Antropologia cristiana per un’etica della salute

Sandro Spinsanti

Antropologia cristiana per un’etica della salute

in Medicina e Morale

fasc. 3, 1976, pp. 213-228

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ANTROPOLOGIA CRISTIANA PER UN’ETICA DELLA SALUTE

Diogene, il «Cinico», andava in giro con la lanterna in pieno giorno dicendo di cercar l’uomo. Non era un filosofo in senso classico, ma piuttosto un contestatore dei filosofi di professione. «Socrate impazzito», lo chiamava Platone. I bravi filosofi di cittadinanza greca erano convinti di aver già trovato l’uomo; su di lui, «misura di tutte le cose», costruivano il loro sapere. Appunto con parola greca, l’esposizione sistematica delle conoscenze che si hanno attorno all’uomo continua a chiamarsi «antropologia».

I cristiani hanno una concezione dell’uomo coerente con la loro fede e la loro speranza. L’antropologia cristiana ha tuttavia uno statuto particolare, che non la rende omologa alle altre antropologie filosofiche, passate o contemporanee. Essa non ha infatti il carattere di un sapere ottenuto con la riflessione: è una rivelazione connessa con l'«universale concreto» costituito dall’esistenza storica di Gesù di Nazareth. È di carattere simbolico, se per simbolo intendiamo una mediazione tra la parola logos e la prassi. L’antropologia cristiana non è un sapere occulto, da iniziati, né la struttura dottrinale di un sistema ideologico. Cristo è il «poema», detto — o piuttosto «fatto»: la poesia affonda le sue radici etimologiche nel poiein greco, che è il «fare» — una volta per tutte. L’antropologia cristiana è l’esegesi di quel poema. Il poema stesso resta però più ricco di qualsiasi commento, mai totalmente riducibile alla saggezza di qualsivoglia chiosatore. Ogni sistematizzazione di antropologia cristiana ha perciò una funzione contingente rispetto a Cristo, «uomo nuovo», e su di lui dovrà misurarsi.

La comunità che segue le orme del Cristo continua ad annunciare

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con parole e gesti di salvezza, il progetto di Dio sull’uomo. Oggi il logos della chiesa sull’uomo ha maturato accentuazioni diverse che nel passato. Riferita ai problemi della salute, la visione cristiana dell’uomo si rivela portatrice di fermenti e di intuizioni ricche di promesse.

Rinnovamento dell’antropologia cristiana

La fede cristiana predica un Dio il cui segreto è costituito da un «progetto-uomo». Dalla sua rivelazione deriva un’«antropologia» e una «sociologia», vale a dire un’idea di uomo e di società conformi al progetto. Dimmi chi è il tuo Dio — si potrebbe dire ai credenti — e ti dirò qual è la società che costruisci, e per quale uomo.

Fino a un passato molto recente la chiesa cattolica ha elaborato il suo sapere sull’uomo in dipendenza dal Vangelo, ma in antitesi alle moderne antropologie 1. Sciolto l’abbraccio stretto in epoca di cristianità, la chiesa e il mondo moderno hanno cominciato ad esistere da estranei l’uno all’altra. Hanno brandito come un’arma la reciproca autonomia, tanto sul piano pratico che su quello dottrinale, utilizzandola a scopi polemici. Nei trattati tradizionali di teologia il pensiero dei fondatori delle moderne concezioni antropologiche — da Marx a Sartre, da Feuerbach a Freud — viene citato sotto la voce «Adversarii»; lo si riporta solo per confutarlo e sottolineare la distanza incolmabile che lo separa dall’antropologia cristiana.

Il distanziamento dalle antropologie della nostra epoca era funzionale alla prassi dei rapporti chiesa-mondo. Finché la chiesa continuò a vagheggiare come ideale di questo rapporto la situazione di cristianità e a nutrire nostalgie restaurative, era impensabile qualsiasi incontro con concezioni dell’uomo diverse da quelle che avevano preso forma nella teologia scolastica. E le differenze ideologiche, a loro volta, servivano a giustificare e a rafforzare la prassi della reciproca estraneità.

