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Sandro Spinsanti
La professione psicoterapeutica e il codice deontologico degli psicologi
in Quaderni di psicologia, Analisi Transazionale e Scienze umane
n. 25, 1998, pp. 17-26
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LA PROFESSIONE PSICOTERAPEUTICA
E IL CODICE DEONTOLOGICO DEGLI PSICOLOGI
Riassunto
L’autore sottolinea la necessità di approfondire la riflessione su etica e deontologia, proprio nel momento in cui è disponibile il codice deontologico degli psicologi.
Il rischio è spostare l’attenzione sulle regole, irrigidendo e privando di significato i comportamenti.
Abstract
The psychotherapist profession and the deontology code of psychologists
The author underlines that it is necessary to continue to deep the reflections about ethics and deontology even now that is available the deontology code of psychologists.
There is now the risk to put much of our attention on the rules, having then more rigids and meaningless behaviours.
Gli psicologi italiani sono giunti tardi ad avere un codice deontologico. Lo ha imposto la legge costitutiva dell’Ordine degli psicologi ed è stato realizzato — non senza difficoltà: basti pensare che il primo referendum tra i professionisti, avvenuto nel maggio 1996, per voto diretto o postale, non ha raggiunto il quorum previsto per un solo voto! ― solo nel 1997. Il ritardo non va commisurato solo in base ad analoghe codificazioni di altri paesi; se ci si riferisce al ruolo che i codici deontologici hanno nella professione medica, la mancata elaborazione di un codice per gli psicologi diventa ancor più macroscopica.
Le ragioni del ritardo diventano evidenti se attribuiamo alla deontologia la funzione che le assegna Salvatore Amato: «La deontologia si colloca nella zona d’ombra tra specificità professionale e domanda sociale. Costituisce una specie di sguardo dietro le quinte dove l’apparenza, l’immagine esteriore, non può precludere lo sforzo
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interiore di definizione del proprio ruolo. La domanda: “Chi siamo noi?” si incontra con l’altra: “Chi volete o credete che siamo noi?”, in un continuo arricchimento dell’una verso l’altra» (Amato 1996, p. 149). Soltanto quando le condizioni sociali di deregulation che hanno tenuto per decenni l’attività dello psicologo, e dello psicoterapeuta in particolare, in una sorta di limbo di legalità ― tra repressioni giudiziarie sporadiche e tolleranza di fatto — hanno lasciato posto a un riconoscimento della professione, con un suo profilo autonomo, si sono create le condizioni per avviare l’elaborazione di un proprio codice deontologico.
Nel frattempo sono andate maturando dal basso le condizioni che rendono il codice non solo auspicabile, ma urgente. Queste sono costituite da condotte che pongono dubbi e difficoltà di giudizio etico da parte dei professionisti. Lo dimostra un’indagine nazionale realizzata tra gli psicoterapeuti italiani in collaborazione con l’Ordine nazionale degli psicologi. I risultati della ricerca sono stati anticipati in un articolo pubblicato su «L’Arco di Giano» (Gius, Coin 1998). Può essere utile considerare schematicamente quali sono, in percentuale, i comportamenti considerati problematici, nella propria pratica professionale e in quella dei colleghi, dai 696 psicoterapeuti che hanno risposto al questionario (vedi tabella 1).
Dalla lettura dei dati fatta dagli studiosi che hanno condotto la ricerca, risulta che i comportamenti vissuti come più problematici da valutare dal punto di vista morale sono quelli riferiti alla gestione economica del rapporto con il paziente, in quanto elemento specifico della libera professione; la salvaguardia delle regole del setting; la questione della neutralità e della conduzione del rapporto professionale (da rapporto altamente formalizzato, la relazione terapeutica sembra essersi trasformata in un’interazione caratterizzata da maggiore familiarità e vicinanza tra i partner); la gestione del segreto professionale; la possibilità di denunciare i colleghi a causa di comportamenti obiettivamente scorretti e lesivi per il paziente.
A conclusione della ricerca, Erminio Gius e Romina Coin sollevano la questione metodologica del rapporto tra deontologia ed etica.
