviene senza tensione, che fanno del mondo sanitario un luogo di vivaci conflitti. Ne osserviamo anzitutto in sede di programmazione economica. Le spese per la salute pongono all’economia politica di quasi tutti i paesi ad alto sviluppo industriale problemi ardui. Aumentano ovunque in modo esponenziale, secondo una progressione geometrica, qualunque sia il sistema di distribuzione dei servizi adottato. I responsabili della politica economica si trovano di fronte al dilemma di conciliare la qualità del servizio con la sua efficacia ed economicità. La difficoltà del problema è costituita dal fatto che l’economia politica applicata alla salute deve tener conto di numerose variabili che trascendono l’ambito tecnico di questa disciplina. La salute e la malattia sono infatti delle realtà sociali che riflettono ogni minima variazione culturale, ivi compresi i cambiamenti che avvengono nella scala dei valori. Una politica della salute conduce inevitabilmente a delle scelte, a seconda degli orientamenti

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prioritari verso certe classi di età, verso determinate patologie o finalità sociali.

Mai, in ogni caso, una tale politica potrà lasciarsi guidare esclusivamente da considerazioni del tipo costi/benefici, perché la vita umana non è un bene omogeneo agli altri beni. Anche l’economia politica, quando deve decidere degli investimenti da fare, non può sottrarsi ad interrogativi di tipo etico. Questo è il motivo per cui in campo sanitario si scontrano così violentemente le ideologie. Il dibattito diventa più acceso quando si toccano temi come l’aborto o la pianificazione delle nascite o la cura dei tossicodipendenti, ma praticamente sottende qualsiasi decisione nel campo della salute. Qui vengono infatti a collisione i diversi progetti che si hanno sull’uomo, sul suo divenire e la sua felicità, nonché le diverse concezioni della società. I partiti politici sono aggressivamente presenti in questo settore: non possono infatti dimenticare che nella sanità pubblica l’aspetto organizzativo ha una importanza capitale. Spesso coesistono interessi contrari: il liberalismo, sostenuto dal corpo medico, si scontra col centralismo tecnocratico, rappresentato dall’amministrazione, e con i progetti decentrati e partecipativi, promossi dai movimenti ad ispirazione socialista. Da quest’ultima area vengono anche le spinte più decisive verso il rifiuto della condizione di «assistito», tradizionalmente riservato al malato.

Si sta passando da un modo di «subire la malattia» affidandosi alle cure mediche, a quello di «fare la salute» impegnandosi a vivere meglio per sé e per gli altri.

Coadiuvata dal processo psicologico di repressione che accompagna spesso l’installarsi della malattia, la condizione del malato è quella di colui che riceve. La dipendenza totale da chi gli presta le cure lo espone a molti arbitrii. Per difendere il malato e conferirgli un ruolo attivo, si parla ora dei suoi diritti; si cerca di diffondere informazione, affinché il malato non si rassegni, delegando in tutto il medico. La convinzione che la salute sia un prodotto industriale come un altro, il cui aumento dipende dal volume degli stanziamenti che si fanno nel settore, porta con sé anche l’attesa che il gruppo professionale che si occupa della salute gestisca in toto il settore. Un’educazione sanitaria accurata dovrebbe permettere all’individuo di affrontare da protagonista tutto quello che gli capita nel campo della salute. Essa è non solo un diritto da rivendicare alla società, ma anche un «dovere» che domanda un impegno positivo; una «virtù», come la chiama I. Illich. La salute non si può ricevere, bisogna «farla».

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I conflitti cui abbiamo accennato sono i più macroscopici. Al di sotto, uno sguardo accurato scopre che le questioni della salute confrontano l’uomo non solo con scelte sociali, politiche e ideologiche diverse, ma con il problema maggiore dell’umanesimo nella sua totalità: il rapporto che l’uomo ha con il suo corpo. I vescovi francesi nel documento «Il mondo della sanità e la chiesa» esprimono il problema di fondo in questi termini: «Se gli ‘utenti’ e i ‘professionisti’ vogliono veramente fare opera durevole, devono porsi contempora-neamente di fronte ai poli importanti dell’esistenza umana: le profondità psicologiche della sessualità e la precarietà di cui la morte è il momento essenziale. Nonostante siano sempre vissuti in una dimensione politica ed economica, questi due poli non si lasciano rinchiudere in queste dimensioni. In questo caso non si può barare, si è obbligati a prendere posizione di fronte a se stessi. Si è portati ad accettare la propria condizione umana o fuggire in mille modi. Il processo interiore è identico, anche se ognuno lo vive secondo il proprio livello intellettuale. Ciò si spiega perché nel medesimo slancio curanti e utenti sono portati a porsi di fronte a un aspetto fondamentale del mistero dell’uomo: la precarietà dell’uomo e della società. Il mondo della sanità nasce forse da questa tensione tra una organizzazione che tende a soddisfare i bisogni dell’uomo, così come altre funzioni collettive, e un’aspirazione fondamentale a vivere, sopravvivere o vivere meglio. È forse questo il luogo dell’esperienza umana fondamentale, e tutto ciò che in esso si vive ne è immediatamente impegnato o la rimette direttamente in causa. E ciò, ben lungi dal chiudersi su un piccolo mondo, apre su un universo e crea una nuova mentalità».

Si sta ritrovando l’unità dell’uomo reale, dopo una lunga epoca culturale dominata dal dualismo corpo-anima, di derivazione non biblica. I cristiani sapranno operare una «riappropriazione del corpo» nella fede pasquale?

