Corporeità

Sandro Spinsanti

CORPOREITÀ

in Diakonia - Etica della persona

a cura di Tullo Goffi - Giannino Piana

Queriniana, Brescia 1983

pp. 57-95

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INTRODUZIONE -  Il corpo tra antropologia ed etica

Non è una novità che la morale si occupi del corpo; nuovo deve essere però l’approccio che voglia tener conto della consapevolezza che il nostro tempo ha acquisito della corporeità come valore. Il corpo è stato volentieri considerato come il polo della realtà umana nei confronti del quale doveva esercitarsi il dominio e la disciplina della volontà; l’etica equivaleva a un «fare la morale» al corpo... Secondo l’immagine di S. Acquaviva, l’etica e i valori venivano considerati «sopra», il corpo «sotto» 1 Oggi invece il rapporto si è rovesciato. Vogliamo trovare tutto l’uomo nel suo corpo: i dinamismi del desiderio come la realtà dello spirito, la natura e la cultura, la norma critica di ciò che è specificamente umano come il punto di inserzione della rivelazione divina 2.

Il recupero della corporeità ha rinnovato l’antropologia teologica. La teologia non può più dare il suo avallo a nessuna forma di disincarnazionismo, né a un’ascesi impostata sul disprezzo o sull’indifferenza verso il corpo. In senso positivo, possiamo già salutare l’inizio di una teologia sistematica del corpo, alla quale ha dato un autorevole impulso lo stesso Giovanni Paolo n con la sua catechesi settimanale al popolo cristiano 3. Le linee portanti di quel disegno si articolano intorno alle dimensioni della creaturalità, della sensorialità e della storicità. In accordo alla prima, l’uomo partecipa mediante il corpo alla finitezza del mondo. La somaticità, che mette in evidenza la caducità della materia, può diventare, se illuminata dal messaggio della creazione, il luogo in cui l’uomo sperimenta il proprio essere come dono. La limitatezza intrinseca della materia, di cui è costituito il corpo, è il fondamento, inoltre, della vita sociale,

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in quanto l’essere umano può vivere solo in una comunità di interscambio. Alla dimensione della creaturalità l’uomo partecipa non solo passivamente, con ciò che subisce, ma anche attivamente. Ricevendo il corpo, riceve al tempo stesso la capacità e il comandamento di «fare» il proprio corpo. Il corpo-natura è destinato a diventare il corpo-cultura. Ciò implica il compito di correggere gli sbagli possibili della natura e di integrare le sue insufficienze; comporta soprattutto il compito di utilizzare «tutto» il corpo, sviluppandone le potenzialità implicite.

Il corpo vissuto si organizza intorno ai sensi, intesi come le porte attraverso le quali la persona è in comunione con il mondo. La dimensione della sensorialità lascia intravedere quasi un’ontologia diversa, che privilegia l’accoglienza rispetto all’autosufficienza dell’essere. La recipienza del corpo ha una diretta rilevanza teologica, in quanto offre un supporto alla dimensione religiosa della vita. Quando si atrofizza la sensorialità, non ne risente solo la facoltà umana di scoprire e creare la bellezza come risposta alla caducità del mondo, bensì anche quella capacità di trovare un significato ulteriore al mondo, che è l’essenza stessa della religiosità.

Una terza dimensione del corpo di rilevanza teologica è la storicità. Il corpo cambia, e di tutte le trasformazioni conserva una memoria, distinta da quella logica e da quella emozionale. Il corpo cambia: e non solo perché soggetto, in quanto natura, alla caducità, ma anche perché incontra altri corpi. Tra tutti i corpi che sono passati sulla terra nessuno ha influenzato la storia dell’umanità quanto il corpo di Gesù. È quanto annunciano la fede cristiana, confessando che Gesù è diventato, attraverso il mistero pasquale, «Spirito vivificante», e la riflessione teologica, qualificando la risurrezione come nuova creazione.

Questi punti-forza di un’antropologia cristiana del corpo sono altrettanti stimoli perché la corporeità trapassi anche in una rinnovata riflessione etica. L’impegno etico fondamentale può essere adeguatamente espresso parlando di un compito di umanizzazione del corpo. Avere un corpo pienamente umano non è un dato compiuto, ma un progetto da realizzare. Su questa linea di orizzonte emergono singoli problemi settoriali. Ne abbiamo individuati quattro, che si raccomandano non solo per la loro attualità, ma anche per il valore tipico che rivestono ai fini di una riflessione morale sulla corporeità ispirata ai valori cristiani.

