- Per un rinnovamento dell'etica cristiana della malattia
- Sofferenza
- Psicoterapie e pastorale
- I compagni scomodi dell'uomo-massa
- Unzione degli infermi
- Malattia e morte nel popolo delle beatitudini
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una medicina etica per un malato moderno
- Antropologia cristiana per un'etica della salute
- Fede e malattia
- L'équipe pastorale nel consultorio matrimoniale
- I malati in mezzo a noi
Matteo Salvadori
Fede e malattia
Una riflessione sulla sofferenza umana
Presentazione del Prof. Sandro Spinsanti
Edizioni Carroccio, Terraglione di Vigodarzere 1986
pp. 5-9
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PRESENTAZIONE
Ancor prima che si affermasse il deprecato sviluppo verso le specializzazioni mediche, responsabile della frammentazione a cui è sottoposto l’uomo malato, un’altra scissione era già avvenuta. Parallelamente al processo che portava l’assistenza sanitaria dall’ambito religioso dell’attività caritativa verso quello degli obblighi e delle responsabilità civili, la dimensione religiosa veniva esclusa dal trattamento. Senza che fosse negata per principio ― salvo nei casi di flagrante anticlericalismo ― l’assistenza fornita dal ministro della religione veniva scorporata dal complesso di servizi che va sotto il nome di “sanità”.
Assistenza sanitaria e servizio pastorale corrono paralleli, senza agganci o interferenze reciproche. Cappellano da una parte, medici e personale infermieristico dall’altra, svolgono, per lo più ignorandosi rispettivamente, un’attività in cui senso e finalità non sembrano riconducibili a nessun comune denominatore. Già la loro figura professionale appare sintonizzata su obiettivi divergenti: i sanitari mirano a restituire la salute o, quanto meno, a prolungare il più possibile la vita; i ministri della religione sono per lo più chiamati quando “non c’è più niente da fare” ed è giunto il momento di pensare alla salvezza dell’anima. Può
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avvenire anche che la differenziazione si approfondisca ulteriormente, fino a sfiorare la concezione caricaturale dell’antagonismo tra i due tipi di presenza e di servizio all’uomo malato: come se il personale sanitario si mobilitasse per restituire il malato alla vita, mentre l’intento del cappellano sarebbe quello di boicottare quest’opera a vantaggio dell’“altra vita”. In questo caso può darsi che la presenza del ministro della religione sia più o meno apertamente osteggiata, oppure tollerata con sufficienza, salvo l’impegno per neutralizzare gli effetti demoralizzanti del passaggio della tonaca tra i letti della corsia...
L'assistenza spirituale dei malati non è in crisi solo per questa mancata saldatura con la struttura funzionale dell’ospedale. C’è anche un motivo intrinseco alla pastorale stessa, che potremmo ricondurre all’incertezza che coglie i pastori su che cosa dire e che cosa fare. I modelli di prassi pastorale del passato si rivelano sempre più rapidamente inadeguati. All’inflazione di parole devozionali rivolte al cristiano malato è succeduto un silenzio imbarazzante: non il silenzio denso di presenza, nel comune ascolto del messaggio esistenziale e soprannaturale insito nel grumo del dolore umano, bensì l'ammutolimento di chi sente che le parole perdono il loro significato e scorrono via su una superficie impermeabile. Il modello presupposto da un certo pietismo cristiano (secondo cui il credente malato deve rassegnarsi alla volontà di Dio, anzi addirittura amare la sofferenza e utilizzarla spiritualmente in un intervento di partecipazione mistica ai dolori stessi di Cristo) sembra non avere più corso. Sono gli stessi cristiani più consapevoli che lo rifiutano.
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L’ha detto pubblicamente una malata allo stesso pontefice Giovanni Paolo II in occasione del suo pellegrinaggio a Lourdes: «Noi persone malate, più che essere aiutate dalle parole cristiane, vi troviamo spesso ragioni di inasprirci, di rivoltarci. Noi ripetiamo volentieri con Giobbe: “Cessa di tormentarmi, di schiacciarmi con i tuoi discorsi”». La riduzione semplicistica del messaggio cristiano sulla sofferenza alla “cristiana rassegnazione” è stata eliminata dal bagaglio dei luoghi comuni dei predicatori; ma, contemporaneamente, coloro il cui compito è di annunciare il Vangelo vengono a trovarsi a corto di parole.