Il grande rinnovamento del Concilio Vaticano II ha il suo

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baricentro non in un aggiornamento dottrinale, bensì nel diverso modo scelto dalla chiesa di rapportarsi al mondo 2. I cristiani hanno riscoperto che la vita e l’insegnamento di Gesù li sfida a uscire dal salotto buono che si erano scelti a dimora, per muovere in direzione del mondo, accettato come "altro" rispetto alla chiesa. Si sentono chiamati a rinunziare alle sicurezze del sistema ideologico-dottrinale in cui si erano chiusi, per riacquistare così un tratto dello spirito d’infanzia: la temerarietà del bambino che non è mai così sicuro come nel pericolo.

La trasformazione dei rapporti della chiesa col mondo contemporaneo — tematizzata dalla costituzione pastorale Gaudium et Spes — ha un’incidenza decisiva sul rinnovamento dell’antropologia cristiana. Questa non appare più come un sistema chiuso da contrapporre ad altri. Se il suo punto di riferimento costitutivo resta il Cristo, primo uomo della nuova creazione, quale lo testimonia la Sacra Scrittura e lo trasmette la tradizione vivente della comunità cristiana, l’antropologia cristiana non ignora tuttavia la crisi spirituale dell’uomo, diventato enigma a se stesso. I credenti non vivono nell’isola dei beati, al riparo dalle tempeste; sono anch’essi investiti dalla crisi di un ordine metafisico assoluto, che è caratteristica dell’autocomprensione dell’uomo moderno.

Il Concilio non ha indotto la chiesa, in nome di un malinteso dialogo, a indossare il manto del filosofo e a parlare come maestra di una saggezza umana. La chiesa conciliare si è presentata nel mondo come chiesa, nella consapevolezza che ciò che la costituisce tale non è né un’ideologia unica, né una prassi omogenea di tutti i suoi membri, bensì la fede comune in Gesù Cristo. Da questa fede la chiesa attinge ciò che può illuminare il mistero dell’uomo («Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: G.S., 22).

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Avendo scelto come suo terreno di competenza quello della salvezza escatologica, la chiesa può condividere sinceramente la fatica di autocomprensione dell’uomo contemporaneo, senza rinunciare alle proprie certezze di fede e al gioioso annuncio di esse. Questa svolta nell’atteggiamento di fondo nei confronti del mondo moderno e dei suoi tentativi di capire l’uomo è chiaramente leggibile nel paragrafo della Gaudium et Spes che introduce la parte del documento che può essere considerata un sunto di antropologia cristiana:

«Credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra debba essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice.

Ma che cos’è l’uomo? Molte opinioni egli ha espresso ed esprime sul suo conto, opinioni varie ed anche contrarie, perché spesso o si esalta così da fare di sè una regola assoluta, o si abbassa fino alla disperazione, finendo in tal modo nel dubbio e nell’angoscia. Queste difficoltà la chiesa le sente profondamente e ad esse può dare una risposta che le viene dall’insegnamento della divina rivelazione, risposta che descrive la vera condizione dell’uomo, dà una ragione delle sue miserie, e insieme aiuta a riconoscere giustamente la sua dignità e vocazione» (G.S., 12).

L’antropologia cristiana non è dunque un letto di contenzione in cui debba essere legato quel pazzo furente che è l’uomo moderno. Certo, essa è critica nei confronti di ogni progetto antropologico e sociale riduttivo. Tutte le ideologie, infatti, usano in qualche maniera i famigerati metodi di Procuste. Il mitico "antropologo" aveva una sua ideale misura d’uomo e pretendeva che tutti quelli in cui s’imbatteva vi corrispondessero; perciò segava i più lunghi e stirava i più corti. Un’ideologia taglia via all’uomo la dimensione spirituale, un’altra assolutizza la sua storicità. La fede cristiana, indirizzando verso il Cristo, protesta contro tutte le mutilazioni e deformazioni antropologiche.

Tuttavia l’atteggiamento fondamentale del credente in Cristo nei confronti dei vari tentativi di comprendere e di modificare la situazione

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dell’uomo nel mondo non è la diffidenza o la polemica. L’antropologia cristiana può, senza tradire se stessa, assimilare gli elementi essenziali che strutturano la moderna autocomprensione dell’uomo. Li ritroviamo infatti nell’insegnamento antropologico del Vaticano II, in particolare nel già citato documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Ci limitiamo qui a evocare in maniera schematica, quasi per tratti stenografici, le coordinate essenziali di tale disegno antropologico.

La chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo è la categoria di persona. In quanto persona, l’uomo è un essere conscio di sé, che dispone di se stesso e si costruisce progressivamente, prendendo posizione con opzioni libere. Secondo l’antropologia cristiana l’uomo si costituisce persona quando si apre all’altro essere umano, ma soprattutto grazie al dialogo con Dio. La nozione di persona libera e dialogante nasce nel cristianesimo in dipendenza dall’esperienza della storia della salvezza. Questa non è una serie di eventi che l’umanità subisca come un soggetto inerte, bensì lo sviluppo dell’impegno con cui l’uomo risponde all’appello di Dio; essa implica perciò l’accettazione o il rifiuto di un ruolo, l’aprirsi o il chiudersi alla comunione.

In secondo luogo, l’uomo nella visione cristiana si realizza come tale sviluppando la dimensione sociale-comunitaria. La storia della salvezza tende verso una meta di unità di tutti gli uomini. Il compito fondamentale delle comunità cristiane nel mondo si qualifica come creazione di luoghi di incontro e di reciprocità, così da essere per tutti gli uomini un’indicazione di esistenza.

Infine, come terza dimensione dell’antropologia cristiana, accenniamo alla storicità. Anche la teologia partecipa all’orientamento attuale comune a tutte le antropologie di riflettere sull’uomo sotto il profilo del divenire. A ciò che le altre conoscenze antropologiche sanno sul divenire umano la fede cristiana aggiunge il senso ultimo di questo divenire: la salvezza. Più che qualsiasi altra antropologia quella cristiana può puntare sul futuro, dal momento che la storia ha preso un’accelerazione escatologica. La nostra identità sta davanti a noi, nel nostro futuro, non alle nostre spalle, perché Gesù Cristo è l’uomo del futuro assoluto: «Fin d’ora siamo figli di Dio; e ciò che noi saremo

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non è stato ancora manifestato. Ma sappiamo che quando fciò sarà manifestato saremo simili a lui, perché lb vedremo come egli è» (I Giov. 3,2).

Il cristiano e la vita corporale

L’antropologia cristiana proposta dal Concilio Vaticano II non si pone in rottura con la comprensione dell’uomo tradizionalmente propria del cristianesimo. Essa è piuttosto un tentativo di ricomprensione del messaggio di Gesù in dialogo cori le concezioni antropologiche moderne, in un interscambio che comporta una reciproca fecondazione. La visione cristiana dell’uomo ha una sua incidenza ovunque sia in gioco l’umanità dell’uomo. Limitiamo qui il nostro interesse all’impatto dell’antropologia cristiana sui problemi della salute.

Un primo nodo è costituito dal significato e valore del corpo per il cristiano. La sensibilità generale attribuisce oggi una singolare importanza alla vita corporale. Questa concezione implica il rifiuto di quel dualismo tradizionale che contrappone la vita del corpo a quella dell’anima. Nell’opinione comune tale rappresentazione delPuomb è considerata tipica del cristianesimo, tanto che anche i più informati saranno sorpresi scorrendo gli studi degli esegeti dai quali risulta che questo dualismo è in realtà estraneo alla Bibbia 3

La mentalità ebraica fa ricorso alla coppia di concetti dialettici «Carne» e «spirito», senza tuttavia contrapporli come due principi autonomi. Come il termine «carne» può indicare l’uomo intero, così anche «spirito» può significare il vivente concreto. «Carne» mette in risalto l’aspetto della caducità e della precarietà dell’uomo, mentre lo «spirito» ne sottolinea l’elemento vitale. Ovvero, in termini morali, la situazione dell’uomo abbandonato al proprio egoismo e al peccato, e quella dell’uomo sotto la mozione dello Spirito di Dio.

Il dualismo che vede nel corpo la pura materialità e nell’anima il

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principio spirituale eterno è in realtà di origine platonica. Grazie agli asceti — più che ai teologi, ispirati dall’ilemorfismo aristotelico-tomista —, tale dualismo è passato in tutta una tradizione cristiana, tanto da essere volgarmente identificato col cristianesimo stesso. In polemica con lo spiritualismo dualista il pensiero moderno ha voluto ritrovare l’unità dell’uomo reale. Di qui l’importanza attribuita oggi alla fenomenologia del corpo. Il soggetto umano — la persona — si apre al mondo per il tramite del corpo. La corporeità, come momento essenziale del soggetto, è la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone umane 4.