L’identità sessuale obbliga a un confronto con il corpo quando si vuol rispondere all’interrogativo più fondamentale di tutti: «chi sono io?». Il corpo è anche il luogo obbligato di quei confronti con i quali ci si presenta e ci si propone agli altri esseri umani, per tessere la fitta rete della comunicazione interpersonale. Sia la disciplina del corpo che la ricerca del centro, infine, possono essere ricondotte al comune denominatore

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dei processi auto-manipolativi, che conducono a un livello di coscienza più esteso. Sempre più si diffonde oggi il ricorso a stupefacenti, stimolanti artificiali e droghe per modificare i propri stati di coscienza. Eppure la via regia per accedere agli stati superiori e più allargati di coscienza resta la percezione del proprio corpo. La sapienza tradizionale lo ha sempre insegnato, e molti si mettono oggi sulla strada per riscoprirlo.

1. Maschile/Femminile: l’identità sessuale

Quando Giovanni Paolo II nei suoi discorsi del mercoledì ha cominciato, commentando il racconto della creazione nella Genesi, a parlare della sessualità come dono che correda essenzialmente il corpo umano, le sue parole hanno suscitato vasto eco anche nella stampa non religiosa. Il recupero teologico della realtà fisica dell’uomo, la celebrazione dello splendore architettonico del corpo nella sua differenziazione sessuale, suonavano come una innovazione audace, che spazzava via una consolidata tradizione di moralismo platonicheggiante, nelle cui prospettive i valori dello spirito venivano presentati come antitetici alla materialità della carne. Affermava il papa: «Non c’è rottura e contrapposizione tra ciò che è spirituale e ciò che è sensibile, tra ciò che umanamente costituisce la persona e ciò che è determinato dal sesso: ciò che è maschile e femminile... L’uomo mediante la sua corporeità, la sua mascolinità e femminilità, diventa segno visibile della Verità e dell’Amore». E ancora: «Il cerchio della solitudine dell’uomo-persona si rompe perché il primo uomo si sveglia dal suo sonno come maschio e femmina... La femminilità ritrova se stessa di fronte alla mascolinità, mentre la mascolinità si conferma attraverso la femminilità. Proprio la funzione del sesso, che è costitutivo della persona (e non soltanto attributo della persona) dimostra quanto profondamente l’uomo con tutta la sua solitudine spirituale, con l’unicità e irripetibilità propria della persona, sia costituito dal corpo come lui e lei. La presenza dell’elemento femminile, accanto a quello maschile e insieme ad esso, ha il significato di un arricchimento per l’uomo in tutta la prospettiva della sua storia, ivi compresa la storia della salvezza» 4.

La novità della teologia del corpo e della sessualità proposta dal pontefice è più nella forma che nella sostanza. Tutti i suoi elementi qualificanti, infatti, si ritrovano nell’insegnamento della Gaudium et Spes

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sul significato «personale» dell’amore umano, o possono essere dedotti da esso (cfr. G.S. n. 49).

La situazione culturale del nostro tempo domanda però con urgenza una rivisitazione tanto antropologica quanto etica della differenziazione sessuale dell’uomo e della donna. La dottrina tradizionale della chiesa, come anche le concezioni basate sul senso comune, subiscono una forte provocazione da fatti di costume che sovvertono i clichés cui siamo abituati. La revisione dei ruoli maschili e femminili ha sconvolto vistosamente ciò che spetta all’uomo e ciò che compete alla donna nella vita pubblica, nella famiglia, nella divisione del lavoro. I comportamenti sessuali devianti dalla norma, che in passato venivano repressi o tutt’al più tollerati, a condizione che non emergessero in pubblico, ora rivendicano il diritto all’esistenza e all’accettazione sociale. Non si contano le iniziative intese a promuovere un «orgoglio omosessuale». I travestiti nelle strade esercitano una prostituzione aggressiva e disinibita. Più di recente anche i transessuali hanno cominciato a condurre campagne per il riconoscimento giuridico e sociale della loro condizione.

La crisi dell’identità sessuale sembra un tratto emergente della nostra civilizzazione. Anche se i tragici dilemmi di un transessuale non riguardano che una minoranza numericamente trascurabile, il significato proprio all’essere uomo o all’essere donna è una questione esistenziale fondamentale, a cui nessuno può sfuggire. E proprio questo significato sembra essersi messo a traballare.

Che cosa è maschile e che cosa è femminile? Che cosa significa per l’essere umano possedere un corpo sessuato? È ancora possibile tracciare una linea decisa tra il normale e il patologico? Qual è il cammino abituale, e quali le possibili deviazioni, del processo che porta alla differenziazione sessuale? Cercheremo un orientamento tra i molteplici aspetti della crisi cominciando col rispondere a questa ultima domanda.