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Tabella 1: Giudizi sull’etica e frequenza di alcune condotte nella propria pratica e in quella dei colleghi
|
Etico? |
Verificato almeno qualche volta nella pratica |
||||
CONDOTTE |
NON SO/ NEUTRO % |
NO/ SOLO IN CIRCOSTANZE ECCEZIONALI % |
SI/ IN MOLTE OCCASIONI % |
IO % |
COLLEGHI % |
|
Accettare un regalo di poco valore dal paziente |
30.2 |
42.8 |
27.0 |
84.3 |
84.9 |
|
Aumentare l’onorario nel corso del trattamento |
28.9 |
19.4 |
20.0 |
64.8 |
84.1 |
|
Accettare che il paziente non paghi per un lungo periodo |
28.6 |
48.9 |
22.4 |
60.7 |
77.8 |
|
Denunciare un paziente che ha commesso un omicidio |
27.9 |
48.7 |
23.4 |
2.6 |
14.6 |
|
Fare una terapia gratuitamente |
26.6 |
53.4 |
21.2 |
39.5 |
68.5 |
|
Farsi pubblicità su giornali ecc.* |
26.5 |
47.4 |
26.1 |
29.3 |
77.1 |
|
Fare fantasie sessuali su un paziente |
26.3 |
57.9 |
15.8 |
61.5 |
64.2 |
|
Intervenire in caso di reale rischio suicidario del paziente |
24.9 |
24.1 |
51.0 |
41.9 |
|
|
Mostrarsi contrariato nei confronti del paziente |
24.7 |
57.9 |
17.4 |
77.3 |
61.1 |
|
Denunciare dei colleghi per condotte scorrette e dannose per i pazienti |
23.7 |
21.4 |
54.9 |
10.2 |
77.3 |
|
Denunciare un paziente che ha commesso atti di violenza sessuale |
23.6 |
57.2 |
19.3 |
7.1 |
31.1 |
|
Non accettare in terapia persone con procedimenti penali in corso |
23.0 |
48.1 |
28.9 |
30.0 |
24.2 |
|
Farsi dare del tu dal paziente |
22.7 |
55.0 |
22.3 |
59.0 |
46.8 |
|
Informazioni sulla propria vita privata |
22.7 |
67.5 |
9.8 |
64.6 |
76.7 |
|
Fare pagare sedute mancate* |
21.8 |
46.6 |
31.5 |
51.7 |
73.7 |
|
Interrompere la terapia se il paziente non può più pagarla* |
21.5 |
57.6 |
21.0 |
35.5 |
83.0 |
|
Accettare in terapia un paziente pur nutrendo riserve sull’opportunità del trattamento |
21.1 |
67.7 |
10.2 |
68.8 |
73.8 |
|
Stringere un rapporto di amicizia con un ex paziente |
21.0 |
66.7 |
12.4 |
32.8 |
77.7 |
|
Dare del tu al paziente adulto |
20.7 |
59.8 |
19.5 |
51.7 |
76.2 |
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La loro assunzione di partenza era quella di considerare luetica” come filosofia personale o progetto di vita del soggetto, con i contenuti di senso e di valore che guardano la condotta individuale e in base a cui il soggetto agente identifica ciò che è bene e ciò che è male, e la “deontologia” come luogo del dovere, della condotta prescritta, in un riferimento a una definizione di ciò che è bene o male anteriore all’esperienza. Considerati i risultati dell’indagine, gli Autori si sentono autorizzati ad auspicare una migliore integrazione tra deontologia ed etica: «La deontologia è un primo importante livello di intersezione tra etica e professionalità: essa risponde a una imprescindibile esigenza di regolamentazione interna e a una precisa responsabilità sociale della nostra categoria professionale. Un passo futuro dovrà essere quello di provvedere a un recupero del divario tra versante prescritto e versante motivazionale, e questo a partire dai luoghi preposti alla formazione personale e professionale dello psicologo, affinché la deontologia, nell’indicare delle linee comuni, possa interpretare un senso comune, i principi caratterizzanti la professione nei quali ogni professionista si riconosca» (Gius, Coin 1998).
È quanto dire che, se anche un codice deontologico fornisce dei punti di riferimento non equivoci nei comportamenti che suscitano perplessità, non avremmo con ciò stesso assicurato un livello ottimale di pratica professionale della psicoterapia. Accogliamo l’invito a continuare e approfondire la riflessione sui rapporti tra etica e deontologia. Il bisogno è tanto più pronunciato in quanto la disponibilità attuale di un codice deontologico potrebbe spostare l’attenzione unicamente sulle regole, dando per scontato il loro significato e il ruolo che giocano nel guidare i comportamenti.
