- Per un rinnovamento dell'etica cristiana della malattia
- Sofferenza
- Psicoterapie e pastorale
- I compagni scomodi dell'uomo-massa
- Unzione degli infermi
- Malattia e morte nel popolo delle beatitudini
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una medicina etica per un malato moderno
- Antropologia cristiana per un'etica della salute
- Fede e malattia
- L'équipe pastorale nel consultorio matrimoniale
- I malati in mezzo a noi
Sandro Spinsanti
UNA MEDICINA ‘‘ETICA” PER UN MALATO ‘‘MODERNO”
in «Signore, colui che tu ami è malato» Gv 11, 3
Giornata del malato. Riflessioni, proposte, celebrazioni, a cura di Luigi Della Torre
Editrice Queriniana, Brescia 1993
pp. 15-21
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“Sto male”! Una frase che ci sentiamo ripetere ogni giorno, da amici, conoscenti, collaboratori, persone incontrate per caso. Una frase che diciamo a noi stessi infinite volte: per un mal di testa, un raffreddore, un po’ di dolori sparsi qua e là. Nulla di grave, sappiamo che passerà, ma intanto viviamo il disagio del disarmonico rapporto col corpo. Sono in fondo le vicende del corpo l’unico universale concreto che accomuna tutti gli uomini e li riduce all’essenziale: cultura e potere, ruolo sociale e ricchezza recedono sullo sfondo, mentre ci troviamo come Giobbe sul letamaio a questionare con Dio.
Questo soprattutto quando “star male” vuol dire veramente avere una malattia che ci cambia la vita o che addirittura minaccia la vita.
Ed è a questi malati che è rivolta l’attenzione della Giornata mondiale del malato. A loro che patiscono improvvisamente o da un tempo ormai troppo lungo la perdita più o meno definitiva di una parte di se stessi e sono perciò costretti a ripensare anche radicalmente la loro vita; agli operatori sanitari che li curano, cercando di restituirli a una vita il più integra possibile o almeno di alleviarne le sofferenze; ai ministri della pastorale sanitaria impegnati a guidare i pazienti credenti ad un impatto cristiano con la novità della malattia, a offrire ai malati che non credono tutto il conforto della solidarietà personale, a umanizzare in ogni caso, l’asettica impietosità della struttura sanitaria.
Perché, anche se la malattia e l’angoscia che l’accompagna fanno emergere quella categoria umana fondamentale che Merleau-Ponty chiamava “la carne comune”, è pur vero che proprio nella malattia appare anche l’irriducibile diversità degli uomini. La qualità spirituale di ognuno diventa manifesta e cambia il modo in cui l’evento morboso è concretamente vissuto.
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Lo stile cristiano — e possiamo trovare un esempio clamoroso e autorevole per la cattolicità nel modo con cui il Papa stesso ha vissuto e vive la sua malattia per cancro — ha superato oggi quell’approccio e quel linguaggio devozionale che tanto spesso, nel passato, veniva associato all’atteggiamento verso la malattia: Cristo ha sofferto, unisco la mia sofferenza alla sua, in una sorta di identificazione “mistica”.
Oggi è stata confermata e rafforzata una cordiale intesa tra medicina e religione. Il cristiano non guarda il progresso medico con diffidenza, quasi fosse segretamente attratto dalla rassegnazione e preferisse il dolore e le forze distruttive a quelle che mantengono la vita. La “cristiana rassegnazione” non è legittima, se viene prima che sia stato esperito e tentato tutto quello che è in nostro potere per difendere e promuovere la vita.
Questo atteggiamento non svuota la spiritualità cristiana della sua sostanza, ma la mobilita sul fronte dell’etica. Prendere le giuste decisioni per la nostra vita, di cui siamo responsabili: questa è, in sintesi, la sfida che la medicina efficace di cui oggi disponiamo ci pone.
