Il volontario e il malato di fronte al bisogno di significato

Sandro Spinsanti

IL VOLONTARIO E IL MALATO DI FRONTE AL BISOGNO DI SIGNIFICATO

in Il ruolo del volontariato nelle cure palliative

Lega italiana per la lotta contro i tumori, Sezione milanese

Milano 1990

pp. 11-16

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Abbiamo a disposizione diverse vie per cercar di capire il senso e la finalità del volontariato in ambito sanitario. Possiamo partire, ad esempio, da coloro che svolgono attività di volontariato domandandoci quali sono i motivi che li spingono, gli obiettivi che si propongono soggettivamente, le interazioni che stabiliscono con coloro ai quali si rivolgono. Questo approccio centrato sulla persona del volontario è praticabile e utile, soprattutto ai volontari stessi. Questi devono sapere che nei confronti della loro opera esistono, in misura corrispondente, prevenzioni positive e negative, entusiasmo e critiche.

Il volontario è, per chi lo considera dall’esterno, un personaggio enigmatico, soggetto a diversi tipi di decodificazione. C’è chi saluta come un fatto incondizionatamente positivo che delle persone dedichino gratuitamente parte del loro tempo agli altri, rivolgendosi in particolare a coloro che si trovano in situazione di sofferenza e di abbandono. L’azione gratuita, in particolare, si distacca sul fondo di interessi economici, e non di rado di venalità, che cementa la nostra abituale convivenza sociale. Ma c’è anche chi reagisce con il sospetto di fronte a simili atti di abnegazione e di bontà. E non per la malvagità del proprio cuore, ma per aver imparato con l’esperienza che dietro i comportamenti più sublimi si nascondono spesso grovigli di vipere, destinati ad avvelenare i rapporti umani. Il corrispettivo economico che sancisce la prestazione di un’opera professionale può operare anche nel senso della libertà, mentre l’opera gratuita può lasciare sottili strascichi di dipendenza, può attivare un senso di debito irrisarcibile, può confondere il registro dei rapporti famigliari con quello dei rapporti sociali.

I volontari farebbero bene a non assumere un sistematico atteggiamento di difesa nei confronti di coloro che mettono in discussione l’opera di volontariato, con interrogativi seri e motivati. Accettando il sospetto e sottoponendosi al suo scrutinio, possono utilmente mettere la propria opera su una via di purificazione e chiarificazione, da cui può uscire migliorata.

Per quanto proficua possa essere questa prospettiva centrata sul volontario, quella che seguiremo guarda in un’altra direzione. Preferiamo domandarci non tanto che cosa motiva il volontario, quanto piuttosto a quali bisogni del malato risponde questo tipo di opera. È un’inversione di prospettiva di non poco conto. Essa presuppone quel cambiamento tipico della medicina umanistica, che rifiuta di lasciar confinare l'opera sanitaria nel solo ambito somatico, riducendo inoltre l'intervento medico a qualche cosa che si gioca esclusivamente sul piano organicistico. La medicina umanistica vuol rimettere il paziente al centro dell'intervento terapeutico, riconoscendogli al tempo stesso una pluralità articolata di bisogni: somatici, ma anche psichici; sociali, ma anche spirituali.

Il progetto della medicina umanistica non va confuso con l'aspirazione a una regressione culturale che mirasse a riportare la pratica sanitaria a forme arcaiche. La cura globale del malato non vuol dire interventi indifferenziati dal punto di vista professionale. Non è più possibile ― né auspicabile ― ricostruire la figura del guaritore che assomma in sé competenze scientifiche e valenze religiose, che

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si occupa con uno stesso intervento della guarigione di sintomi somatici, del ristabilimento dell’armonia con il mondo dei valori religiosi ed etici, della reintegrazione del malato nella comunità sociale.

Il differenziarsi di specifiche figure professionali ― il medico, lo psicoterapeuta, il pastore spirituale, l’assistente sociale ― riflette un processo di razionalità a cui la nostra società giustamente non è disposta a rinunciare.

Per dirlo in modo schematico, una condizione indispensabile perché oggi si possa esercitare una buona medicina è che ognuna delle figure professionali riconosca e rispetti l’ambito delle altre e non invada ciò che è di loro competenza. Il medico non deve fare l’assistenza spirituale, né il cappellano può surrogare lo psicologo, quando vi sono i presupposti perché questi intervenga con le conoscenze e gli strumenti professionali che gli sono caratteristici.

Questa sommaria suddivisione di compiti e di ambiti di intervento ― suddivisione piuttosto grossolana e poco differenziata, ma essenziale per evitare intollerabili confusioni ― va tenuta presente anche quando parliamo di volontariato in campo sanitario. Dal momento che il volontario non ha, per definizione, una sua precisa collocazione professionale, può succedere che si pensi di fargli svolgere una funzione di supplenza. In particolare, rischia di essere adibito come tappabuchi di carenze organizzative o di organico per mansioni ritenute più umili.