Ora che la legge ha delineato in Italia il perimetro d’azione dello psicologo, liberando i professionisti che si applicano alla cura dei disturbi psichici dalla spada di Damocle costituita dall’accusa di esercizio abusivo dell’arte medica, la psicoterapia ha una legalità riconosciuta. Ma la legalità non produce automaticamente la legittimità, che si pone a monte. Entriamo nell’ambito della questione della legittimità quando cerchiamo di rispondere alla domanda: «Con quale diritto fai quello che stai facendo?». La divaricazione fra
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legalità e legittimità è evidente nei confronti del potere politico, almeno in alcune situazioni: certi comportamenti possono essere legali, in quanto conformi a leggi imposte dal potere legittimo, ma cadono sotto la condanna morale che ne denuncia l’illegittimità (per fare solo un esempio, si pensi alle leggi che imponevano l’eutanasia ai malati mentali sotto il regime nazista). È qui che interviene la deontologia, nella sua preoccupazione primaria di garantire le condizioni di legittimità nell’esercizio della professione.
La prima professione che si è seriamente preoccupata di elaborare le regole deontologiche che definiscono la modalità corretta del proprio esercizio è quella medica. Anticipata dal glorioso giuramento di Ippocrate e dalla tradizione che imponeva al medico norme di comportamento obbliganti in determinate situazioni, la deontologia del medico ha ricevuto nel secolo scorso una sua codificazione precisa. Il codice medico ufficiale è, in ordine cronologico, quello emanato dall'American Medical Association nel 1847.
Ben presto il riferimento al codice deontologico diventava il principale strumento per demarcare i medici seguaci della scienza medica ufficiale ― unici detentori, in pratica, della delega da parte della società di esercitare l’arte sanitaria ― dai “guaritori” di vario genere, non autorizzati. L’elaborazione di un codice deontologico medico ha giocato una parte rilevante nella divisione, presso l’opinione pubblica, dei sanitari in due categorie: i medici attendibili e i ciarlatani.
Tenendo presente il modello medico, ci rendiamo conto che la deontologia professionale svolge un ruolo molteplice: legittima socialmente una modalità di esercizio della professione, differenziandola dalle altre; serve a costituire un corpo professionale omogeneo, grazie all’impegno di solidarietà e lealtà reciproche che assumono coloro che si astringono all’osservanza delle stesse norme; esplicita le “regole del gioco” che reggono la professione; favorisce un rapporto di fiducia presso gli utenti, i quali sanno così quali comportamenti possono aspettarsi dai professionisti “seri”.
La medicina ha sentito la necessità di elaborare delle regole deontologiche
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per la natura particolare della professione, che prevede l’accesso di un estraneo nell’area dell’intimità corporea di un’altra persona. Nel caso della psicologia clinica il rapporto tra la deontologia e il lavoro professionale è ancora più serrato. La realtà che viene “manipolata”, infatti, in questo caso non è il corpo, bensì quel supremo foro dell’interiorità che chiamiamo psichismo: pensieri, emozioni, ricordi, sentimenti.
Oltre al pudore che ci fa difendere il corpo, esiste un’altra forma di protezione della sfera psichica della nostra realtà. Il rapporto psicoterapeutico ha una particolare delicatezza e fragilità per le interferenze fantasmatiche che in esso si realizzano. Un fiume sotterraneo di paure lo attraversa nei due sensi: paura dello sfruttamento e della seduzione, dello smantellamento di sé e della perdita dell’autonomia, dell’utilizzazione strumentale e del plagio, della violenza che passa per le vie tortuose del ricatto affettivo e della persecuzione.
Nei confronti di tali paure paranoiche le regole deontologiche agiscono in senso preventivo e profilattico, impedendo che si solidifichino e acquistino maggiore consistenza. Come tutte le norme di natura deontologica, servono a incrementare un rapporto di fiducia tra l’utente e il professionista, indispensabile per l’esercizio armonioso della professione stessa.
Mantenendoci ancora nell’ambito generale del concetto stesso di deontologia professionale, possiamo aggiungere che questa si colloca tra la legge e l’etica, senza identificarsi né con l’una né con l’altra. Il termine in se stesso può essere fuorviante, se lo prendiamo nella sua accezione etimologica. Nel suo conio originario (il primo a parlarne è stato il filosofo Jeremy Bentham nell’opera Deontology, or the Science of morality, pubblicata nel 1834) aveva una valenza filosofica: tracciava i contorni dell’etica come scienza del “conveniente”.
