![Book Cover: Corpo e cura di sé](https://sandrospinsanti.eu/wp-content/uploads/2019/09/01-c-etica-per-le-professioni-Custom.jpg)
Sandro Spinsanti
CORPO E CURA DI SÉ: SI SCRIVE PATOGRAFIA, SI LEGGE AUTOBIOGRAFIA
in Etica per le professioni
n. 1, 2014, pp. 37-43
37
Nessuno ci può condurre alla "grande salute": essa è la nostra auto-realizzazione. Gli altri, anche il medico, sono solo "presenze" di aiuto che possono contribuire a "umanizzare" la vita e i processi del nascere, crescere, morire. Il medico, più che un tecnico, deve essere capace di ascolto attivo. Ciascuno è "curante" di se stesso.
L'attività di cura non è cosi lineare come il termine lascia intendere. Possiamo immaginare tre diversi scenari, nei quali diverso è il ruolo dei curanti e quello delle persone curate, e quindi la formazione necessaria per esercitare adeguatamente il compito.
La prima ha a che fare con le situazioni in cui noi abbiamo bisogno di cura a causa di una malattia della quale vogliamo liberarci. Il modello si realizza con la massima linearità ed efficacia nelle situazioni in cui ha luogo una guarigione. Possiamo visualizzarle pensando al giorno felice in cui diciamo: «Dottore, mi sento bene, adesso»; o alla scena in cui è il dottore a venire al nostro letto di malato per comunicarci: «Lei adesso è guarito, da domani si può alzare». Pensiamo che finalmente la cura ha raggiunto il suo obiettivo: siamo "curati", perché siamo giunti alla guarigione. Attraverso la cura si chiude la parentesi aperta della malattia. Con un'espressione latina, questa guarigione si chiama "restitutio ad integrum".
Il secondo modello di cura è quello che i classici dell'antichità, sia medici che filosofi, chiamavano la "guarigione sufficiente". Si tratta della misura di guarigione necessaria per continuare a vivere. Quello che per gli antichi poteva essere un'evenienza rara, quasi eccezionale, ai nostri giorni è diventato l'esito più frequente del processo di cura.
Il primo modello di cura si realizza ormai solo nel 20% delle nostre malattie, cioè in una minoranza delle situazioni. Nell'altro 80% di casi patologici avviene che la medicina non riesce a dare la guarigione, intesa come restituzione all'integrità e alla salute piena, ma dà la guarigione sufficiente, in quanto capacità di continuare a progettare e a vivere la propria vita malgrado la malattia. Sempre più spesso, quindi, quando andiamo dal medico dobbiamo abbandonare il sogno ingenuo che usciremo prima o poi, con un percorso lungo o contorto, dal tunnel della malattia per tornare alla salute.
In questo contesto il significato di cura è, dunque, diverso. Ciò vuol dire che per
38
un numero crescente di persone la medicina non dà risposte risolutive: offre solo, se riusciamo a coglierla, la capacità di continuare a vivere con il nostro diabete, con la nostra asma, con la nostra insufficienza cardiaca, con le due (o tre, quattro, cinque) malattie croniche che si avvolgono le une sulle altre dopo una certa età.
Lo scenario prevalente ai nostri giorni, dunque, è per lo più caratterizzato da cure che non sono rivolte alla restituzione della salute, ma sono finalizzate a darci la capacità necessaria per continuare il nostro processo vitale, malgrado le patologie dalle quali non possiamo liberarci. A questo scenario di cura dobbiamo aggiungere una terza e più ampia categoria di salute, che dà luogo a un altro modello di cura. La prima accezione di salute è la mancanza di sintomi ― sono in salute quando non ho nessuna patologia, oppure, qualora fossi malato, la medicina ha le riposte giuste per farmi ritornare di nuovo in salute e quindi liberarmi dal sintomo ―; il secondo modello presuppone la salute intesa come un equilibrio continuo e instabile tra sintomi dai quali non sempre sono in grado di liberarmi, ma con i quali posso continuare a convivere e sviluppare il mio progetto esistenziale.