Lo stadio attuale di civiltà industriale avanzata in cui ci troviamo ci pone di fronte al corpo, come luogo della esperienza esistenziale più pregnante, in modo diverso che in passato. Abbiamo superato, forse definitivamente, il dualismo tradizionale che contrapponeva l’anima al corpo. In polemica con lo spiritualismo dualista — il corpo come pura materialità e l’anima come principio spirituale — il pensiero moderno ha ritrovato l’unità dell’uomo reale. La corporeità, vista come momento essenziale del soggetto, è la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone umane. Tuttavia oggi la nostra

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presenza nel mondo tramite il corpo è legata a varie forme di disagio. Si diffonde la convinzione che a un rapporto sbagliato con la natura, oggetto del vivace dibattito ecologico, si accompagni la perversione del rapporto con la concreta struttura biologica del nostro corpo.

La perdita dell’armonia corporea è una delle malattie più gravi della civiltà. Abbiamo disimparato il linguaggio delle funzioni vegetative. Il corpo sembra aver perso la sua trasparenza: ci è diventato estraneo, quasi nemico. L’alienazione ha assunto un aspetto biologico ben definito, che passa attraverso il rapporto che abbiamo col nostro corpo. «Riappropriazione del corpo» è diventato lo slogan di diversi movimenti culturali, che propugnano un salto nella qualità della vita. Riappropriarsi del corpo è il presupposto per vivere da protagonisti l’avventura della salute.

Come si situano i cristiani in questa questione cruciale per la nostra civiltà? Talvolta tradiscono un senso di spaesamento. Tanto nel consumismo dilagante, quanto nei movimenti di controcultura, predomina un’accentuazione del corpo — con valenze opposte — che sembra estranea alla tradizione cristiana. All’ascetica che promuoveva la mortificazione del corpo tende a sostituirsi una pagana celebrazione di esso. Eppure esiste un terreno di incontro con le istanze più valide della cultura moderna. Se si esplicita l’intenzione profonda che anima i vari movimenti di riappropriazione del corpo, si proverà in esse scintille dell’unico fuoco dell’umanesimo. Dall’altra parte i cristiani di oggi, accogliendo una considerazione positiva della corporeità, possono riscoprire la verità dell’effato patristico: caro cardo salutis (la carne è fondamento della salvezza), con cui si è espressa tradizionalmente la fede nel mistero della incarnazione.

Un’efficace rinnovamento della pastorale deve essere fondato su un recupero del valore biblico del corpo. Alla concezione materialistica dell’uomo che si diffonde nel mondo della sanità i cristiani non hanno da opporre uno spiritualismo esasperato, bensì la visione dell’uomo «totale» che deriva dalla storia della salvezza. L’attività terapeutica di Gesù resta il luogo privilegiato di questa riflessione.

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2 LA FEDE CHE GUARISCE

Gli apparati scientifici e le istituzioni sanitarie non riescono a soddisfare un bisogno di guarigione e di salute che si sta rivolgendo a forme ritenute sorpassate.

La medicina ufficiale, quella che si insegna nelle università, ha sempre saputo che esisteva anche una medicina popolare, irriducibile ai principi della scienza. Non la combatteva: si limitava a tollerarla. Un giorno — si dicevano i medici in camice bianco — il progresso raggiungerà anche quelle sacche di ignoranza e di superstizione, i guaritori di vario genere non avranno più credito. Vane speranze: le campagne sono spopolate e la cultura contadina disgregata, ma i guaritori si sono trasferiti nelle città. Non reclutano i loro clienti solo tra i diseredati. Persone di ogni ceto e livello culturale, deluse dalla medicina scientifica, sollecitano i loro servizi. L’esistenza di una medicina parallela a quella scientifica è un dato di fatto ormai innegabile.

Anche l’«Organizzazione Mondale della Sanità» si è pronunciata, in un documento diramato di recente, in favore di un ritorno all’impiego di piante medicinali e di rimedi tradizionali, nonché all’attività dei guaritori, in particolare nei paesi del Terzo mondo. La parola d’ordine è ora di valorizzare tutto il «potenziale» esistente, senza disdegnare la ricca eredità dell’esperienza ancestrale, che si esprime nella medicina tradizionale.

Questa autorevole rimessa in questione della medicina moderna e del suo funzionamento nei paesi in cui l’ordine simbolico e il sacro continuano a giocare un ruolo importante ci sollecita a riflettere criticamente sulla nostra situazione in Occidente. Se guaritori, veggenti, maghi e praticoni suscitano oggi un risveglio di interesse non è solo per i limiti tecnologici del nostro modello medico, per le disfunzioni del servizio sanitario o per il caos che regna negli ospedali. La medicina parallela risponde a bisogni che la medicina scientifica neppure avverte. I suoi cliènti aumentano perché essa non si interessa di malattie, ma di malati. Chi va dal guaritore non cerca solo la guarigione, ma anche la possibilità di comunicare, di confidarsi. La medicina popolare implica un altro modo di considerare il corpo e la guarigione; è più globalizzante, rimanda il malato a se stesso, nei suoi rapporti con la malattia. Si occupa del dolore, del non misurabile, dell’indicibile,

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di quelle vicissitudini esistenziali del corpo che la medicina scientifica esclude scrupolosamente dal rapporto medico-malato. I sistemi di guarigione non ufficiali favoriscono la ricerca, condotta più o meno confusamente, di un senso alla propria esistenza, il prendersi a carico globalmente, anima e corpo, dentro e fuori. Di qui la loro parentela stretta con il sacro e la religiosità.

Nonostante deviazioni sempre possibili, e di cui si hanno anche oggi clamorose manifestazioni, si guarda con minore sospetto ai segni religiosi connessi con il bisogno di salute.

