Aspetti etici delle cure palliative

Sandro Spinsanti

ASPETTI ETICI DELLE CURE PALLIATIVE

in Giornale Italiano di Endoscopia Digestiva

anno 4, volume 30, dicembre 2007, pp. 326-328

326

La riflessione sulle cure palliative

ha progressivamente spostato

attenzione dalla terapia del dolore

― che resta una condizione preliminare

necessaria, ma non sufficiente ―

al problema centrale:

quali sono i compiti della medicina

nei confronti dei malati

avviati non verso la guarigione

o la stabilizzazione dello stato patologico,

ma verso la fine della vita?

Il “prendersi cura” della persona morente

integra e completa il “curare”,

così come lo intende la biomedicina”.

PREFAZIONE

C’è voluto molto tempo. E soprattutto la sofferenza di innumerevoli persone. Sono state necessarie delle battaglie, ingiuste ed eccessive come tutte le battaglie. Ci si è scagliati contro i medici, accusandoli di indulgere all’accanimento terapeutico”, di aver perso il senso della misura e addirittura l’originaria ispirazione della loro professione. Si è dovuto passare attraverso massicce campagne di opinione, che hanno fatto sorgere organizzazioni rivolte a rivendicare all’individuo il diritto a una morte degna, sottraendosi all’arbitrio dell’apparato medico. È stato necessario che si arrivasse a proposte di una legislazione favorevole all'eutanasia, in nome di un’umanizzazione del morire. Siamo dovuti passare per queste strade ambigue e tortuose, ma alla fine qualcosa è successo.

Ci siamo accorti, finalmente, di quanto si muoia male nella nostra società. Per tanti motivi: non ultimo quello culturale, vale a dire la rimozione della morte come momento inevitabile e necessario della vicenda umana. Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue insufficienze, bensì ― paradossalmente ― a causa della sua efficacia. Abbiamo oggi, nell’Occidente sviluppato e tecnologico, una medicina idealmente efficace, che riesce a procurare la guarigione in una quantità di malattie, che in passato sarebbero state fatali. Ma questa medicina non può guarire sempre: è inevitabile. Per quante volte si riesca a salvare la vita di una persona, alla fine ci sarà pur sempre un malato che non guarisce e che va verso la morte. Ora, la nostra straordinaria medicina curativa ― di cui siamo giustamente fieri, che vogliamo promuovere e potenziare ― non è adatta ad assistere il paziente che muore. Per questo oggi si muore così male. Ce ne siamo accorti e abbiamo cominciato a cambiare strada. Da questa consapevolezza sono nate le cure palliative.

327

Aspetti etici

Si può pensare che il termine “cure palliative” non sia felice. Il peggior nemico per le cure palliative è il loro stesso nome. È come, per una persona, farsi prendere sul serio presentandosi con un cognome ridicolo... Nel linguaggio comune quando si parla di un “palliativo” si intende «un rimedio che attenua il male senza guarirlo» (è la definizione che dà il dizionario).

L’associazione mentale più frequente è quella che considera un intervento palliativo come l’opposto di una cura efficace.

Come arrivare a far intendere che le cure palliative sono, invece, grande medicina?

È necessario, inoltre, collocare questo tipo di attività medica rispetto al resto della medicina: è una specialità medica? Una disciplina?

Oppure, addirittura, l’opposto della medicina, in quanto rinuncia a guarire?

Si tratta forse di creare, sotto l’egida della medicina palliativa, un’agenzia umanitaria su cui scaricare gli insuccessi della medicina curativa?

Gli interrogativi sono legittimi, le riserve giustificate.

Il ricorso alla terminologia collaudata e accettata in altri Paesi ― in primo luogo quelli anglosassoni, che parlano correntemente di Palliative medicine e di Palliative care ― ha il vantaggio di legittimare l’appoggiarsi alle realtà, scientifiche e istituzionali, che altrove hanno preceduto le nostre realizzazioni. Le riserve nei confronti del nome sono particolarmente giustificate se qualcuno interpretasse la palpazione come un’attività opposta rispetto a quella terapeutica. Perché la medicina palliativa non è altro che la medicina tout court. L’aggettivo “palliativo” è strumentale: vuol aiutare la medicina a recuperare una sua dimensione, che è stata messa in ombra dagli sviluppi recenti. Quando la medicina se ne sarà riappropriata, l’aggettivo potrà scomparire nel sostantivo, come il lievito nella pasta.

E chi farà della palliazione potrà dire che sta semplicemente esercitando l’arte medica. Prima però di rinunciare all’aggettivo qualificativo, dovremo essere sicuri che la “controrivoluzione” necessaria per far ritrovare alla medicina la strada che porta al paziente come essere umano sia stata compiuta.

La medicina delle cure palliative è la medicina di sempre. È un modo di esercitare l’arte terapeutica che, rispetto a ciò che conosciamo sotto il nome di medicina, ha tuttavia un carattere di complementarietà. Così come il maschile e il femminile sono due modi diversi, ma complementari, di realizzare la comune natura umana. L’accenno al femminile non è casuale. La medicina palliativa deve molto alle donne. Sono donne le leaders carismatiche del movimento: Dame Cecily Saunders, la fondatrice del St. Christoper’s Hospice; Elisabeth Kübler Ross, che ha elevato a conoscenza scientifica la psicologia del morente. È “femminile” la sensibilità che ha permesso di vedere la sofferenza del malato terminale: una sofferenza che non si limita al dolore fisico provocato dalle malattie degenerative, ma comprende dimensioni psicologiche, sociali, spirituali.