La "Grande Salute" è la realizzazione del nostro progetto di uomini e donne che, attraverso le vicende del corpo, realizzano un destino che dipende da loro e che trascende il piano corporeo.
Per indicare il terzo concetto di salute mutuo un'espressione da un filosofo che ha avuto personalmente una lunga e tribolata storia di malattie, ed è morto relativamente giovane: Friedrich Nietzsche. Possiamo quasi parlare della sua filosofia come di una risposta alle sue malattie, alla sua salute carente.
In una lettera Nietzsche afferma, in modo molto incisivo, che attraverso le sue malattie è arrivato alla "Grande Salute". È proprio questa espressione ― "la grande salute" ― che voglio prendere in prestito per riferirmi a quella "salute" che non presuppone né l'assenza di malattie, né la convivenza con esse, bensì la realizzazione del nostro progetto di uomini e donne che, attraverso le vicende del corpo, realizzano un destino che dipende da loro e che trascende il piano corporeo (non chiedo ― evidentemente ― a Nietzsche di sottoscrivere questa visione; mi limito ad appoggiarmi alla sua lucida formulazione).
La "grande salute": la storia del nostro corpo
Possiamo descrivere la nostra storia di uomini e donne dicendo che attraverso la nostra "patografia" ― cioè il pathos che noi viviamo ― scriviamo la nostra autobiografia; o ancora che la nostra autobiografia non è altro che la nostra "patografia", cioè una serie di sofferenze, dolori, prove, legati alla nostra esistenza corporea. Elementi centrali di questa "patografia" sono le malattie, ma non solo queste. Non è sicuramente una malattia generare un figlio, ma forse nella storia di una donna l'aver generato un figlio è elemento costruttivo della sua biografia "corporea" come pochi altri elementi.
La salute non è soltanto quello che risulta nel libretto sanitario, ma è l'equivalente della nostra vita.
Anche l'invecchiare è un momento della salute. Basta pensare a coloro che rifiutano l'invecchiamento come fenomeno naturale, per avere un'immagine molto chiara di come accettare o non accettare la decadenza del corpo sia un elemento critico
39
della salute. Ancora un esempio: la menopausa non è solo un evento di tipo clinico, ma biografico, in senso più ampio, che richiede l'accettazione della fine della fase feconda della propria vita.
In sintesi, potremmo dire che la "grande salute" non è altro che la storia del nostro corpo attraverso momenti patologici o fisiologici che noi possiamo registrare come la storia della nostra realizzazione. In quanto esseri umani corporei, la nostra storia, con il suo significato immanente e anche quello trascendente, la scriviamo con il nostro corpo: con il nascere, crescere, ammalarsi, guarire, ammalarsi e non poter guarire e perciò dover convivere con la malattia; con il nostro invecchiare, con il nostro decadere, con il nostro morire.
Da questo punto di vista la "grande salute" non è il contrario della morte. Anche la morte la possiamo definire come un momento della "grande salute". Sono cosciente del paradosso, ma il saper morire non è in contraddizione con la salute. Anzi, lo possiamo definire come un momento fondamentale della "grande salute".
La cura: modi e gradi
I tre modelli di cura che siamo andati descrivendo possono essere presentati sinteticamente con uno schema grafico (cfr. fig. 1).
La formazione dei curanti cambia a seconda che parliamo della cura intesa come restituzione della salute come integrità, della cura come aiuto per vivere con le nostre malattie, oppure della cura intesa come l'appoggio di cui abbiamo bisogno per diventare uomini e donne realizzati attraverso quello che la vita, dalla nascita alla
Figura 1
|
Restitutio ad integrum |
La guarigione sufficiente
|
La Grande Salute |
La descrizione del processo terapeutico |
Togliere il sintomo o la condizione patologica |
Rendere possibile la continuazione del progetto esistenziale |
Giungere, attraverso la patologia, a una più piena autorealizzazione della persona
|
Il ruolo del terapeuta |
Professionista-tecnico: Propone la cura efficace ("to cure") |
Educatore: favorisce l'empowerment del malato |
Counselor (testimone partecipe): si prende cura ("to care")
|
La partecipazione consapevole del malato
|
Auspicabile |
Necessaria |
Indispensabile |
40
morte, ci fornisce. Ognuno dei tre modelli ha bisogno di curanti diversi, così come diversi siamo noi in quanto persone che beneficiano della cura. Nello schema cambiano, rispettivamente, il ruolo del terapeuta e la partecipazione consapevole della persona, del malato.