Per secoli, in tutte le società, il potere sul corpo era di pertinenza del sacro e la medicina era esercitata dai sacerdoti, nei luoghi sacri. Anche l’Occidente cristiano non ha reciso bruscamente questo legame. La guarigione del corpo è stata lungamente associata a quella delle anime. I monaci e i sacerdoti hanno svolto funzioni mediche. Un modello di medicina naturale e semplice, esercitata dal clero, è rimasto vivo nelle campagne fino all’inizio del XIX secolo. Anche oggi non pochi guaritori di fama sono reclutati tra i religiosi. La religiosità popolare, che è concreta e centrata sul corpo, ha mantenuto un rapporto privilegiato con questo tipo di guarigioni. Luoghi di pellegrinaggio, reliquie, santi guaritori, statue, acque di fonti benedette, medaglie, ceri: il cristianesimo popolare ha continuato nel tempo a celebrare le sue liturgie del corpo dolorante, del fragile essere umano alla ricerca della guarigione.

L’atteggiamento della chiesa gerarchica verso la religiosità popolare è stato più illuminato di quello assunto dalla medicina scientifica rispetto alla sua antagonista non ufficiale. La condanna è caduta solo sui casi più macroscopici di superstizione. Altrimenti la strategia della Chiesa cattolica è stata quella di assumere, purificare, incanalare le espressioni della religiosità popolare. Le ha riconosciuto il diritto di esprimersi col gesto — il pellegrinaggio individuale e collettivo, il bacio alla statua, il segnarsi con la reliquia —, ma vi ha aggiunto la gestualità sacramentale: confessione, comunione, sacramenti degli infermi. Anche l’eredità del paganesimo è stata accettata e ribattezzata: gli ex voto, che già ornavano i tempi di Esculapio, sono diventati il segno del legame personale stabilito col Medico divino; i ceri, già lampade funerarie con cui i romani coprivano le tombe durante la settimana del culto degli antenati, concretizzano la preghiera, rinviano simbolicamente al corpo di colui che domanda. Solo i teologi della secolarizzazione auspicavano la fine di questa commistione della fede col sacro e annunciavano l’avvento di

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un «cristianesimo areligioso». Ma anche loro, come i sacerdoti della scienza medica, sono costretti a rivedere certe analisi culturali troppo impregnate di trionfalismo razionalista.

I guaritori hanno piantato la tenda accanto al policlinico universitario; i movimenti carismatici sfidano un cristianesimo «tutto di testa» con la guarigione attraverso la preghiera. L’uso terapeutico della religione ha assunto fisionomie diverse nelle varie tradizioni confessionali. Alcune sette protestanti si sono fatte promotrici di spettacolari riunioni di preghiera per la guarigione di ogni genere di infermità, spirituali, psichiche e fisiche. In genere queste sette non godono buona stampa presso le chiese istituzionali. Valga per tutte il richiamo alla Christian Science, fondata da Mary Baker verso la fine del secolo scorso. La dottrina scientista, di tendenza panteistica, insegna che l’unica realtà è lo spirito di Dio. Il peccato, la materia, la morte non sono cose reali, ma illusioni; cade in loro potere solo l’uomo che dimentica Dio. Le malattie si devono curare togliendo queste illusioni dalla mente dell’uomo. Si guarisce sprofondandosi in Dio con la preghiera. Nella pratica delle sette il ricorso alla preghiera per guarire è sconfinato spesso nell’abuso. Il superamento del razionalismo medico è diventato sfida alla ragione, disprezzo dei fattori corporei. Si è fatto uso di violente suggestioni primitive, unite spesso a grossolani esorcismi. Le riunioni di preghiera sono diventate il palcoscenico per guaritori di ogni specie, tra i quali è difficile discerne i carismatici dai ciarlatani.

Il rapporto tra fede e malattia non è solo nella richiesta di guarigione miracolosa — come sembra testimoniare la credenza popolare e una certa apologetica ecclesiastica — bensì comprende il «benessere» del malato, accolto nella comunità cristiana.

Nella tradizione cattolica sono state privilegiate quelle guarigioni che potevano essere qualificate come «miracoli». L’apologetica ha cercato di contrapporre al razionalismo la prova inconfutabile dell’esistenza di un ordine soprannaturale, l’ordine della rivelazione divina. Ricorreva al miracolo per dimostrare «scientificamente» che in esso le leggi della natura erano state infrante ad opera di una causa non naturale. Come risultato di questa impostazione, l’interesse si restringeva ad alcune poche guarigioni straordinarie incontestabili (per l’argomentazione apologetica era sufficiente, al limite, dimostrare l’esistenza di un solo miracolo indubitabile). Si prendeva cura di escludere tutto ciò che cadeva sotto il sospetto di isteria o di suggestione, eliminando in tal modo tutto il settore, così

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importante dal punto di vista del vissuto umano, delle affezioni psicosomatiche. Tra le guarigioni miracolose si ritenevano solo quelle che si riferivano a malattie organiche certe, evidenti, giudicate inguaribili da numerosi medici; la guarigione stessa doveva essere caratterizzata da istantaneità o da stupefacente rapidità. L’ufficio medico di Lourdes è noto per la rigidità con cui seleziona le guarigioni che aspirano a farsi riconoscere come miracoli. Solo poche pretese guarigioni miracolose resistono al vaglio degli eminenti medici preposti a quel comitato; e tra queste molte vengono poi scartate successivamente dai vescovi responsabili del giudizio canonico.

Nella vita della chiesa il miracolo apologetico non esauriva certo l’interesse per la fede che guarisce. I credenti dei pellegrinaggi ai santuari e degli ex-voto per grazia ricevuta gridavano al miracolo anche quando medici e teologi scuotevano la testa. Nel cristianesimo popolare è sempre rimasta viva la fede nella guarigione in risposta alla preghiera, come fatto normale nella vita del credente (secondo le promesse di Cristo in Mc 16,17-18 e Gv 14,12). Di recente un grande impulso a riscoprire la componente terapeutica della fede è venuto dal movimento carismatico. Esso ha le sue radici nel pentecostalismo. Non tanto quello originario sorto in America all’inizio del secolo, con una forte componente settaria, incline alle manifestazioni spettacolari, bensì quello più moderato degli ultimi decenni, disposto a restare nelle chiese storiche e ad animarle dall’interno. In un decennio il rinnovamento pentecostale è diventato un fatto ecclesiale considerevole, che coinvolge tanto la base quanto le gerarchie cattoliche.