Bentham intendeva proporre il principio utilitaristico come origine e fine del diritto, sostituendo la norma morale con la tendenza a seguire il piacere e fuggire il dolore. Una sfumatura utilitaristica è rimasta nell’accezione moderna di deontologia, in quanto essa è finalizzata al vantaggio della professione che la elabora; tuttavia non
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equivale a una dottrina etica che si propone di normare l’agire umano secondo criteri di bontà morale.
Più di recente è prevalso l’uso giuridico del termine, che fa della deontologia l’equivalente del diritto professionale, ossia dell’insieme dei diritti-doveri che impone ai professionisti l’esercizio della loro professione. Il concetto di deontologia che proponiamo non si lascia ridurre né all’etica né alla legge. Le osservazioni precedenti sulla legalità e sulla legittimità dovrebbero aver chiarito a sufficienza che la deontologia non si limita a esplicitare le condizioni in cui l’esercizio della professione è conforme alla legge. Un ulteriore elemento di differenziazione è costituito dal fatto che le norme deontologiche non sono imposte da un’istituzione giuridica: esse sono elaborate dai professionisti stessi, attraverso gli organi rappresentativi; i professionisti decidono di seguirle per una valutazione autonoma delle condizioni ottimali di funzionamento della professione.
L’etica, da parte sua, riflette sui principi ai quali ispirare il comportamento umano, in relazione alle domande sul bene e sul male, sul giusto e l’ingiusto, il doveroso e il lecito. E chiaro che un’alta ispirazione morale è qualificante per professioni, quali sono quella del medico e dello psicoterapeuta, in cui ci si rapporta a un’altra persona sofferente per restituirla al benessere. Non è compito, tuttavia, della deontologia creare o alimentare tale atteggiamento ideale. Essa potrà essere chiamata, piuttosto, a porre un freno al possibile degrado patologico della volontà di far del bene, quando questa minacciasse di violare l’autonomia della persona che si trova in stato di bisogno fisico e psichico.
Che cosa autorizza il professionista della salute mentale a intervenire con la terapia nel mondo psichico di un’altra persona? Sotto la trama delle norme, apparentemente arbitrarie, che costituiscono un codice deontologico, individuiamo l’intenzione profonda di rendere ragione di ciò che costituisce la professionalità dello psicoterapeuta, e quindi di giustificare perché fa quello che fa.
La volontà di aiutare non è una ragione sufficiente per giustificare l’intervento psicoterapeutico. La morale individuale a cui si aderisce può prevedere l’obbligo di assistere, con le proprie risorse
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materiali e spirituali, il prossimo in necessità. Ma lo spirito missionario, anche se espressione autentica di un essere umano che ha superato il narcisismo solipsisitico per aprirsi alla dimensione della reciprocità, non conferisce di per sé un diritto a entrare nello spazio psicologico dell’altro. La professione psicoterapeutica non si può fondare sulla missionarietà: correrebbe il rischio di trasformarsi, prima o poi, in sottili forme di prevaricazione. Le regole deontologiche costituiscono un contrappeso alle buone intenzioni, impedendo loro di scivolare verso la china delle relazioni “infernali”.
Esclusa la missionarietà dell’operatore, la fondamentale condizione di legittimità della relazione terapeutica in quanto rapporto professionale rimane la richiesta di aiuto da parte del cliente. Subito si affaccia una questione di primaria importanza: basta il consenso, o è necessario un appello esplicito, che esprima un desiderio personale di entrare nel rapporto terapeutico? La questione del consenso “informato” ritorna in tutti i codici deontologici degli psicologi che svolgono ricerca (particolare sensazione e divergenza di opinioni suscitano i procedimenti degli psicologi sociali che presuppongono l’inganno sistematico del soggetto sperimentale (Kennedy 1975).
La deontologia degli psicologi clinici, preoccupata di definire le condizioni che rendono possibile la relazione terapeutica, deve tener conto di una molteplicità di situazioni: clienti adulti o non ancora maggiorenni, ricoverati in istituti di cura o accedenti di propria iniziativa allo studio dello psicoterapeuta che esercita la libera professione, pazienti nevrotici o psicotici, con l’intervento o meno di un terzo pagante. In genere ci si allinea sulla condizione che all’inizio ci sia almeno il consenso. Lo psicoterapeuta si impegna, perciò, a rifiutare le situazioni in cui la sua opera costituirebbe una collusione con quanti esercitano una pressione — giuridica, psicologica o morale ― sul paziente. La psicoterapia equivale a un’alleanza non con chi detiene di fatto l’autorità, ma con il paziente.