Nel primo modello dobbiamo registrare un cambiamento abbastanza notevole, che sta avvenendo sotto i nostri occhi, in questi anni. Il fatto è tanto più notevole in quanto questo modello si è mantenuto inalterato nel tempo durante molti secoli. Questo schema di comportamento regolava i rapporti in modo molto lineare: per restituire la salute, là dove è possibile, faceva intervenire un professionista che conosce l'arte del curare, sa cosa va fatto quando c'è una frattura, un infarto, una ferita. È lui che,in scienza e coscienza, decide per il malato. La partecipazione del malato a questo processo era tradizionalmente sintetizzata nella richiesta di docilità alle prescrizioni mediche. Un medico spagnolo che ha riflettuto su questi temi, Gregorio Marañon, diceva ― fotografando quella che era la tradizione medica ―: «Il paziente comincia a guarire quando obbedisce al medico».
Nel modello tradizionale della cura il malato doveva esercitare esclusivamente le virtù dell'obbedienza. Sulla cura, intesa in questa accezione, si sarebbe potuto mettere il cartello: "Non parlate al conducente". Qualche medico l'interpretava anche in maniera letterale, proibendo al malato di fare domande sul proprio stato di salute.
Il medico è il capitano della nave o dell'aereo; lui conosce la rotta e lavora tanto meglio quanto meno viene disturbato. La consapevolezza richiesta alla persona assistita era minima. Anche questo modello sta cambiando nel nostro tempo. Oggi, sempre di più, la partecipazione consapevole è opportuna, auspicabile. Tra chi propone la cura efficace, con tutta la competenza professionale richiesta ― "scienza e coscienza" sono sempre necessarie! ― e chi la riceve si richiede una maggiore simmetria, che esclude l'affidamento passivo nelle mani del medico (non sono rari i pazienti che rifiutano ogni coinvolgimento nelle decisioni diagnostico-terapeutiche: «È lei il dottore, non voglio sapere niente, faccia lei...»). Nella nostra società questo comportamento, definito paternalistico, oggi non è più accettato da buona parte dei cittadini. Tuttavia, finché ci muoviamo all'interno di questo modello di cura, in fondo i ruoli sono abbastanza ben definiti.
La formazione che fa di lui un medico oggi si riassume sotto l'etichetta di "evidence based medicine", cioè una medicina basata non sulle opinioni o le credenze, ma sulle prove di efficacia.
La formazione necessaria per il curante può essere definita dalle attese del malato: dal medico il malato si aspetta in primo luogo la competenza. La formazione che fa di lui un medico oggi si riassume sotto l'etichetta di "evidence based medicine", cioè una medicina basata non sulle opinioni o le credenze, ma sulle prove di efficacia. È necessario che sappia quale trattamento è meglio rispetto a un altro ai fini della restituzione della salute e si regoli secondo linee guida scientificamente valide e non secondo tradizioni di scuola che hanno fissato certi comportamenti.
Oggi il cittadino non è più disposto ad accettare delle disparità di trattamento, per cui la stessa patologia viene curata diversamente a seconda dell'ospedale a cui ci si rivolge (qualche volta, all'interno dello stesso ospedale, il trattamento cambia a
41
seconda dell'unità operativa o del medico, all'interno di uno stesso servizio).
Questo non basta ancora: la competenza professionale richiede oggi che il medico ― il luminare ― non solo sappia come va trattata una patologia, ma che lo comunichi al malato, coinvolgendolo nelle scelte che lo riguardano. È quello che oggi si chiama "consenso informato". La formazione scientifica seria oggi si completa con la formazione anche al rispetto dei diritti civili delle persone. Il malato non va trattato come un "povero Cristo": non è un "paziente", nel senso anche morale della parola, cioè qualcuno a cui è chiesto solo di sopportare con pazienza dolori e disagi.