Si tratta di trovare la giusta misura: non rassegnarsi troppo presto, smettendo di lottare; ma anche non ostinarsi irrazionalmente, come se l’esistenza corporea fosse l’idolo supremo e il suo prolungamento, a qualsiasi condizione, l’imperativo assoluto. Questa delicata via intermedia, tra l’abdicazione precoce e l’accanimento terapeutico, è un altro universale che oggi ci accomuna tutti. Abbiamo una medicina che in tanti casi guarisce: siamo ben felici di utilizzarla e sentiamo il dovere di metterla a disposizione di tutti, non solo dei privilegiati. E sarebbe inutile astrazione celebrare la “Giornata del malato” se questo obiettivo concreto di estensione a tutti e a ciascuno dei possibili benefici della medicina restasse in ombra. Anche questa accessibilità della medicina moderna è eticità, come è un fatto etico essenziale la competenza e la dedizione che domandiamo ai sanitari e la nostra stessa disponibilità ad assumerci le decisioni responsabili che ci competono.
L’operatore pastorale in ambiente sanitario non può evitare di trovarsi al centro di questo snodo così importante e delicato tra responsabilità personale del malato, eticità della medicina, religione, per rifugiarsi ancora una volta nella pura sfera del religioso, sia pure nella “pratica” sacramentale.
Al contrario, egli non può ormai evitare di rendersi partecipe, da
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protagonista, del passaggio dalla medicina della nostra disperazione quotidiana — la medicina degli scandali, della voragine finanziaria e degli sprechi — alla medicina della speranza che pur esiste e che vorremmo fosse disponibile anche per l’ultimo degli emarginati.
È il caso di ricordare qui e in questo giorno quella specie di autoaccusa che il cardinale Veuillot aveva pronunciato dal suo letto di ospedale: «Sappiamo dire delle belle frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne più niente, noi ignoriamo quello che è». E anche quanto ebbe il coraggio di dire a Lourdes una donna incaricata di parlare ufficialmente al Papa a nome di alcuni cristiani malati: «Noi persone malate, più che essere aiutate dalle parole cristiane, vi troviamo spesso ragione di inasprirci, di rivoltarci. Quando si dice che “Dio prova coloro che ama”, noi sappiamo che è falso. Ripetiamo volentieri con Giobbe: “Cessa di tormentarmi, di schiacciarmi con i tuoi discorsi”».
Non pronunciamo più, quindi, parole di dolorismo — come il Papa stesso non ne ha pronunciate in occasione della sua malattia che egli stesso ha voluto rendere pubblica e desacralizzare —, non inviti alla rassegnazione e all’accettazione passiva. Ma una mobilitazione intelligente di tutte le forze per lottare contro il male, per respingere ciò che minaccia di diminuire la vita, così come Teilhard de Chardin vedeva il cristiano in sintonia con la spiritualità del mondo.
In questo è la concretezza del profilo etico del paziente moderno: essere protagonista delle vicende che riguardano la sua malattia e la cura di essa, senza più affidarsi ciecamente al sanitario, senza dargli una delega in bianco di provvedere al proprio bene.
Sul proprio bene, il malato di oggi ha una parola da dire e la vuole dire.
Per questo, il paziente vuole e deve essere informato ed avere così gli strumenti necessari ad esprimere il suo consenso razionale, di persona umana, ai trattamenti di diagnosi e cura. Informazione e consenso che non possono non coinvolgere fino in fondo l’operatore pastorale, non certo sul piano scientifico, ma su quello profondamente umano e coscienziale che più viene ferito dal sapere e affaticato dal dover decidere. Una nuova etica impone di passare dalla menzogna paternalistica e “pietosa” all’informazione rispettosa, ma questo significa anche una nuova sapienza nell’accompagnare il malato lungo il tunnel della sofferenza.
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Una “nuova etica”, abbiamo detto, o meglio, una nuova diversa considerazione e attribuzione di valore a quei principi ormai condivisi dalla maggioranza dei cittadini nelle moderne società pluraliste e che cementano e regolano la nostra vita civile. Indipendentemente, quindi, dalla deontologica professionale dei diversi operatori sanitari e dalle stesse leggi dello Stato, si ritiene che sia maturata nella nostra società una diffusa consapevolezza, una coscienza del diritto personale, per la quale il cittadino malato richiede un comportamento dei medici ispirato al dialogo, finalizzato alla comunicazione, mirato a ottenere una partecipazione attiva del paziente alle decisioni cliniche che lo riguardano.