Una delle pratiche più singolari riproposta dal movimento di «Rinnovamento dello spirito» è appunto quella della guarigione mediante l’imposizione delle mani e la preghiera. Punto di riferimento è la comunità cristiana primitiva, delle cui pratiche terapeutiche carismatiche siamo abbondantemente informati dagli Atti degli Apostoli. I primi cristiani, a loro volta, si rifacevano alla prassi di Gesù stesso, nel cui ministero profetico le guarigioni sono state uno dei principali «segni dei tempi» messianici (cfr. Lc 4,16-22). Il ministero della guarigione fa parte del mandato missionario di cui è investita la chiesa (Lc 9,1-2; 10,8-9).

L’ambito terapeutico della fede si estende oltre quello della medicina o del miracolo apologetico. Il termine di riferimento negativo, la malattia, va piuttosto sostituito con «mal-essere», come fenomeno globale che investe il corpo, la psiche e lo spirito dell’uomo. La guarigione è un processo che comincia dall’interno per riflettersi sul corpo malato. Ha inizio con l’intimo risanamento spirituale, vale a dire con l’esperienza di essere stati afferrati da Gesù e posti nella vita stessa della famiglia di Dio. Questa

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conversione è come una nuova nascita: il battesimo nello Spirito Santo. Dalla certezza della presenza della salvezza nella propria esistenza scaturisce una forza nuova per affrontare i mali della vita, presente e passata. Qualsiasi esperienza di rifiuto, oppressione, non-amore può essere guarita, comprese le ferite provocate dalle esperienze passate (la «guarigione della memoria»). I carismatici amano parlare della potenza terapeutica della pace di Gesù. Quando la coscienza è piena d’amore, di gioia, di pace, di pazienza, di bontà, di benevolenza, di fede, di dolcezza, di padronanza di sé (cioè di quelli che Paolo in Gal 5,22 chiama «frutti dello spirito»), possiede una forza di guarigione contro ogni male, compresi quelli fisici.

In questo tipo di guarigioni un ruolo decisivo gioca la comunità. Essa assicura un ambiente di amore e di sollecitudine in vista del sostegno del singolo. Allora la guarigione arriva al suo pieno sviluppo, fino ad essere cioè guarigione delle relazioni. Credendo in sé e negli altri, accettandosi e sentendosi accettato, il credente è motivato a sperare non solo in un semplice ristabilimento della salute, ma in una vita qualitativamente diversa. L’imposizione delle mani, che ha luogo durante la preghiera, esprime simbolicamente la comunione cristiana attorno a chi soffre e aiuta a visualizzare la forza terapeutica che circola nella comunità. La pratica della guarigione attraverso la preghiera apparirà meno strana qualora si consideri l’uomo nella reale unità psicofisica-sociale della sua esistenza. Se già, come qualcuno ha osservato, il cinquanta per cento di ogni psicoterapia consiste in un rapporto diretto e caloroso col paziente, come si può sottovalutare l’effetto psico-somatico di un’esperienza come quella che assicura il gruppo di preghiera?

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PREGHIERA

di un uomo che non vuole rassegnarsi

Signore, tu vuoi la mia felicità!

Sono lieto di non accettare

la sofferenza come valore supremo.

Non sarei neppure capace di sopportarla.

Sono lieto di poter superare

quella presunta «spiritualità del malato»

sviluppata tradizionalmente,

incentrata su una croce senza risurrezione.

Sono stati scritti tanti libri

per convincere il malato a rassegnarsi,

ad amare la malattia.

Molti hanno detto

che il patire è il più grande dei beni.

Sinceramente, non capisco,

come non capisco

la vocazione alla sofferenza,

e perché mi debba considerare

un privilegiato in quanto malato.

Ti ringrazio, Signore,

per avermi aiutato a comprendere

che devo lottare

e non rassegnarmi al male,

a tutti i livelli,

al mio male personale

come al male sociale.

Non credo tuttavia sia sufficiente

contrapporre la lotta alla rassegnazione

Ho bisogno di approfondire

il senso del mio lottare.

Mi aiuti, Signore?

Bernardino Mauri

in Breviario per il tempo della malattia

Queriniana 1978

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3 MALATTIA, EMARGINAZIONE, COMUNITÀ

La malattia emargina dalla società delle persone efficienti, ma più dolorosa è stata la credenza di una esclusione del malato dalla comunità religiosa come segno di una riprovazione di Dio.

Tra i poteri che ha la malattia, uno dei più temibili è quello di separare l’individuo colpito dalla comunità di appartenenza. Nei contesti culturali religioso-sociali l’esclusione è collegata con la rappresentazione della malattia come punizione di una colpa. Il mondo greco ha espresso questa convinzione con un mito legato alla figura di Filottete, protagonista di uno dei drammi più umani di Sofocle.

Il grande arciere era stato morso durante la guerra dal serpente che stava a guardia del sacrario della dea, nell’isola di Crise. La ferita si rivelò inguaribile. Il poveretto, in preda ad atroci dolori gridava in maniera tanto angosciosa che i suoi lamenti demoralizzavano l’esercito greco. Ma il ferito Filottete era più che un elemento di disgregazione dell’efficienza bellica: era un segnato dagli dei. Con la sua presenza di malato contaminava la spedizione. Se era respinto dall’Olimpo, bisognava respingerlo anche dalla comunità degli uomini. Mettersi dalla parte di colui che gli dei avevano colpito avrebbe significato sfidare la divinità. Perciò, su consiglio di Ulisse, Filottete fu abbandonato nell’isola di Lemno.