La svolta antropologica che ha attribuito al corpo il posto i centrale nella concezione dell’uomo ha avuto degli esiti negativi, se considerati con sensibilità cristiana. Il più sovente essa ha condotto a un crasso materialismo, che si è espresso nella priorità data alla vita vegetativa e sensitiva, nel consumismo, nell’idolatria del corpo. Un seguito ancor più fatale è stato l’imprigionamento dell’uomo in un orizzonte immanentistico. L’incapacità di considerare altre forme di esistenza oltre a quella corporea porta ad aggrapparsi in modo ansioso alla vita. Possiamo ancora sorridere di fronte alle misure cautelative dei ricchi americani che fanno congelare il proprio corpo in attesa di essere riportati in vita da futuri miracoli della medicina; dobbiamo invece seriamente preoccuparci quando consideriamo i danni psicologici causati dalla rimozione delle immagini della morte. Secondo alcuni psicologi questa rimozione sarebbe all’origine di diffusi comportamenti nevrotici 5.

La rivalutazione del corpo da parte delle antropologie moderne non ha mancato di suscitare una certa ostilità da parte cristiana,

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specialmente in considerazione delle riduzioni antropologiche cui ha; dato luogo. È possibile tuttavia considerare questo dato antropologico come un elemento legittimo della visione cristiana dell’uomo, consono all’antropologia biblica. La sua prima funzione può essere quella di correggere deformazioni occasionalmente infiltratesi nella dottrina e nella prassi cristiane.

Il cristianesimo ha amato sottolineare la relatività nel tempo dell’esistenza umana in quanto esistenza terrena, caduca e precaria come il corpo dell’uomo. Di conseguenza la vita del corpo ha subito una certa svalutazione. Un pessimismo di tipo ascetico si è risolto! anch’esso in un sospetto pregiudiziale nei confronti del corpo. In alcune correnti spirituali questa svalutazione è degenerata in un vero e proprio disprezzo del corpo e delle sue attività, in particolare della sessualità. La dottrina ufficiale ha sempre condannato gli estremismi (come l’automutilazione di Origene); in pratica però la diffidenza nei confronti del corpo è stato l’atteggiamento prevalente nel cristianesimo.

Oggi lo sbilanciamento spiritualista può essere riequilibrato grazie alle categorie personaliste. La considerazione di cui ha sempre goduto lo spirito umano si riflette sul corpo, che non è la prigione dell’anima, bensì la persona nella sua condizione mondana. Il corpo partecipa quindi della sacralità riconosciuta alla persona umana, che per il cristiano è «immagine di Dio».

Il frutto più vistoso di questa rivalutazione dell’uomo nella sua condizione corporea è la crescita del rispetto per la vita 6. Troppo spesso in passato, anche in regime di cristianità e in culture informate da principi cristiani, la vita fisica è stata vilipesa. Basti pensare alla tortura giudiziaria, alle mutilazioni inflitte come castigo, alla stessa pena di morte. Nel campo dell’ascetica cristiana è stata favorita una spiritualità della malattia di tipo dolorista. Si è parlato della malattia come di uno stato particolare che favorisce la purificazione dell’anima, l’espiazione delle colpe, l’acquisizione dei meriti. In alcuni casi estremi si è giunti a parlare di una «vocazione alla malattia», o addirittura del «privilegio» di essere malati.

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Un’antropologia più equilibrata insegna oggi al cristiano a navigare tra i due scogli del disprezzo della vita corporea e della sua assolutizzazione materialista. La vita terrena non è solo una tappa contingente nel cammino verso l’aldilà; essa è un dono di Dio di cui l’uomo ha la gestione.

È tradizionale nel comune linguaggio religioso parlare della vita come dono di Dio. L’espressione è impiegata per lo più in modo restrittivo. Qualificando la vita come dono si intende affermare che Dio ne è padrone e solo lui può riprendersela: l’uomo non può disporre arbitrariamente della propria vita. All’espressione può essere attribuito un senso molto più ampio. Il dono della vita acquista tutto il suo valore quando lo consideriamo nel contesto di quella che K. Barth chiama «l’etica dell’obbedienza» 7. Nell’esistenza umana come tale è implicito il comandamento di vivere. Dio creatore ordina all’uomo di onorare la vita — la propria come quella degli altri uomini — come un bene che viene da lui. Approvando la vita, volendola, l’uomo obbedisce a Dio.