Anche i riti sacramentali si rarefanno. Una vera e propria crisi d’identità ha investito il sacramento tradizionalmente associato alla fine della vita con il nome di “Estrema Unzione”. Il Concilio Vaticano II l’ha rivalutato teologicamente, correlandolo con l’aiuto fisico-spirituale che il credente riceve nella situazione di grave malattia. Malgrado alcuni sporadici tentativi di rinnovare la fisionomia liturgica di questo sacramento (per esempio, amministrandolo comunitariamente), la più profonda comprensione spirituale di quel gesto sacramentale è lungi dall’essersi tradotta in atto. L’Unzione degli infermi continua, per lo più, ad essere sentita come l’atto che consacra il morire. Nella nostra cultura, in cui la morte è diventata il principale tabù, si tende perciò a procrastinare il più possibile il rito. Con conseguente disaffezione da parte dei sacerdoti, che da annunciatori del Vangelo si trovano così degradati al compito routinario di “untori di cadaveri”... La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: il malato, specialmente nella fase terminale della malattia,
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è sempre più solo. Anche i pastori, presi nel vortice della crisi del loro ruolo tradizionale, in assenza di modelli alternativi tendono a ritirarsi. Gli osservatori della realtà religiosa hanno gettato un grido di allarme e in alcune diocesi (come Torino) ci si è disposti seriamente a invertire la rotta del movimento di diserzione degli ospedali da parte dei pastori.
Nel vasto programma dell’umanizzazione della medicina trova un posto significativo anche chi si occupa dello spirito, come dimensione dell’essere umano totale. Mentre cresce in generale la coscienza che non si può trascurare lo spirito ― nella sua vasta accezione di luogo in cui si elaborano i valori e i significati, oltre che di fonte dell’atteggiamento religioso ― se si vuole una medicina a misura di uomo, nasce parallelamente nel mondo ecclesiale l’esigenza di rimettere i malati al centro della propria prassi. «L’evangelizzazione e l’umanizzazione dei luoghi del dolore ― afferma Padre Matteo Salvadori a conclusione del suo lavoro ― sono inderogabili doveri della Chiesa cattolica, se non vuole tradire Gesù Cristo». E nel suo intervento al Sinodo dei vescovi del 1983 il Priore generale dell’Ordine ospedaliero dei Fatebenefratelli dichiarava: «È sempre edificante portare i malati nei santuari: oggi è soprattutto necessario che la Chiesa intraprenda un pellegrinaggio in ospedale, dove, in molti Paesi, vanno più persone che nelle nostre parrocchie e dove è viva la presenza di Cristo che vuole la riconciliazione».
Questo servizio dei malati (i “signori malati”, come venivano chiamati dalla cristianità nel medioevo) non può essere solo opera di braccia e di cuore, ma anche
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di testa. La fede che va annunciata non può prescindere dalla riflessione su di essa, quella riflessione che si chiama teologia. «La teologia ― è la ferma convinzione di Padre Matteo Salvadori ― non è nemica della pastorale sanitaria, ma è al suo servizio». Questo suo diligente e profondo lavoro di teologia, in cui il sapere cristiano sulla malattia viene rapportato alle fonti bibliche e ai modelli antropologici, è quindi un’opera pastorale nel senso più alto. È un valido aiuto a trovare parole misurate per dire la fede, proprio nella situazione in cui abitualmente o le parole muoiono in bocca, raggelate dall’angoscia, o cedono il posto a luoghi comuni, a fervorini devozionali. Sempre tenendo presente, tuttavia, che la bocca è autorizzata a dire le parole della fede solo se le mani operano contemporaneamente la sotería, cioè la guarigione-salvezza.