Non solo nella cultura greca la malattia e la disgrazia erano punizioni per l’offesa recata da forze sacre e terribili; anche nel mondo biblico la malattia viene interpretata come segno di una rottura nei rapporti tra Dio e l’uomo. L’Antico Testamento considera la malattia quasi esclusivamente come giudizio punitivo di Dio per i peccati. Ricordiamo solo alcuni testi più semplici: I Sam 16,14: a proposito della malattia di Saul: 2 Re 5,27: punizione dell’avido servo di Eliseo colpito da lebbra; 2 Re 20,1-11: punizione e guarigione del re Ezechia; I Macc. 9,54-56 malattia e morte di Alcino, che aveva preteso di abbattere il muro di separazione fra l’atrio degli Israeliti e quello dei pagani; Dan 4,28-30: malattia mentale del re Nabucodonosor.

La malattia e la disgrazia pongono colui che è colpito al di fuori della comunità dell’alleanza. Giobbe, seduto sul letamaio, ne esprime simbolicamente la condizione all’interno del popolo di Dio. Finché non sarà

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guarito, non potrà essere reintegrato.

I lebbrosi non erano cacciati via dal consorzio civile per motivi igienici. Quel che premeva era esprimere in modo netto che la comunità dei santi prendeva le distanze da chi portava nella carne il segno del giudizio di Dio.

La tendenza alla segregazione si acutizza in alcuni movimenti religiosi al tempo di Gesù. Già i farisei tendevano a escludere dalla comunità escatologica tutti coloro che non osservassero alla perfezione la Torah. Gli Esseni portavano alle estreme conseguenze i principi della loro matrice farisaica. Escludevano dalla loro comunità indegni e imperfetti; né tolleravano nelle assemblee liturgiche coloro che fossero affetti da imperfezioni fisiche. Diceva testualmente la regola della comunità: «Tutti coloro che sono colpiti nella carne, storpiati ai piedi o alle mani, zoppi o ciechi o sordi o muti o visibilmente imperfetti nel fisico; ovvero un vecchio decrepito che non sa reggersi in piedi nella comunità riunita, costoro non possono venire a porsi in mezzo all’assemblea degli uomini del Nome, perché i santi angeli sono nella comunità».

Gesù rifiuta questa concezione emarginante ed edifica la comunità messianica dei figli di Dio sulla aggregazione di tutti quanti manifestano la fede, anche dei malati e invalidi.

In contrasto marcato con queste concezioni risalta l’opera di Gesù. Egli ha rifiutato di realizzare la comunità messianica del «resto di Israele» basandosi sul principio della emarginazione. Fu scandaloso, provocatorio e perturbatore lo spettacolo di Gesù che rifiutava le tipiche pretese farisaiche ed esseniche di realizzare il «santo resto» per esclusione e si rivolgeva di preferenza proprio a coloro che venivano messi ai margini delle comunità dei perfetti. Il suo annuncio era di una grazia senza limiti e senza condizioni; predicava Dio come padre dei deboli e dei perduti, benevolo verso i peccatori (cfr. Lc 15,7.10). E guariva tutti (cfr. Mt 4,23-24; Mt 14,34-35). Quel «tutti», più che in senso quantitativo e statistico, va preso nel senso che Gesù guariva malati di ogni sorta, di tutti gli ambienti, senza discriminazioni preliminari. Proprio questo era scandaloso per i suoi avversari, e doveva passare per una specie di empietà. Lasciarsi toccare da quelle folle innumerevoli era un’abominazione dal punto di vista dei farisei e degli esseni. Gesù esprimeva, in tal modo, che esercitava il suo ministero presso il popolo intero, e non a beneficio di alcuni privilegiati o specialisti della vita religiosa. La prassi messianica di Gesù era basata sull’integrazione, e non sulla segregazione. Nei sistemi

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sacrali in cui vige la distinzione puro impuro, la comunità si difende dalle tendenze disgregatrici escludendo chi non corrisponde alle esigenze legali di purezza. Ha bisogno, in un certo senso, di impuri ai suoi margini, per mantenere compatto l’organismo comunitario. È un principio che sopravvive alla caduta della mentalità sacrale: anche nelle società basate sull'efficienza avviene un’emarginazione o eliminazione di coloro che sono sotto lo standard competitivo.

L’opera messianica di Gesù avviene nella comunità ed è diretta alla comunità. È la base su cui si costruisce il popolo di Dio dei tempi escatologici. «Nella missione e nel messaggio di Gesù Cristo la sua opera di guarigione non era una conseguenza secondaria, ma il vero e proprio mezzo per proclamare, istituire e ampliare la nuova èra, sotto la signoria di Dio. L’attività terapeutica del Cristo non era in primo luogo un’azione privata tra l’uomo e Dio, una prova spirituale individuale e una ricompensa per il malato, bensì un «segno efficace». Le guarigioni non erano unicamente segni efficaci in cui Cristo e il guarito fossero i soli attori, bensì segni a cui tutti i presenti prendevano parte, non ultimi quelli che deridevano. Erano segni efficaci pubblici» (R.A. Lambourne: Community, Church and Healing).

I miracoli di guarigioni non avvengono solo «di fronte» al pubblico. «Tra di voi» ha un carattere più pregnante: essi, il pubblico, sono il malato che è curato. Il malato rappresenta la loro malattia, l’esclusione è il sintomo. Le guarigioni operate da Gesù sono giudizio e risanamento della comunità in cui avvengono. La malattia di un individuo è una forma di crisi, espressa dall’emarginazione, che offre a tutto il gruppo una possibilità di bene o di male. È un’opportunità di grazia che termina in un nuovo equilibrio, vale a dire un legame comunitario rinsaldato. Gesù che guarisce è quello stesso che, risorto, ai discepoli di Emmaus e agli apostoli in riva al lago dopo la pesca si rivelerà come Maestro nella condivisione.