Volere la vita equivale alla volontà di essere in salute. La salute di cui qui è questione non si riduce a quell’equilibrio organico e al connesso senso di pienezza e benessere che sono talvolta oggetto di un culto quasi idolatrico. L’igienismo è una caricatura della salute in senso antropologico. Se la salute coincide con la forza di essere uomo, il malato, anche gravemente colpito, può voler essere in salute, senza per questo farsi illusione sul proprio stato. Voler la salute significa voler essere uomo sino alla fine (appare qui la possibilità di fondare su questo diritto della persona la limitazione delle terapie di rianimazione, quando queste si risolvessero in un accanimento terapeutico che espropria l’uomo della dignità nel morire).

Su questa concezione della salute si fonda quella che K. Barth chiama «la regola fondamentale dell’etica della malattia»: «esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che l’accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla». In una società che ha perduto il senso del sacro, questo principio etico ci sembra difendere la densità religiosa del fatto stesso

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di vivere, meglio che un richiamo formale al «carattere sacro» della vita.

L’opzione cristiana per la vita, intesa come volontà e forza di essere uomo, ha anche una dimensione sociale. Al vecchio principio: «Mens sana in corpore sano» bisogna aggiungere: «in societate sana». Abbiamo preso coscienza infatti che bisogna promuovere non solo tutto l’uomo, ma anche tutti gli uomini, se non vogliamo cadere in uria raffinata barbarie. Tutta la medicina sociale e preventiva trova perciò la più ampia approvazione da parte dell’antropologia cristiana.

I cristiani possono con tranquilla coscienza far proprio il partito preso per la salute e la vita. Esso non è una filiazione dello spirito pagano, bensì la comprensione più adeguata, con il contributo della moderna antropologia, di che cosa comporta la sequela di Colui che «passò facendo del bene e guarendo» (cfr. Atti 10,38).

Comunità cristiana e socializzazione del malato

Le attività assistenziali sono di casa nella chiesa, sembrano addirittura nate con la comunità cristiana stessa. Nella comprensione teologica che la chiesa ha di se stessi, i gesti di amore e di servizio verso infermi, poveri ed emarginati («diakonia») hanno un significato che trascende quello della filantropia in senso umanistico: fanno parte essi stessi della «leiturgia», vale a dire del servizio divino, ed hanno quindi un significato sacramentale. Un teologo anglicano ha potuto stabilire un felice parallelo tra la «comunione» mediante il bicchiere d’acqua fresca offerto all’assetato e la comunione eucaristica mediante la coppa di benedizione: «Si tratta di due sacramenti intimamente connessi e in ultima analisi inseparabili, perché derivano dallo stesso Signore incarnato. La comunione con Dio nella mano che tocca il lebbroso costituisce una sola cosa con la comunione con Dio nella mano che spezza il pane nel cenacolo» 8.

Soltanto i credenti, evidentemente, possono riconoscere nell’attività caritativa una dimensione salvifico-sacramentale. Tuttavia la chiesa nel suo aspetto sociale ha una rilevanza per tutti coloro che,

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prescindendo da una fede religiosa, considerano i legami comunitari come parte integrante di un trattamento terapeutico globale.

Dal punto di vista sociologico, le comunità a carattere religioso offrono tutti i vantaggi dei piccoli gruppi. Le relazioni interpersonali diventano desiderabili e possibili; il singolo si sente conosciuto, accettato e valorizzato; il sostegno reciproco porta ad assumere i pesi gli uni degli altri, senza che nessuno se ne senta umiliato. Questo tipo di rapporto umano costituisce l’auspicabile premessa per soluzioni creative ai problemi crescenti originati dal progresso della medicina e da una politica sanitaria più efficace. Le tante vite fragili che la medicina riesce a strappare alla morte, senza tuttavia poter garantire loro quanto è necessario per una completa autonomia; l’aumento della durata media della vita, con una popolazione anziana sempre più longeva; la specializzazione dei servizi sanitari, sempre più efficaci ma sempre più impersonali: altrettanti problemi gravi ai quali ci troviamo improvvisamente affrontati. Le capacità umane non valorizzate e i bisogni non soddisfatti costituiscono una fonte di squilibrio e degradano la qualità umana della vita. La società intera è sfidata a trovare soluzioni che non sappiano di mattatoio.

Anche agli occhi dell’agnostico la chiesa può giocare qui un ruolo prezioso. Essa si propone come scopo intramondano la creazione della «comunità locale» 9. In essa la profondità dei rapporti interpersonali fa aumentare il livello di responsabilità comunitaria nei confronti dei malati, invalidi, disadattati. Non è necessario condividere la fede religiosa che fonda la comunità cristiana per avvertire gli effetti benefici dei legami comunitari. Con la sua capacità di integrazione la comunità credente è dotata di una singolare forza terapeutica.