Quando ci orientiamo alla restitutio ad integrum richiediamo che da parte del sanitario ci sia la competenza, la scienza e anche il rispetto delle regole, secondo lo stile del rapporto che nella nostra società esprime la nuova cultura dei diritti. Per ritornare in salute questo ci basta. Se invece lo scenario è il secondo, la situazione diventa più complessa. Il rapporto che si instaura quando lo scenario è quello della salute sufficiente, o necessaria a convivere con una patologia inalienabile, è diverso da quello che predomina nelle malattie acute.
La medicina per i malati che non vanno verso la guarigione, ma si trovano in una situazione di stabile cronicità, domanda un numero maggiore di aspetti educativi. Va creato un rapporto adulto-adulto.
Mentre nella medicina acuta il medico si occupa dell'emergenza e il malato è passivo, nella medicina cronica il medico ha l'obiettivo di portare il malato a contare su sé stesso; nella medicina acuta il rapporto è spesso genitore-figlio: il medico prende un ruolo di genitore e guida con autorevolezza; invece nella medicina cronica la relazione si modella piuttosto sul rapporto adulto-adulto.
Nella medicina acuta, quella che si risolve nella guarigione,il rapporto con il medico è caratterizzato da gratitudine e ammirazione: il medico che risolve il mio caso è un grande medico. Nel rapporto con la malattia cronica, invece, c'è spesso scarsa gratitudine: ogni volta il medico mi dice le stesse cose; lui si annoia ― me ne rendo conto ― e anch'io mi annoio, perché il mio problema di salute è sempre li. Il rapporto è pervaso da un risentimento profondo, da una parte e dall'altra. Il medico è frustrato, perché si trova a combattere sempre con la stessa situazione, e anche il malato ce l'ha con il medico, che non risponde alle sue attese.
In generale, la medicina per i malati che non vanno verso la guarigione, ma si trovano in una situazione di stabile cronicità, domanda un numero maggiore di aspetti educativi. L'educazione non sta per indottrinamento. Spesso si intende l'educazione sanitaria come insegnare al malato ad assumere determinati comportamenti (non fumare, non assumere sostanze dannose, non mangiare dolci se si è diabetici...). L'educazione di cui parliamo non si limita a insegnare determinate regole. Come avviene nell'educazione degli adulti, vuol dire sostanzialmente cercare insieme obiettivi, negoziarli, verificarli, per poi ridefinirli da capo. È un rapporto adulto-adulto, fondato sul rispetto e sulla stima; quello che è importante non è un'autorità che uno può giocare dall'alto, ma il rapporto che si stabilisce col tempo.
La personalità del malato cronico si modifica progressivamente: si può gradualmente arrivare a delle decisioni che forse qualche tempo prima non erano condivise o condivisibili. In questo contesto nell'attività di cura l'accento va a cadere sull'attenzione
42
da prestare alla persona malata, per capire cosa sta vivendo, per ascoltarlo e accompagnarlo nelle sue decisioni. Questo atteggiamento del curante è soprattutto necessario se ci spostiamo nel terzo modello di cura, dove cura non è più soltanto un'attività di tipo professionale.
La cura necessaria per poter arrivare alla "grande salute" non è esclusivamente quella che fornisce il medico o l'infermiere, ma è un'attività in parte professionale e in parte non professionale. Un mito molto suggestivo, riportato da Igino, uno scrittore romano del II secolo d.C., ci parla di una dea molto singolare: Cura. Secondo il mito, «Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; ne raccolse un po' e incominciò a dargli forma. Era intenta a osservare che cosa aveva fatto, quando intervenne Giove. Cura lo pregò allora di dare lo spirito alla forma: Giove acconsentì volentieri e la forma divenne un uomo. Cura allora pretese di imporre il proprio nome alla forma umana, ma Giove non acconsentì e volle che fosse imposto il proprio. I due disputavano sul nome, quando intervenne anche la Terra, reclamando che fosse imposto il proprio nome, perché lei aveva dato alla forma una parte di sé stessa. I contendenti elessero Saturno a giudice, che emise la seguente salomonica sentenza: "Tu, Giove, hai dato lo spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra hai dato il corpo, e riceverai il corpo. Ma fu Cura che per prima diede forma a questo essere, e per questo fin che vive essa lo possederà"».