Non si dirà mai con sufficiente fermezza che il volontariato non è di per sé destinato a tali compiti di supplenza. Per ricorrere ancora a una formulazione piuttosto schematica ma chiara, bisognerà istruire il volontariato a non lasciarsi indurre a fare qualcosa per cui esiste una persona pagata per farlo. Si eviterà così la confusione con ruoli infermieristici e ausiliari. L’utilizzo dei volontari per compiti che fanno parte del mansionario degli infermieri e del personale ausiliario è spesso vissuta da queste categorie professionali in modo ambivalente: con gratitudine verso i volontari perché, assumendosi qualche incombenza che spetterebbe a loro, li sgravano e permettono di riprendere fiato in una routine spesso pesante; ma anche con aggressività e insofferenza, perché i volontari rischiano di mettere in maggior rilievo le loro carenze. La non intrusione dei volontari nei compiti istituzionali di altre figure professionali evita malintesi e tensioni.

Questa definizione in negativo del compito dei volontari ― ciò che devono evitare di fare: non l’opera dei medici, evidentemente, e degli infermieri, e neppure quella degli ausiliari; non l’assistenza spirituale, né la consulenza psicologica ― lascia sovente questi ultimi perplessi e smarriti. Pretendono giustamente un’indicazione positiva del senso e della finalità della loro azione. Il tentativo di risposta in questa direzione ci obbliga a inoltrarci in un percorso di ricerca che implica una più profonda comprensione dell’uomo malato e dei suoi bisogni.

Il bisogno a cui risponde l’opera del volontariato è diverso da quelli ai quali rispondono le diverse figure professionali che operano nella sanità. Non è né il bisogno di cura né quella di assistenza, al quale sono adibiti rispettivamente il personale curante, quello infermieristico e quello ausiliario. Né i volontari rispondono, a rigore, ai bisogni psicologici, sociali o di assistenza spirituale dei pazienti.

Certo, può accadere che occasionalmente siano indotti ad entrare nell’uno o nell’altro di questi ambiti; ma sempre tuttavia in maniera incidentale e senza che questi interventi possano definire lo specifico del volontario.

Per cogliere quest’ultimo, dobbiamo mettere a fuoco un bisogno al quale poco si presta attenzione

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nell’ambito sanitario. Possiamo chiamarlo bisogno semantico, ovvero bisogno di significato. Per tentarne una descrizione, dobbiamo collocarlo sullo sfondo di quella profonda disgregazione che la malattia grave, e ancor più la malattia a prognosi infausta e a esito mortale, provoca nell’esistenza dell’individuo.

Qualsiasi aggressione alla salute viene vissuta in prima istanza come una violenza indebita. Il rifiuto della malattia è enfatizzato all’estremo dalla cultura medicalizzata che è la nostra. Per combattere la malattia, essa si serve di tutte le risorse terapeutiche di ordine bio-medico di cui dispone, ma anche di mezzi più sofisticati e non immediatamente trasparenti. Un espediente di ordine propriamente culturale, ad esempio, è l’attribuzione alla malattia del carattere di insensatezza: all’evento morboso viene sottratto qualsiasi significato che ecceda quello comprensibile con la griglia interpretativa delle scienze biologico-naturali. Nel paradigma interpretativo standard tipico della nostra cultura, la malattia è ridotta a una “res” che aggredisce l’organismo dall’esterno, spogliata di qualsiasi significato personale e comprensibile solo nei termini “scientifici”, quando cioè è ricondotta a quei cambiamenti che intervengono nelle strutture cellulari dell’organismo e sono esprimibili nel linguaggio delle scienze della natura.

Questo modo di rappresentarsi la malattia è funzionale a un approccio pragmatico e favorisce la lotta a oltranza contro di essa. Tende però a rendere impossibile un approccio “sapienziale”, in cui la sofferenza legata al percorso accidentato della salute ― sempre esposta a minacce, crisi, recupero, ulteriori disequilibri, nuovi adattamenti, fino alla definitiva perdita ― diventa una parte essenziale della biografia della persona. Solo quando le minacce della salute, da accidentalità indebita e del tutto marginale alla persona, diventano una “crisi” biografica possono essere percepite come una chance offerta all’individuo di diventare se stesso.

Il compito di ricondurre la sofferenza legata alla patologia della salute nella sfera della persona è difficile, in quanto si trova a cozzare contro un’impresa terapeutica, gestita dalla medicina, tutta tesa a rimuovere la sofferenza come un’assurdità insensata, estranea al soggetto. Anche il linguaggio che il malato usa per designare la malattia illustra questo processo di allontanamento del fatto morboso dalla sfera personale. Nelle lingue che hanno anche il genere neutro questo pronome viene usato per distanziarsi dal fenomeno: il male fisico è “es” in tedesco, “it” in inglese... Ma anche le altre lingue conoscono dei modi che permettono al parlante di sottolineare l’estraneità della malattia da se stesso. Il linguaggio riduce la malattia a un soggetto agente che intrude nel corpo umano, inteso come luogo di un succedere che confina l’uomo al ruolo di “patiens”. L’uomo e la sua malattia rimangono, insomma, due realtà separate e non comunicanti.