La situazione contemporanea è matura per una ristrutturazione del rapporto tra la medicina e la chiesa. Fino a un passato molto recènte l’atteggiamento dominante negli ambienti medici era quello dell’agnosticismo e della diffidenza. Non bisogna dimenticare infatti che il diritto-dovere dello stato moderno di provvedere alla salute dei cittadini è stato conquistato contro l’opposizione spesso esplicita della

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chiesa. Per un seguito di vicende storiche, alla chiesa era stata affidata la supplenza nei compiti assistenziali. La laicizzazione degli ospedali ha costituito il momento saliente del processo che ha portato gli stati moderni a prendere direttamente a carico la salute dei cittadini. Gli ospedali da istituzioni di assistenza sono diventati gli strumenti essenziali di una politica della salute a beneficio della popolazione nel suo insieme. Questo movimento di laicizzazione non è avvenuto senza traumi. Per altro verso, assistiamo oggi a una maggiore attenzione da parte della medicina all’uomo come entità psico-fisico-sociale. Questo approccio olistico porta a valorizzare dal punto di vista terapeutico anche gli aspetti non propriamente medici, ma dai quali la medicina non può prescindere se vuol veramente pomuovere lo «stato di completo benessere fisico e morale» dei cittadini, secondo la definizione di «salute» adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La vita spirituale dell’uomo, specialmente se inserita in un contesto comunitario, è un elemento importantissimo di questa terapia globale.

Una mentalità meno settaria considera oggi con più benevolenza l’azione che può svolgere la chiesa. Ciò non significa che si auspichi il ritorno ad atteggiamenti e situazioni del passato. In particolare, è acquisito in maniera ormai definitiva che l’attività assistenziale è fondata sul diritto dell’individuo in quanto persona umana, più che sulla benevolenza di alcuni, magari ispirati da motivi di carità cristiana. Al tempo della rivoluzione francese questa nuova concezione dell’assistenza era stata tradotta in testi legislativi. La costituzione del 1793 diceva in merito: «I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini sventurati sia procurando loro il lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a coloro che non sono in grado di lavorare». La legislazione rivoluzionaria ha incontrato l’opposizione dichiarata degli ambienti religiosi. Essi temevano che in tale modo venisse proscritta la carità, secondo lo spirito di Voltaire che bollava questa parola come «infame».

Le istituzioni di previdenza sociale del nostro tempo sono il prodotto più del liberalismo e della rivoluzione industriale che dello spirito dei filosofi illuminati. La rivendicazione dell’assistenza pubblica da parte dello stato non si fonda più su un’ideologia anticristiana.

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Ciò permette alla chiesa di accettare la secolarizzazione dell’assistenza senza vedervi un attentato alla propria esistenza. Si tratta, in fondo, della coerente applicazione del principio della legittima autonomia delle realtà terrene stabilito dalla Gaudium et Spes (n. 36).

Quando la chiesa accetta cordialmente e illuminatamente di ridefinire il rapporto delle sue iniziative caritative con l’attività sanitaria dello stato, scopre che le si offrono altri compiti. Essa non è chiamata a creare istituzioni parallele e competitive con quelle dello stato, bensì a incrementare la dimensione comunitaria che costituisce la sua specificità.

L’ideologia soggiacente al diritto all’assistenza di stampo illuminista era quella del Contratto sociale di Rousseau: la società, a vantaggio della quale l’individuo ha alienato una parte della sua libertà, deve in cambio farlo beneficiare di un’organizzazione senza difetti. La comunità cristiana attinge invece dalla sua antropologia l’ispirazione per un’attività il cui perno sia costituito dalla promozione della persona umana, in quanto voluta da Dio nella sua irripetibile unicità e scelta dal Cristo a rappresentarlo («Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo...»). Perché questa persona possa realizzarsi ha bisogno del sostegno della comunità: della grande comunità sociale che le assicuri quanto è necessario per sopperire ai bisogni, e della piccola comunità fraterna in cui l’individuo viva la propria unicità nella reciprocità, sentendosi conosciuto e riconosciuto. Soprattutto in questo settore l’azione della comunità cristiana ha possibilità d’intervento peculiari.