Finché noi viviamo, dalla nascita alla morte, siamo figli di Cura. Questa non è rappresentata solo dai professionisti con il camice bianco, ma anche da padri, madri, fratelli, vicini, volontari, ... Per essere curanti in questo grande e più ampio significato ― in maniera tale che attraverso le vicende del nostro corpo, quelle felici e quelle tristi, la generazione della vita, la crescita, la decadenza, e la morte, noi possiamo auto realizzarci ― più che un sapere tecnico si rende necessaria la capacità di essere presenti e di esercitare un ascolto attivo: l'ascolto che guarisce.
Non è detto che i processi di nascita, crescita, decadenza, vita, morte producano automaticamente degli esseri consapevoli. Non è per niente scontato che noi moriamo come quegli "uomini" che saremmo dovuti diventare.
Possiamo chiamarlo "counseling", non intendendo però la consulenza nel senso di indurre un altro a fare qualcosa. "Counseling" è una presenza all'altra persona, sapendo che la cosa di cui noi abbiamo più bisogno non è tanto qualcuno che faccia qualcosa per noi o che ci dia consigli, ma fondamentalmente che sia presente. La misura della consapevolezza necessaria per entrare in questo processo è massima: nessuno ci può far crescere, se noi non lo vogliamo.
Non è detto che questi processi di nascita, crescita, decadenza, vita, morte producano automaticamente degli esseri consapevoli. Non è per niente scontato che noi moriamo come quegli esseri umani'' che saremmo dovuti diventare. La fine della nostra vita come pienezza non è un dolo sicuro, ma un processo molto aleatorio. L'esperienza quotidiana ce lo conferma: ci sono delle persone che attraverso le dure vicende del corpo diventano migliori, maturano nel senso che acquisiscono maggiore umanità; cene sono altre che attraverso vicende analoghe si chiudono, diventano più ostili, più egoiste, ancora meno apprezzabili dal punto di vista dell'autorealizzazione umana.
43
Nessuno ci può condurre per mano alla "grande salute": essa è la nostra autorealizzazione. Neppure la persona che mi ama di più può darmi la possibilità di realizzarmi come essere umano.
Soltanto io posso farlo; ma per questo ho bisogno dell'aiuto di persone che mi amano, mi rispettano e mi ascoltano. Se queste persone hanno anche il camice bianco, benissimo; ma sono benvenuti tutti coloro che possono garantire una vera presenza.
Body and self-care: writing "patography" but reading "autobiography"
The activity of care is not so straightforward as the term suggests. The role of practitioners and that of the people treated require a careful training. The history of men and women can be described through their "patograhy", the pathos that they experience in their life: this is their autobiography. Therefore, an autobiography, is nothing more than the "patography" meaning all that whole series of sufferings, pains, trials, linked to the existence of the body. Central elements of this "patograhy" are diseases, but they are not the only ones. Health is not only what is in the medical records, but it is the equivalent of our life. And the "great health" is nothing more than the history of our body through those pathological or physiological moments that we can record as the story of our self-fulfillment. As human beings with a body, we write our history, with its immanent and transcendent meaning, and with our body: being born, growing, getting sick, healing, getting sick again and not being able to heal and therefore having to live with the disease, with our getting old, decay, and dying.
The care required in order to get to the "great health" is not only the one provided by the doctor or nurse, but is an activity, partly professional and partly non-professional, made up of information, decisions, attempts. No one can take us by the hand to the "great health”: it is our self-realization. Welcome everyone ― even those with the white coat ― who can provide a real presence for listening and accompaniment.