La comunità cristiana continua la missione di Cristo, suo Signore, trattando i malati non come segregati ed esclusi bensì integrandoli nella sua vita.

Facendo memoria dell’attività terapeutica di Gesù, la comunità cristiana si interroga sulla propria funzione nel campo della sanità. Il punto di partenza della sua azione è la constatazione che anche oggi, sotto nuove forme, la malattia opera come elemento disgregante dei legami sociali.

Gli sviluppi del servizio sanitario hanno portato a privilegiare le strutture pubbliche, in primo luogo l’ospedale. Quando pensiamo al malato,

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l’immagine che ci viene spontanea evocare è quella del degente all’ospedale, separato dalla famiglia e dalla società, inserito in una struttura di assistenza che si occupa di lui finché non può essere restituito alla sua vita normale. Parallelamente al progresso dell’intervento pubblico, si son venute atrofizzando le strutture terapeutiche tradizionali, vale a dire la famiglia e i vicini. Anche se ricoverato in un ospedale attrezzato ed efficiente, perfettamente accudito, il malato si sente un isolato, penosamente rigettato ai margini della collettività. Ciò soprattutto quando la malattia si stabilizza e non ci sono più speranze di remissione. Oggi ci si rende conto che la soluzione ai problemi più gravi della sanità esige una risposta comunitaria e il potenziamento dell’interdipendenza. Così per il problema degli anziani, della malattia mentale (per la prevenzione e la guarigione di queste malattie le relazioni personali sono indubbiamente il fattore più importante), degli handicappati.

In campo ecclesiale il principio che segretamente ispira il rinnovamento della pastorale in questo settore è proprio il recupero di quell’aspetto delle guarigioni di Gesù che faceva di essa una parabola della famiglia di Dio dei tempi messianici, in cui gli emarginati sono integrati.

Il rinnovamento del rito dell’unzione degli infermi, voluto dal Concilio (L.G. 11 - S.C. 73) e realizzato dalla Congregazione per il culto divino (1972), va in questo senso. Le norme teologico-pastorali che precedono il rito lo inseriscono in un ampio contesto di gesti e iniziative pastorali che tendono al pieno reinserimento del malato nella comunità, in netto contrasto col processo di emarginazione. La comunità si stringe solidarmente attorno al malato che difende la vita per poter continuare a donarla. Questo è il significato antropologico ed ecclesiale del sacramento degli infermi.

Non «estrema unzione», rito del passaggio cruciale attraverso la morte, come era diventato in pratica; bensì evento che attualizza la dimensione comunitaria del piano di Dio per la vita. La comunità cristiana abbraccia il fratello per trasmettergli la forza di Colui che ha vinto le potenze distruttive che disgregano la persona umana e la spingono ai margini della società. Tale gesto fraterno è destinato a servire la vita. Forse alla vita del corpo; certamente serve alla vita nello Spirito d’amore. Questo sacramento chiede pertanto d’essere celebrato quando il malato si trova nel pieno della lotta per la vita — non però nell’agonia, che di questa lotta è l’ineluttabile conclusione —; esso rivela inoltre tutto il suo senso quando è celebrato in forma comunitaria, così come in più parti si va sperimentando.

Il servizio che la comunità dei credenti in Gesù può rendere a coloro che la malattia emargina, al fine di integrarli con gesti religiosi, non si

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esaurisce nella celebrazione del sacramento dei malati. Anche la visita e la comunione frequente contribuiscono a rinsaldare i legami umani con la comunità. Le istruzioni contenute nel «Rituale per il sacramento dell’unzione e per la cura pastorale degli infermi» raccomandano: «Tutti i cristiani devono far propria la sollecitudine di Cristo e della Chiesa verso gli infermi. Cerchino quindi, ognuno secondo le possibilità del proprio stato, di prendersi cura premurosa dei malati, visitandoli e confortandoli nel Signore e aiutandoli fraternamente nelle loro necessità». Nella comunità cristiana la preghiera comune resta il modo fondamentale per esprimere la solidarietà e per stringere i legami. Nella preghiera dei fedeli durante la liturgia domenicale una vera comunità, oltre, al ricordo dei malati in generale, saprà indicare alla sollecitudine dei fratelli quelli in particolare che la malattia ha messo in grave stato di necessità.

CONSIGLI A CHI VISITA I MALATI

1. Quando vai a trovare un malato o un handicappato non lasciarti prendere dalla sua infermità. Piuttosto prescindi da essa.

2. L'handicappato ha lottato molto per uscire dalla morsa in cui l’aveva gettato il suo handicap. Per carità, non ricordargli la sua malattia, lo farai regredire al punto di partenza.

3. C’è bisogno di semplicità e di una grande delicatezza. Non dimenticare che il dolore affina la sensibilità.

4. Quando se ne presenterà l’occasione — come certo avverrà, se vuoi bene ai malati — essi ti racconteranno «la loro storia». Non intervenire mai con domande, ma limitati ad ascoltare.

5. Non compiangerli mai. Non manifestate mai sentimenti di pietismo. È possibile che siano essi a lamentarsi e sfogarsi con te. Limitati a provare che appartieni loro senza riserve.

6. Il miglior aiuto che si può portare ad un malato è di aiutarlo a ritrovare se stesso. Cerca di fare appello alla tua carità, ma su una base reale non fittizia. Improntare dei rapporti su basi menzognere e false è costruire sulla sabbia. Non bisogna assolutamente cadere in questo errore: le conseguenze sarebbero disastrose. Anche se il malato ha

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perso molto, gli resta sempre qualcosa. Su questo ‘qualcosa’ si tratta di costruire con la fede e l’esperienza.

7. Talvolta sarà necessario venire incontro a necessità materiali o fare qualche donò, ma ciò che è sempre necessario è donare se stessi.

8. Può essere che il dolore unisca a Dio più che la gioia. Limitati a suggerirlo, non con le parole, con immagini o sentimenti, ma col tuo esempio.