Un compito culturale della massima importanza è quello di ridare spessore antropologico alla malattia, favorendo una graduale riappropriazione dell’evento morboso da parte del soggetto. Ciò avviene quando la malattia cessa di essere qualcosa che si ha, per diventare qualcosa che si è. A questo punto la personale e attiva partecipazione alla malattia (esistenzialmente: “io sono la mia malattia”, in essa si realizza la mia modalità di essere al mondo) diventa una questione spirituale di prim’ordine. Solo a questa condizione la malattia e la sua evoluzione, tanto verso la salute quanto verso la morte, possono costituire degli avvenimenti “presso i quali si illumina la questione del senso della vita” (A. Mitscherlich).

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In questa visione antropologica la malattia va inquadrata nella serie di separazioni che scandiscono l’evolversi della vita, come un processo che abbraccia tutta l’esistenza e la rende tipicamente umana. Possiamo rappresentarci il decorso di un’esistenza come una sequenza di separazioni: dalla separazione dal corpo materno, alla nascita, fino a quella definitiva del proprio corpo, che si realizza con la morte. Tra questi due eventi estremi dobbiamo necessariamente incontrare altre separazioni: quella dai genitori e di questi dai propri figli, nel normale processo di crescita che si conclude con l’autonomia e l’indipendenza; le separazioni dal coniuge, sempre più frequenti in una società che favorisce la mobilità piuttosto che la stabilità dei legami, la spontaneità dei sentimenti piuttosto che la responsabilità dei vincoli; la separazione da coloro che ci precedono nella morte. L’esistenza di ogni persona è scandita da una sequenza ininterrotta di separazioni: volute o imposte, fisiologiche o traumatiche, tragiche e distruttive oppure salutari. Sempre, tuttavia, tali separazioni sono accompagnate da sofferenza.

Il dolore morale per la perdita dell’oggetto amato è una variabile personale: non tutti lo sentono nelle stesse situazioni e con la stessa intensità. Per alcuni la sofferenza massima è connessa con la morte, per il suo carattere di evento definitivo; per altri la separazione dalla salute come stato di efficienza e dall’immagine integra del proprio corpo è un trauma peggiore della prospettiva stessa della morte (si pensi a che cosa significa per qualche donna una mastectomia...); per altri ancora il dolore supremo è quello legato a separazioni da relazioni amorose, nelle quali va distrutta l’identificazione conseguita mediante il rapporto d’amore.

Staccarsi da qualcuno o qualcosa fa male: se ciò vale per tutti, la reazione individuale al dolore della separazione, e soprattutto il modo in cui tale sofferenza viene integrata nella propria vita, è diverso da persona a persona. Chi è colpito dal doloroso processo delle separazioni ― dalla salute, dagli affetti, dall’autonomia, dalla vita stessa e dal corpo ― sollecita, direttamente o indirettamente, un aiuto. Questo non va però ridotto alla richiesta di conforto e di consolazione. È piuttosto un aiuto a far sì che la situazione critica contribuisca invece alla crescita della persona verso la piena misura della sua statura morale. Ciò comporta anzitutto un intervento sul piano sociale ed interpersonale, che giustifica appieno l’opera del volontario.

Bisogna considerare, infatti, che la sofferenza emerge nella vita interiore del soggetto sotto la figura primaria del distacco dalla comunità. Che sia colpito nella salute fisica, negli affetti o nel significato della propria vita, il sofferente è sempre seduto, come Giobbe, su un mucchio di letame, al di fuori del contatto vitale con la comunità. In questo senso la sofferenza è percepita come opera “diabolica”. In senso letterale, infatti, il “dia-bolos” (il “separatore”) è in azione quando la sofferenza infrange il senso di appartenenza beata a un “tutto”: a un corpo come strumento docile e armonioso dello spirito, a un altro essere umano, alla vita come insieme dotato di senso divino.

La condizione di isolato propria del sofferente crea un’interpellazione all’altro. Si tratta sempre fondamentalmente di una domanda di presenza. La comunità deve riaggregarsi attorno a colui che soffre e si sente da essa respinto. La risposta all’opera disgregatrice del “diabolos” è il “symbolon”: il mettere insieme i pezzi separati.