I “contratti terapeutici”, invalsi nella prassi di molte scuole psicoterapiche, vogliono esprimere precisamente tale ancoraggio del rapporto terapeutico a una volontà precedente del cliente, indipendentemente sia da quella del committente, sia da quella dello psicoterapeuta. Questi è consapevole che l’alleanza terapeutica è una realtà
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molto meno lineare e univoca di quello che vuol sembrare: è insidiata in profondità da reticenze, opposizioni, rifiuti, volontà inconscia di far fallire il terapeuta, oltre che da tutti i problemi controtransferali di quest’ultimo; la domanda originale, inoltre, può — anzi, spesso deve — trasformarsi nel corso del processo terapeutico.
Tutto ciò ci fa capire che la corrispondenza tra la domanda e l’offerta in psicoterapia è di natura particolare, non equiparabile a quella che si realizza in altri tipi di transazioni. Tuttavia l’aggancio alla domanda, o più germinalmente al consenso, rimane una prima fondamentale condizione di esercizio legittimo della psicoterapia.
Due comportamenti, di conseguenza, rimangono deontologicamente inammissibili: la subordinazione strumentale a chi detiene l’autorità e la manipolazione del paziente per suscitare un consenso con lo psicoterapeuta.
Una seconda condizione legittima la professione della psicoterapia: la competenza dello psicoterapeuta. Il dibattito sull’inquadramento legale della professione è valso a mettere in evidenza che le condizioni requisite dalla legge per garantire una buona professionalità devono riposare su un accordo precedente circa la competenza necessaria per instaurare un rapporto terapeutico. Non basta una conoscenza esaustiva delle realtà psicologiche per costituire tale competenza. Neppure il più ineccepibile sapere scientifico, ratificato da lauree universitarie, diplomi o attestati, può da solo fornire la garanzia della professionalità dello psicoterapeuta.
Da questo punto di vista, è pienamente comprensibile la richiesta che l’accesso alla professione psicoterapeutica non dipenda unicamente dal conseguimento di una laurea, ma sia subordinato a un training didattico formale. Il rapporto di familiarità con le realtà psicologiche che conferisce una competenza psicoterapeutica è solo quello che si acquisisce sottoponendosi personalmente al processo della terapia. Per mutuare una formula a effetto attribuita a Cari Whitaker, chi pretende di stare nella posizione one up, senza essere stato prima nella posizione one down, dà prova di malafede.
Tutto è, dunque, roseo e innocente nell’ambito della deontologia professionale? Non sarà fuori luogo, prima di concludere queste
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considerazioni, fare almeno un cenno evocativo della parte che spetta all’avvocato del diavolo. L’interesse per le codificazioni deontologiche può servire anche a cause meno nobili, come gli interessi corporativistici dei professionisti. La correttezza deontologica può costituire, come è stato detto efficacemente, un sistema raffinato «per essere morali in luoghi immorali» (Reed 1981).
L’ipocrisia, che minaccia ogni persona e ogni gruppo organizzato, acquista in questo caso il volto concreto del doppio standard: sotto la patina della correttezza formale, a cui si attengono i professionisti, la professione brulica di incoerenze e trasgressioni rispetto alle esigenze morali. Il “buon” professionista può diventare così «l’uomo buono nel peggior senso della parola», di cui parla Mark Twain! La deontologia professionale può tramutarsi in una caricatura dell’etica: questa eventualità va tenuta presente. Non per rinunciare all’impresa di costruire dei parametri deontologici per gli psicologi solidi e trasparenti, bensì per non cadere negli inganni dell’impresa stessa.
Bibliografia
Amato S., Gli psicologi italiani alla ricerca di un codice deontologico, in «L’Arco di Giano», n. 12, 1996.
Gius E., Coin R., Etica, deontologia e psicoterapia. Primi risultati di un’indagine nazionale, in «L’Arco di Giano», n. 17, 1998.
Kennedy E.C., Human right and psychological research, New York 1975.
Reed G.F., On bei moral in immoral places, in «Social Sciences and Medicine», 1981.