9. Per capire i malati bisogna mettersi a! loro posto, cosa molto difficile. Se però non ti sforzerai di farlo, sarà inutile comunicare con essi.

10. Dire che Dio ama i malati è una cosa molto graziosa ed anche vera. Ma in tali circostanze non è l’amore di Dio che devi provare al malato, ma il tuo, e questo non si fa con le sole parole.

11. Dio non è una persona che va o viene; Egli è fedele e resta. Egli sarà percepito più o meno a seconda delle circostanze in cui versa il malato; la conseguenza è: ― sforzati di aiutare il malato su un piano umano in modo umano

― Dio si manifesterà a suo tempo.

12. Ama fino a quanto puoi i malati, ma non lo fare soltanto in riferimento a Dio; amali in se stessi. Le persone che si occupano dei malati soltanto per Dio e con una certa quale freddezza nel loro comportamento, fanno pensare che i malati per loro non sono che degli strumenti e dei modi per perseguire la loro santificazione.

13. Riempitevi di Dio; ma poi andate dai malati come se esistessero solo essi. Così senza che ve ne facciate scopo, potrete spandere e riversare l’influsso di Dio su di essi.

14. Siate sempre ottimisti. Sempre allegri. Anche nei momenti di dolore più acuto, ci sarà uno spiraglio per poter lasciar passare la speranza e un solco per seminare la gioia.

15. Qualcuno mi domandava «cosa posso dire loro?»; ma è così semplice! Sorridete! Non esiste un ponte più sicuro di una bocca sorridente.

16. Quando i malati vi prenderanno per confidenti dei loro affari, interessatevi ai loro problemi; cercate di comprenderli e di farli vostri. I malati con la loro percezione sensibilissima sentiranno che voi vi siete fatti loro eco. Forse sarete impotenti a rimuovere il fardello dalle loro spalle, ma vi assicuro che certo nel loro cuore lo avrete alleggerito in modo non indifferente.

(un prete francese sordo-muto)

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4. EVANGELIZZARE IL CRISTIANO MALATO

Il comando di Gesù, che alla missione di evangelizzazione associa quello di prendersi cura dei malati, e il suo esempio costituiscono per la Chiesa un impegno ineludibile, da rinnovare sempre nei modi e nelle forme.

Gesù ha associato apostoli e discepoli, sin dalla loro prima missione (Lc 10,9), al suo potere di guarire le malattie (Mt 10,1; Mc 6,13; Lc 9,1-6). Al momento della missione definitiva ha trasmesso loro in permanenza il potere per cui «imporranno le mani ai malati e questi saranno guariti» (Mc 16,17 s). Su questa partecipazione al potere divino per il benessere dell’uomo e la ricostruzione dell’umanità si fondano le pratiche della Chiesa delle origini: l’ammonimento di Giac 5,14, che è il luogo biblico classico su cui si fonda l’unzione degli infermi; il riconoscimento da parte di Paolo del carisma delle guarigioni (1 Cor 12,28-30); l’esempio degli apostoli che spesso guariscono i malati (cfr. Atti 3,1-11; 9,32 ss; 14,8 ss; 19,11 ss).

Ai nostri giorni la Chiesa è provocata a riscoprire la sua missione dai grandi rivolgimenti che stanno avvenendo nel mondo della salute. Valorizza la preghiera fraterna, che sostiene e guarisce; stringe con la carità e i sacramenti i legami comunitari, in contrasto con vecchi e nuovi processi di emarginazione. Ma il compito essenziale della Chiesa resta, oggi come ieri, quello di evangelizzare il malato, annunciandogli il mistero pasquale del Cristo.

Il modo in cui Gesù ha vissuto personalmente l’incontro con il male fisico e l’ha integrato nella propria avventura spirituale costituisce una parte essenziale della «buona novella» che la comunità cristiana ha da annunciare al mondo. Lo Spirito, il dono di Dio per gli ultimi tempi, rende possibile la trasformazione del nostro comportamento morale sul modello di quello stesso di Gesù. Di fronte alla malattia e altri attacchi del male fisico abbandoniamo la posizione di acquiescenza passiva — anche quella che si traveste con motivazioni religiose — e la lotta a oltranza condotta con rabbia impotente, per entrare, con la fede e la speranza, nell’atteggiamento della «costanza» (patientia, nella traduzione della Vulgata), proprio di Gesù. Non si tratta di riprodurre gesti, sentimenti e situazioni

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del Gesù storico. L’«imitazione di Cristo» nella morale cristiana non è lo sforzo per copiare le azioni esemplari del Cristo, ma lo sviluppo, nella nostra storia, dell’assimilazione a Cristo avvenuta con la conversione e col battesimo. L’iniziazione comporta un impegno morale perseverante, affinché tutta la vita sia vissuta «in Cristo». Le varie situazioni vitali che l’uomo affronta cadono tutte sotto la legge del mistero pasquale. Nella vita morale del cristiano sono presenti dunque i due momenti dialettici della pasqua del Cristo: la croce e la risurrezione.

Trasformare ogni vicenda, anche dolorosa, della nostra vita nel senso deH’amore che si dona: questo il senso cristiano della «croce» che la Chiesa deve annunciare anche ai malati.