La socializzazione delle risorse e dei bisogni è promossa oggi con vigore dalle correnti politiche di ispirazione socialista. I cristiani riconoscono nella socializzazione un valore che specifica la loro concezione antropologica. Il gruppo dei credenti della prima ora, secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, viveva la koinonia, un rapporto cioè che includeva la comunione dei beni, senza ridursi ad essa: «La moltitudine dei credenti non aveva che un cuore solo e un’anima sola. Nessuno diceva suo ciò che gli apparteneva, ma tra loro tutto era in comune» (Atti 4,32). Avere tutte le cose in comune, compresa la malattia, l’handicap, le carenze psico fisiche: ecco il principio costitutivo della comunità cristiana.

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Il riferimento allo spirito che l’animò alle origini deve indurre la comunità cristiana a esercitare un’autocritica e a ristrutturare ciò che, allo stato attuale della coscienza sociale, si rivela inadeguato. In questo senso devono essere sottoposte ad un serio ripensamento le opere sorte al fine di accogliere coloro che la società rifiutava come inutili. Evidentemente non si tratta di screditare opere coraggiose, come il Cottolengo o gli istituti di Don Guanella; né tanto meno di mettere in dubbio l’eroica abnegazione delle persone che le hanno create e le mantengono in vita. Tuttavia non si può negare che per lo più tali istituzioni si rivelano carenti quando le si consideri dal punto di vista della socializzazione di coloro che esse ospitano. Questo tipo di istituzioni ha costituito un’attività che può essere brutalmente qualificata come «raccolta dei rifiuti». Mediante ospizi e asili gestiti da personale religioso la società si toglieva da davanti agli occhi la presenza fastidiosa dei superflui e degli abnormi. Questi ospizi obbedivano alla stessa logica che ha creato i manicomi e gli istituti-lager. Le opere della chiesa hanno raccolto con amore i rifiuti umani della società, la quale distoglie lo sguardo da ciò che butta via. Il motivo religioso che spingeva a questo gesto era la volontà di valorizzare ogni forma di sofferenza, considerata come continuazione mistica della passione redentrice del Cristo. È questa spiritualità che ha suggerito di mettere in ogni sala del Cottolengo un altare, su cui è idealmente offerto come vittima innocente l’handicappato.

Questa spiritualità della malattia lascia perplessi. Ma soprattutto ci fa problema l’isolamento sociale dell’ospite di tali asili. Questi tendono a diventare ghetti, ermeticamente chiusi all’esterno. La situazione è rispecchiata dal film «Matti da slegare», un documentario che vuol illustrare le alternative che l’amministrazione provinciale di Parma si sforza di creare all’emarginazione sociale 10. Gli intervistatori bussano alla porta di vari ospizi e istituti della città gestiti da religiose, ma si trovano ripetutamente di fronte ad un muro impenetrabile di diffidenza: non vengono neppure lasciati entrare. Con scoperta intenzione polemica vengono contrapposti due atteggiamenti

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che sottendono concezioni diverse dell’assistenza: da una parte, quello dell’amministrazione civica, che cerca di reinserire i reclusi nel tessuto sociale, rendendo tutta la popolazione cosciente e responsabile 11; dall’altra, quello delle istituzioni religiose, che concepiscono il servizio ai più sfortunati come un momento privilegiato della carità cristiana, ma fatto in un aristocratico isolamento spirituale e con soluzioni assistenziali di isolamento dal resto della comunità civile. Bisogna avere il coraggio di aprire gli occhi su queste disfunzioni. Riconoscere l’inadeguatezza di certe impostazioni dell’assistenza rispetto alle esigenze di socializzazione non significa indulgere all’autodenigrazione. Vuol dire piuttosto accettare la possibilità di una crescita qualitativa nel servizio che la comunità cristiana rende a coloro la cui pienezza vitale è minacciata. Il rifiuto dell’emarginazione non è solo un’esigenza mutuata dalla cultura contemporanea. Esso corrisponde alla più profonda ispirazione dell’antropologia cristiana, che vede l’uomo realizzato solo in seno a una comunità che garantisca a ognuno la propria dignità umana. Dalle emarginazioni di ogni tipo — da quelle cui sono costretti gli handicappati fisici o mentali a quelle che colpiscono gli anziani — la comunità cristiana è sfidata a trovare una risposta originale, che non rafforzi le esclusioni già esistenti. Mentre il rigetto sociale dei «diversi» e degli «inutili» rimane ancora patente nel comportamento collettivo e privato, la comunità cristiana può costituire un’istanza di integrazione effettiva delle esistenze umane più precarie. A tal fine dovrà evitare però quella forma più raffinata di emarginazione che consiste nel mettere qualcuno sull’altare. Sull’altare della croce ci si è messo Gesù Cristo, per tutti e una volta per sempre, affinché i suoi discepoli diventassero una comunità capace di accogliere ognuno sulla base dell’uguaglianza fraterna. Quando la