Nei costumi dell’antica Grecia i frammenti di tessere o monete combacianti erano il “simbolo” che permetteva di riconoscere il portatore del frammento come ospite o amico. All’atto del confrontare

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― “sym-ballo” ― avveniva un riconoscimento dell’identità dell’altro e della reciproca appartenenza. La forza motrice del simbolo è l’amore. Nel ricongiungimento “simbolico” il sofferente trova il fratello e nella comunione la risposta pratica alla sua interpellazione.

La risposta può consistere a volte in un concreto aiuto offerto in una situazione di necessità (da un intervento di natura economica fino al gesto supremo del dono di un organo che permette di salvare una vita minacciata). Altre volte il “simbolo” che dischiude la dimensione della fraternità, dando così una risposta alla sofferenza, è di natura solo spirituale.

La vera solidarietà, che si esprime nel “com-patire”, anche se vissuto nell’impotenza a rimuovere le cause della sofferenza e a invertire il corso degli eventi, crea una “Gestalt” nuova. Il sofferente, scoprendosi parte di un tutto integrato, può fare della prova dolorosa la porta di accesso a una esperienza di appartenenza, che guarisce la lacerazione più profonda causata dalla sofferenza. È il sofferente stesso, e solo lui, che può cambiare segno all’esperienza che sta vivendo, facendo dell’evento morboso un’occasione per acquisire un senso di superiore appartenenza alla comunità umana; ma è la presenza del volontario al suo fianco che costituisce l’occasione privilegiata per tale sviluppo.

La “compassione” è la via alla “pazienza”. Questa è la seconda dimensione della crescita, intesa come un nuovo modo di sperimentare se stesso e la comunità umana. La sofferenza è scuola di pazienza.

La prima accezione del termine “pazienza”, così come è usato nel linguaggio comune, dice riferimento all’accettazione dei limiti. La sofferenza è legata alla vita nelle sue determinazioni concrete. È un esercizio umile, ma fondamentale, di pazienza accogliere la vita come processo oggettivo, e non solo come proiezione della soggettività. Il desiderio ― di piena salute, di intesa interpersonale perfetta, di autoaffermazione e successo ― deve confrontarsi col reale, pagando un prezzo di sofferenza per questa incarnazione. Con la pazienza si impara il peso dell’oggettività.

Una dimensione ulteriore della pazienza emerge se ci lasciamo guidare dalla traccia fornita dall’etimologia. La pazienza contiene il “pathos”, cioè quella modalità dell’esistenza che dipende non da ciò che facciamo, ma da ciò che subiamo. La cultura tecnologica dell’Occidente tende a valutare esclusivamente l’azione. La determinazione volontaria è entrata abbondantemente anche in fatti esistenziali che prima dipendevano dal Caso o dalla Provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e anche il momento della resa alla morte (rivendicazione di un diritto all’eutanasia).

Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica. La modalità “patica” dell’esistenza ha non solo diritto di cittadinanza negli atteggiamenti etici che costituiscono l’umano autentico, ma è un’esigenza per arrivare là dove l’azione non ci può portare. “Passività di crescita” chiama Teihlard de Chardin questi eventi dell’esistenza, che richiedono la pazienza come risposta comportamentale. La passività costituisce l’altro braccio rispetto a quello dell’azione, con cui Dio ci attira a sé.

Anche su questo orizzonte la figura del volontario si stacca con un profilo particolare. In quanto compagno di strada di chi si avventura alla conquista della virtù fondamentale della pazienza, intesa come dimensione necessaria dell’essere umano, non è chiamato all’azione. Da lui non ci si aspetta né prediche, né esortazioni. Oltre che inopportune, sarebbero inutili: il significato è una porta che si apre solo dall’interno; se si esercita una pressione, si ottiene solo una chiusura più forte.

Anche la testimonianza di una propria fede religiosa deve procedere con tocco leggero, quasi sulla

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punta dei piedi, per paura di snaturare lo stesso messaggio religioso, riducendolo a una manipola-zione dell’altro che si trova in posizione di debolezza. Questo lavoro spirituale della conquista del significato dell’evento morboso si propone a ogni essere umano, che aderisca o no a una religione costituita. Il volontario accanto a colui che soffre è essenzialmente l’uomo presente sotto la cifra universale dell’umanità che unisce, al di sotto delle ideologie che differenziano.

In questo intimo santuario in cui l’individuo scrive e riscrive la storia personale della propria vita, per dargli un senso compiuto, non si può entrare con un camice bianco, e neppure con la veste di una qualsiasi attività professionale. Un contatto è possibile solo se si instaura un rapporto da soggetto a soggetto, sulla nuda base della comune umanità. Accedere a questo livello richiede un duro lavoro sulle proprie motivazioni e una spoliazione ascetica, che lo riconduca all’essenziale e lo renda capace di una presenza veramente gratuita, non solo in senso economico, ma sotto ogni aspetto. Questa purificazione è il beneficio di ritorno che il volontario riceve dalla propria opera.