Un comportamento, in breve, che si discosta di molto dal paternalismo tradizionale, in cui il medico riteneva di sapere, insindacabilmente, qual era il “bene” del paziente, senza bisogno di instaurare con lui alcun rapporto comunicativo.
In questo contesto, ci sembra che l’operatore pastorale cristiano abbia un ruolo nuovo e fondamentale nel favorire e mediare questa comunicabilità tra sanitari e pazienti, che obbliga in coscienza il medico a scendere sul terreno del confronto e del giudizio diretto col malato, diventato improvvisamente persona e non più numero o “caso”, e che pone il paziente stesso di fronte alla possibilità/necessità di conoscere il proprio destino e decidere responsabilmente di se stesso e perciò, indirettamente, della propria famiglia, dei propri affetti.
Già alcuni anni fa i vescovi francesi, in un loro documento sul mondo della sanità, osservavano che si stava progressivamente slittando verso un nuovo tipo di civiltà: mentre il diciannovesimo secolo metteva in risalto soprattutto il diritto al lavoro, il nostro tempo insiste sul diritto alla felicità. E difatti, il problema della salute — che acquista nuova emergenza proprio per l’allungamento progressivo e rapido della vita media nelle regioni a tecnologia avanzata e per il consequenziale invecchiamento delle società opulente — sta diventando addirittura una discriminante culturale e politica che mette a confronto le differenti concezioni antropologiche: cosa è l’uomo e in cosa sta la sua felicità, di cui la salute è parte integrante e strumento apparentemente indispensabile?
L’operatore pastorale non può non tener conto che in campo sanitario si scontrano violentemente le ideologie e non solo quando si toccano temi scottanti come l’aborto, la pianificazione delle nascite,
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o la cura dei tossicodipendenti, temi per i quali l’approccio cristiano dovrà spesso contemperarsi con una lineare e comprensiva solidarietà umanista, ma praticamente in ogni decisione che attiene la salute dell’uomo. Ognuna di quelle decisioni, infatti, dagli stanziamenti finanziari all’incremento tecnologico, dal regolamento della struttura ospedaliera allo stile di assistenza riservato al malato, risente del differente progetto che si ha sull’uomo, sul suo divenire, sulla sua felicità, sull’assetto della società nella quale è destinato a vivere, ad agire, ad ammalarsi, a guarire o a morire.
La Chiesa oggi è convinta della necessità di una educazione sanitaria — una “cultura della salute” — che permetta all’individuo, cristiano e non, di affrontare da protagonista tutto quello che gli capita nel campo della salute. La salute non solo come diritto da rivendicare alla società, ma anche come dovere che domanda un impegno positivo non solo da parte delle istituzioni, ma di ogni singolo individuo. La salute come “virtù”, scriveva Ivan Illich. Oggi sappiamo tutti che la salute non si può riceverla, bisogna “farla”.
La salute, quindi, e il suo contrario, la malattia, confrontano l’uomo con il problema maggiore dell’umanesimo nella sua totalità: il rapporto che l’uomo ha con il proprio corpo. Il pensiero moderno sta ritrovando l’unità essenziale dell’uomo reale, dopo una lunga epoca culturale dominata dal dualismo corpo-anima, di derivazione non biblica.
Per il cristiano, allora, tanto l’educazione alla salute quanto l’occasione della malattia diventeranno cammino verso la “riappropriazione del corpo” nella fede pasquale. La corporeità, vista come momento essenziale del soggetto, deve essere riscoperta come la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone.
La perdita dell'armonia corporea è una delle malattie più gravi della civiltà a tecnologia avanzata. Abbiamo disimparato il linguaggio delle funzioni vegetative. Il corpo sembra aver perso la sua trasparenza: ci è diventato estraneo, quasi nemico. Riappropriarsi del corpo è il presupposto per vivere da protagonisti l’avventura della salute.