Questa medicina di sapore materno non va semplice― mente contrapposta all’altra, quella curativa. Se non altro perché il controllo del dolore, che è il primo imperativo delle cure palliative, rimane un atto medico che non può fare a meno delle conoscenze farmaco― logiche più sofisticate. Il trapasso dalla dimensione curativa a quella palliativa della medicina è graduale. Il discernimento dei tempi e dei modi della transizione dall’una all’altra richiede grande capacità empatica da parte del terapeuta.

Per cogliere i rapporti che intercorrono tra le due dimensioni ci può essere di nuovo utile il parallelismo tra il maschile e il femminile. Queste sono, sì, due modalità diverse e complementari di realizzare la natura umana; ma hanno bisogno l’una dell’altra. Non solo nell’umanità come genere, ma anche nella stessa persona: la donna migliore è quella che non ha represso il suo animus, ma piuttosto quella che l’ha accettato e integrato. Lo stesso vale per l’uomo con la sua anima. Analogamente a ciò che avviene nella singola persona, dove le due polarità psicosessuali devono entrare in un gioco di integrazione, possiamo dire che la dimensione curativa e quella palliativa della medicina non devono escludersi, ma completarsi reciprocamente.

È necessario resistere alla seduzione di collocare le cure palliative nel vuoto che si è creato là dove la cultura moderna, radicalmente immanentista, ha disimparato a guardare oltre il limite della vita terrena. In ambito religioso la preparazione alla morte ha costituito, fino a un’epoca molto recente, un cardine della predicazione e della devozione privata. Al credente veniva insegnato che viveva per morire, e moriva per la vita eterna. Il sacerdote, in quanto professionista del sacro, era lo specialista della morte, considerata come cerniera tra la vita terrena e l’“altra vita”. L’ars moriendi, che intendeva promuovere la capacità di morire bene, è stata per secoli un genere letterario molto coltivato. Le cure palliative non devono essere intese come un surrogato di quell’arte, che in quanto tale è andata perduta.

Oggi il morire non è più competenza di nessuno: né dei tradizionali medici dell’anima, né degli attuali sacerdoti della scienza medica. I primi sono stati allontanati

328

dal letto dei morenti, i secondi si sono sempre più esclusivamente identificati come professionisti dell'ars curandi e hanno perso ogni contatto con l’ars moriendi. Elemento marginale e residuale dell’organizzazione sanitaria rivolta a guarire, il morente può solo contare sulla buona volontà di qualche isolato professionista.

Le cure palliative, pur partendo dalla consapevolezza che si rivolgono a malati non destinati alla guarigione, né alla cronicità, bensì avviati verso la fine della vita, possono a giusto titolo rivendicare il loro orientamento alla salute, non meno dei trattamenti curativi e riabilitativi. Saper guardare nella direzione della morte arricchisce il concetto stesso di salute. Là salute, infatti, non è piena se è costruita sulla rimozione della morte, se esclude il naturale procedere della vita organica verso la fine. Al contrario, la salute che sappia guardare in faccia la morte, e assumerla, sì orienta a sublimarsi nella “Grande Salute” (Nietzsche).

La medicina per il malato che non va verso la guarigione, ma verso la conclusione della vita, trova nella salute un importante orientamento. Le cure palliative non si definiscono a partire dalla morte, né come una medicina che aiuta a morire: sono una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte (in una prospettiva antropologica spiritualista, rimane un vivente anche dopo la morte!).

La situazione che si crea quando sì tiene la morte in vista comporta due accentuazioni nella pratica clinica abituale: la preoccupazione per la palpazione del dolore e dei sintomi in generale e la qualità della comunicazione con il malato. Della terapia del dolore abbiamo parlato nel paragrafo precedente. Lo stato di terminalità costituisce un giro di vite nell’urgenza di controllare il dolore (che peraltro si estende a qualsiasi condizione patologica). Le cure palliative appropriatamente considerano il dolore come il nemico. Analogamente possiamo affermare che la comunicazione con il malato non è esclusiva della fase terminale della malattia. Le cure palliative mettono solo nella massima evidenza che il malato non può essere solo qualcuno di cui si parla, ma deve essere qualcuno con cui si parla. Solo questo tipo di comunicazione permette di considerare il malato che non guarisce come un soggetto.

BIBLIOGRAFIA

Amadori D, De Conno F., Libro italiano di cure palliative, Paletto Editore, Milano, 2003

Di Mola G., (a cura di), Cure palliative: approccio multidisciplinare alle malattie inguaribili, Masson Editore, Milano, 1988

Salvino L., Nati per soffrire? Per un'etica del dolore, Città Nuova Editore, Roma, 2007

Zavoli S., Il dolore inutile, Garzanti Editore, Milano, 2005

Minuzzo S., Nursing nel dolore, Carocci Editore, Roma, 2004

Bazzoli L., Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Mondatori Editore, Milano, 2005

Natoli S., L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli Editore, Milano, 2002

Boraschi A, Manconi L., Il dolore e la politica, Bruno Mondatori Editore, Torino, 2007

Belardinelli S., (a cura di), Bioetica del dolore, FrancoAngeli Editore, Milano, 2006