Questa comprensione più profonda della struttura della vita morale cristiana ci fa evitare quell’uso linguistico molto diffuso che chiama «croce» ogni malattia o handicap fisico, ogni disgrazia o dolore morale, semplicemente in ragione del loro carattere afflittivo (la «croce» da portare con rassegnazione è uno stereotipo tipico del linguaggio devozionale). Non ogni tribolazione è automaticamente «croce», ma solo quella che è vissuta nel dinamismo pasquale della fede e della speranza, in vista della carità. Il teologo evangelico D. Bonhoeffer ha difeso il senso cristiano della croce con parole accalorate: «La croce non è disagio e duro destino, ma il dolore che ci colpisce a causa della nostra appartenenza al Cristo solo. La croce non è sofferenza accidentale, ma sofferenza necessaria. La croce non è sofferenza legata all’esistenza naturale, ma sofferenza legata alla nostra esistenza cristiana... Una cristianità che non prendeva più sul serio l’impegno di seguire Gesù, che aveva fatto del Vangelo solo una consolazione a buon mercato, e per la quale, del resto, l’esistenza naturale e quella cristiana coincidevano senza alcuna differenza, non poteva fare altrimenti che considerare la croce come disagio quotidiano, come la difficoltà e l’angoscia della nostra vita naturale... Croce significa «com-patire» con il Cristo, con la croce del Cristo. Solo chi è legato a Cristo, come accade per chi lo segue, si trova sul serio sotto la croce» (D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana).

Il cristiano che partecipa della stessa carità pasquale di Cristo e la vive «nel malvagio mondo presente» (Gal 1,4), ha un’esigenza interiore e una capacità di affrontare le sofferenze inerenti a questo genere di vita. La «tribolazione» incontrata nel vivere fedelmente e apostolicamente la adesione a Cristo entra nel dinamismo pasquale, in quanto radicalizza e approfondisce la donazione di carità.

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Tutti i cristiani sono così chiamati a partecipare alla croce del Signore. Ma per partecipare non basta semplicemente soffrire: bisogna — con il Cristo e nel Cristo — rovesciare il significato della sofferenza, facendola diventare espressione di amore pasquale. Superiamo così quell’accostamento semplicistico che vede nel malato, per il solo fatto che è malato, uno che partecipa in modo privilegiato alla passione di Cristo. Per partecipare della croce il dolore umano deve cambiare di segno. Questa sorprendente alchimia, che fa di un meno un più, avviene nel contesto globale dell’esistenza cristiana, cioè quella che comincia con il sì della fede e continua con l’impegno della sequela.

Nella tentazione del malato a regredire, sul piano psichico-morale-spirituale, l’evangelo è invito a crescere nella maturazione di una esistenza che si purifica e si libera dall’egoismo sino a divenire offerta.

Ma come si inserisce concretamente la malattia nell’insieme della vita richiesta dalla morale pasquale? E quale atteggiamento di fronte alla malattia deve prendere colui che vive in Cristo? Il cristiano che vuol vivere secondo il dinamismo della sequela del Maestro trova nello stato di malattia dei condizionamenti particolari. Lo stato di malattia, infatti, specie se prolungato, porta dei sovvertimenti profondi in tutta la vita dell’uomo. Dal punto di vista psicologico, possiamo ricordare la tendenza a regredire verso un certo grado di infantilismo. Per quanto riguarda la vita religiosa, bisogna denunciare il pericolo di un decadimento della fede in «religiosità». La malattia può essere occasione di un’esplosione del senso elementare del sacro, che si manifesta sotto forma di presentimento di forze che ci superano e che ci sottraggono il dominio della nostra vita. Di qui il rischio della magia — come tentativo di catturare quella potenza ― e della credulità.

Nemmeno la vita morale si salva da questo sovvertimento. È un luogo comune ripetere che il malato diventa egoista. Una generalizzazione di questo tipo denota una mentalità priva di finezza; forse è più vicino alla realtà dire che la malattia svela ed esaspera un egoismo già in atto nella vita da sano, ma reso meno evidente dalla vita quotidiana. Certo, la malattia non è il campo in cui necessariamente attecchisce l’egoismo che chiude: può nascervi anche la generosità che dilata. Ma anche questa non sorge necessariamente e spontaneamente. Perciò non possiamo condividere certi entusiasmi dei «doloristi» per la sofferenza come mezzo per capire quella degli altri. Dobbiamo

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anzi ammettere che in realtà la vita morale è fortemente condizionata dalla malattia. La sofferenza fisica, infatti, di per sé tende a concentrare tutta l’attenzione e tutta l’energia del malato verso il corpo, cioè verso il polo più esterno della persona. Essa sovverte quell’equilibrio psico-fisico, fatto dall’armoniosa collaborazione del corpo e dello spirito, che è il presupposto indispensabile per ogni vita «umana». Non è mai il corpo da solo ad essere malato, perché il corpo non esiste come entità separata: è tutto l’uomo, che soffre di un disordine, ad essere malato.

La sofferenza fisica diventa «croce» ― e quindi momento della salvezza ― solo quando entra nel dinamismo dell’amore oblativo e se ne rende espressione. Ma qual è l’atteggiamento che rende possibile questo capovolgimento del significato della sofferenza? Evidentemente la passività e la rassegnazione — quell’accettazione dell’inevitabile che potrebbe anche essere talvolta calo o perdita della speranza — non costituiscono un atteggiamento adeguato. Ci vuole un movimento positivo per fare della malattia e delle sue conseguenze un’espressione più profonda della vita morale. Volendo dare una regola fondamentale per indicare un comportamento coerente con l’impostazione generale della morale pasquale, diremo che il cristiano malato deve continuare sempre a riferirsi al dono di sé, da continuare anche nello stato di malattia, nonostante i condizionamenti negativi che esso tende a introdurre nella sua vita morale.

L’atteggiamento del cristiano si presenta, in questa prospettiva come una lotta a fondo contro ogni handicap che lo stato di malattia pone alla sua sequela di Cristo, caratterizzata dal dono oblativo di sé al Padre nel servizio dei fratelli. Si tratta di uno sforzo per continuare ad essere cristiano, fatto in una condizione che, di per sé, rende più difficile l’orientamento oblativo della vita. La evangelizzazione della Chièsa consiste precisamente nell’annuncio che per il credente la malattia può diventare «croce», cioè situazione in cui la donazione è provocata, purificata, approfondita.