I cristiani di oggi, accogliendo questa considerazione positiva della corporeità, possono riscoprire la verità del detto patristico: caro cardo salutis, la carne è il fondamento della salvezza, con cui si è espressa tradizionalmente la fede nel mistero della incarnazione.
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Un efficace rilancio della pastorale sanitaria non può non essere fondato sul recupero del valore biblico del corpo. Alla concezione materialistica dell’uomo che si diffonde nel mondo della sanità i cristiani non hanno da opporre uno spiritualismo esasperato, bensì la visione dell’uomo totale, che deriva dalla storia della salvezza.
Il terreno privilegiato di questa riflessione resta l’attività terapeutica di Gesù. Ed è su questo “segno” distintivo dell’annuncio del Signore che si fonda il rapporto tra fede e malattia: un rapporto che oggi non si esaurisce più nella richiesta di guarigione miracolosa, ma comprende il benessere globale del malato, accolto nella comunità cristiana.
Attualmente è grande nella comunità ecclesiale l’impulso a riscoprire la componente terapeutica della fede, nella convinzione teologicamente fondata che il ministero della guarigione fa parte del mandato missionario di cui la Chiesa è investita (Lc 9,1-2; 10,8-9). La guarigione è un processo che comincia dall’interno per riflettersi sul corpo malato. Essa ha inizio con l’intimo risanamento spirituale, vale a dire con l’esperienza di essere stati afferrati da Gesù e posti nella vita stessa della famiglia di Dio. Questa conversione è come una nuova nascita: il battesimo nello Spirito Santo. Dalla certezza della presenza della salvezza nella propria esistenza scaturisce una forza nuova per affrontare i mali della vita, presente e passata.
Ma soprattutto, la «Giornata mondiale del malato» si propone di rimettere il malato al centro della comunità. È la risposta più autenticamente cristiana alla quotidiana emarginazione dei sofferenti dalla società delle persone efficienti, fisicamente integri. Ma è anche il superamento definitivo del concetto di malattia come punizione per una qualche colpa. Una nozione diffusa nei contesti religiosi più antichi, anche cristiani, e che si è andata riaffacciando in questi anni di AIDS e di tossicodipendenze: la immunodeficienza come segno di rottura con Dio o “castigo” della natura stessa per il proprio disordine personale nell’uso del sesso o nel delicato rapporto con se stessi.
I lebbrosi non venivano cacciati via per motivi igienici; ma per prendere le distanze da chi portava nella carne il segno del giudizio di Dio. Fu perciò scandaloso, provocatorio e perturbatore lo spettacolo di Gesù che si rivolgeva di preferenza proprio a coloro che venivano messi ai margini della comunità dei perfetti. Gesù guariva tutti (cf. Mt 4,23-24; Mt 14,34-35). La prassi messianica era basata sulla integrazione e non sulla segregazione. La comunità cristiana, dunque, intende
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oggi restituire la sua centralità al malato, a qualunque malato, quali che siano le cause — involontarie o diretta conseguenza delle sue scelte disordinate di vita — della sua malattia.
«Nella missione e nel messaggio di Gesù Cristo — scriveva R.A. Lambourne in Community, Church and Healing — la sua opera di guarigione non era una conseguenza secondaria, ma il vero e proprio mezzo per proclamare, istituire e ampliare la nuova era, sotto la signoria di Dio. L’attività terapeutica del Cristo non era in primo luogo un’azione privata tra l’uomo e Dio, una prova spirituale individuale e una ricompensa per il malato, bensì un segno efficace. Ma un segno efficace a cui tutti i presenti, non solo Cristo e il guarito, prendevano parte, non ultimi quelli che lo deridevano. Erano segni efficaci pubblici».
In questo atto pubblico, di esplicito rigore messianico, che restituisce al malato l’efficacia inestimabile della funzione terapeutica della comunità cristiana, così intimamente intrecciata all’annuncio di salvezza di Gesù, e al tempo stesso recupera alla comunità il malato come momento alto della sua risposta alla “buona notizia” del Signore, ci sembra di cogliere il significato più profondo e più moderno della prossima «Giornata mondiale del malato».