1.1. La conoscenza scientifica dell’identità sessuale

L’essere uomini o l’essere donne è una realtà che compenetra tutto il nostro essere individuale e sociale. Non esiste mai un essere umano generico, che sia poi soltanto accessoriamente qualificato come maschio o come femmina. L’appartenenza a un sesso o all’altro (oppure — come vedremo — a un sesso ambiguo o distorto) si agglutina talmente con il nostro «io» più profondo, che non ci è possibile immaginarci senza identità sessuale. Anche nell’esperienza dell’altro l’identità sessuale è tra i primi dati percettivi e tra i più tenaci nel ricordo: potremo aver dimenticato tutto di una persona incontrata fugacemente — il nome, l’età,

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l’aspetto —, ma tuttavia sapremo ancora se era un uomo o una donna.

Secondo l’antropologia ingenua, il dimorfismo sessuale è la condizione normale e naturale. Tendiamo a pensare che esistono due sessi, polarmente opposti senza gradazioni, ognuno con una sua specifica morfologia, con i propri attributi psicologici, con stereotipi di comportamento e una «naturale» attrazione per gli individui del sesso «opposto». Consideriamo inoltre l’appartenenza a un sesso come un fatto immutabile, una verità eterna. Questa modalità di pensiero affonda probabilmente le sue radici nel fatto che la mente umana trova comodo percepire per contrasto. Il pensiero bipolare è la forma più primitiva di pensiero logico. La classificazione bipolare soddisfa il nostro bisogno di ordine ed elimina dall’esperienza le zone indistinte e confuse. La nostra tendenza a concepire l’umanità suddivisa tra uomini e donne è indubbiamente giustificata dal punto di vista pragmatico. Ma è inadeguata a una comprensione scientifica. Solo recentemente si è cominciato ad apprezzare la complessità del nostro sesso biologico. Ci si è resi conto che in differenti culture si trovano concezioni divergenti circa l’identità maschile e femminile. La stessa distinzione biologica tra maschi e femmine è molto più complessa della definizione tradizionale basata sulla configurazione dei genitali esterni.

Un contributo decisivo è venuto dai tentativi effettuati dagli scienziati per aiutare persone del sesso ambiguo e transessuali ad adattarsi agevolmente a un sesso o all’altro 5. Sappiamo oggi che si diventa maschi e femmine in fasi successive, e che nei momenti critici dell’acquisizione dell’identità può avvenire una deviazione dalla norma che si configura come patologica. Le teorie tradizionali sulla maschilità e femminilità, sia ingenue che filosofiche e aprioristiche, devono confrontarsi con i dati sperimentali e clinici derivanti da più discipline: genetica, embriologia, endocrinologia, neurologia, psicologia medica e clinica, antropologia culturale e sociologia. Grazie a queste conoscenze interdisciplinari, è possibile oggi tracciare l’itinerario che segue la differenziazione sessuale dell’uomo e della donna dal concepimento alla maturità.

L’appartenenza a un sesso, l’essere cioè persona sessuata e percepirsi tale, è designata scientificamente come «identità di genere». Tale identità è la persistenza della propria individualità maschile o femminile

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(ambigua o ambivalente), come esperienza di percezione sessuata di se stessi e del proprio comportamento: l’essere «io» nel mio corpo di uomo/donna 6. Altra espressione tecnica è quella di «ruolo di genere», corrispettiva all’identità di genere. Indica tutto quello che una persona fa o dice per indicare agli altri o a se stesso l’appartenenza personale a un sesso.

La crescita dell’essere umano verso l’acquisizione di un’identità di genere compiuta non comporta solo uno sviluppo di potenzialità presenti fin dal concepimento, ma anche simultaneamente un processo di differenziazione che tende al dimorfismo: uomini e donne hanno diversa morfologia, diverse funzioni endocrine, diverse strutture nervose periferiche e centrali. La differenziazione sessuale si attua normalmente attraverso un programma, nel quale la funzione di elemento pilota è assunta successivamente da fattori diversi. Lo si può immaginare come una corsa a staffetta, nel corso della quale la funzione di determinare il sesso biologico passa da un elemento all’altro. Al momento della fecondazione il sesso è stabilito dalla configurazione cromosomica: XX per la donna e XY per l’uomo. La morfologia sessuale si dispiega successivamente con eventi che sopravvengono durante lo sviluppo fetale. La presenza di ovaie o testicoli determina il sesso gonadico. La differenziazione è diretta, a questo punto, dagli ormoni prodotti dalle gonadi, responsabili rispettivamente di una dominanza di androgeni o di estrogeni. Gli ormoni svolgono un ruolo determinante per lo sviluppo dell’apparato riproduttivo interno: sembra anche che creino differenze nella sensibilità del cervello per la circolazione degli ormoni sessuali. Le differenze cerebrali medieranno poi il comportamento sessuale adulto. La situazione ormonale prenatale esercita, dunque, durante i giorni critici dello sviluppo cerebrale, un’influenza determinante sulle vie neurologiche, le quali, a loro volta, influenzano il dimorfismo comportamentale.