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socializzazione sarà effettiva le affermazioni di principio — spesso ripetute e sempre meno ascoltate — che «la vita è sacra», saranno accompagnate dalla dimostrazione che la vita può essere «santificata», vale a dire resa partecipe di quella potenza di liberazione che i cristiani hanno imparato a riconoscere nella novità che ha accompagnato i passi terreni di Gesù di Nazareth.

1 Tra i manuali teologici recenti la visione d’insieme più esauriente dell’antropologia cristiana è fornita da M. Flick - Z. Alszeghy (1970); Fondamenti di una antropologia teologica, Firenze. Degli stessi autori, in tono più divulgativo, L’uomo nella teologia, Modena 1971.

2 Il punto di riferimento obbligato è la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo. Tra i numerosi saggi di commento contenuti nella raccolta curata da G. Baraúna (1966); La chiesa nel mondo di oggi, Firenze, cfr. G. AlberigoLa costituzione in rapporto al magistero globale del concilio, pp. 172-195 e J.M.R. Tillard, Il sottosuolo teologico della costituzione: la Chiesa e i valori terrestri, pp. 213-250.

3 Per l’antropologia biblica cfr W. Mork (1971); Linee di antropologia biblica, Fossano; L. Scheffczyk (1970); L’uomo moderno di fronte alla concezione antropologica della Bibbia, Torino. Fondamentale resta la monografia di J. A. Robinson (1967); Il corpo, Torino.

4 «Il corpo è sempre apparizione dell’uomo completo: è quell’espressione nella quale l’uomo si manifesta in se stesso, è Tesserci, la “presenza” (F. J. Buytendijk), l’“azione prima” (G. Siewerth), la “parola” (H.E. Hengstenberg), il “simbolo” (K. Rahner), il “mediatore dell’essere” (B. Welte), la “excarnazione” (H. Conrad-Martinus), l’“interiorità che si apre” (R. Guardini) dell’uomo. Nel corpo si incontra non soltanto un aggregato materiale, bensì l’apparizione dell’unico uomo completo»: J.B. MetzCorporeità, in Dizionario teologico, Brescia 1966, vol. I, p. 336.

5 Per una discussione più ampia sulle trasformazioni socio-psicologiche dell’atteggiamento nei confronti della morte, cf. S. Spinsanti (1976), I compagni scomodi dell’uomo-massa, Alba.

6 Cfr. J.M. Aubert (1976), Il rispetto per la vita corporale, in Problemi e prospettive di teologia morale, Brescia, pp. 333-362.

7 K. BarthDogmatique, vol. III/4 (ediz. franc. vol. 16°), Ginevra 1965.

8 R.A. Lambourne (1963), Community, Church and Healing, London, p. 75.

9 Il tema della chiesa locale è una delle dimensioni portanti del rinnovamento ecclesiastico operato dal Concilio. Per una visione d’insieme, cfr. F. Klostermann - N. Greinacher (1971), La Chiesa locale, Brescia.

10 La sceneggiatura del film è stata trascritta e pubblicata con lo stesso titolo, Matti da slegare, Torino 1976.

11 Nel film ricorrono testimonianze impressionanti delle trasformazioni di mentalità cui può dar luogo un’integrazione reale degli handicappati. Così la dichiarazione di un operaio in una fabbrica in cui lavorano dei giovani mongoloidi: «Noi abbiamo scoperto quel senso di umanità che prima forse l’avevamo un po’ perso, si era un po’ disperso. Questi ragazzi, che fra loro sono amici veramente, si vogliono bene: vedere loro a volersi così bene, anche in noi questo sentimento è rispuntato. Anche loro hanno insegnato qualcosa a noi». Un altro operaio propone anche l’inserimento nelle scuole: «Se inseriti in scuole normali, con altri ragazzi, intanto anche gli altri ragazzi imparano a conoscerli e, quando crescono, non hanno più quella lontananza che abbiamo avuto noi da loro»: Matti da slegare, p. 75.