Con la formazione dei genitali esterni si crea il presupposto perché nella differenziazione sessuale intervenga anche la componente sociale. Alla nascita, infatti, si è attribuiti al sesso maschile o femminile sulla base della configurazione morfologica dei genitali esterni. Per l’uomo, a differenza di quanto avviene per gli animali, esercita un’influenza determinante la storia biografica post-natale. L’attribuzione di un sesso o

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dell’altro condiziona il comportamento dei genitori verso il neonato. Il sesso biologico acquista, a questo punto, una connotazione marcatamente culturale: la differenziazione prosegue secondo il tracciato delle prescrizioni culturali che definiscono il comportamento secondo i ruoli di genere. Ingenuamente tendiamo a rappresentarci l’acquisizione dell’identità di genere come una inevitabile estensione del sesso biologico. La conoscenza scientifica dell’identità sessuale ci porta invece a concludere che molto di ciò che consideriamo come inerente intrinsecamente alla maschilità e alla femminilità è il risultato di ruoli culturalmente accettati. Sono istruttivi, in tal senso, gli studi di J. Money sui bambini ai quali alla nascita è stato assegnato un sesso diverso da quello cromosomico, a causa di un’ambiguità morfologica dovuta all’ermafroditismo. Essi crescono con un’identità di genere conforme al sesso loro assegnato, piuttosto che in accordo con il loro sesso biologico 7. Il comportamento secondo il ruolo sessuale si acquisisce mediante un processo imitativo, basato sul riconoscimento delle differenze sessuali. La differenziazione sessuale di genere e di ruolo avviene in modo predominante mediante la relazionalità. Attraverso modelli reali o fantastici, dalla nascita alla pubertà il bambino si identifica con il genitore del suo stesso sesso, e si complementarizza con il genitore dell'altro sesso. Nell’ambito del nucleo familiare l’identificazione e la complementarietà avvengono con i propri genitori; crescendo, vengono ad aggiungersi modelli al di fuori della famiglia. Per la stabilizzazione dell’identità sessuale il periodo determinante sembra essere quello della prima infanzia, a partire dal momento dell’acquisizione del linguaggio: dai 18 mesi ai 3-4 anni.

Anche le altre fasi della crescita esercitano un influsso sull’identità psicosessuale. Da sempre si è considerata con particolare attenzione la crisi della pubertà. Dal punto di vista endocrinologico, gli ormoni causano una maturazione dimorfica del corpo, accentuando le differenze con l’altro sesso. Si ha così una modificazione dell’immagine fantasmatica che l’adolescente ha del proprio corpo. Il riconoscimento sociale assume

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una grande importanza; per conquistarselo l’adolescente prende molta cura di accentuare nella presentazione sociale del proprio corpo i caratteri del proprio sesso. L’erotismo della pubertà costituisce, per così dire, il tetto dell’edificio dell’identità di genere: le immagini erotiche della pubertà confermano l’identità che si era precedentemente manifestata e modellano l’orientamento sessuale, come normale oppure distorto da parafilia. L’adolescenza è, infine, il tempo in cui l’innamoramento completa il processo di acquisizione dell’identità sessuale. Il sentirsi accettato e amato, nel proprio corpo, nel proprio sesso, dissipa i residui conflittuali precedenti e rafforza definitivamente la propria identità come uomo o come donna.

1.2. Le turbe dell’identità e dell’orientamento sessuale

Il cammino per il quale si giunge ad essere un uomo o una donna, a riconoscersi e a comportarsi come tali, è lungo e insidioso. Le turbe dell’identità sessuale possono essere radicate tanto nella differenziazione che ha luogo nella vita intrauterina, quanto nella nascita e nella vita post-natale. La responsabilità risale, rispettivamente, a difetti genetici (anomalie cromosomiche); a un’alterata produzione di ormoni durante i periodi critici dello sviluppo fetale (nell’ermafroditismo si verificano, di conseguenza, incongruenze anatomiche nella morfologia dei genitali esterni); a un’errata attribuzione di sesso alla nascita; o, più semplicemente, all’educazione. Per queste persone la conquista della propria identità sessuale diventa un problema arduo, con strascichi di molta sofferenza. Tanto più precoce è l’allontanamento dal modulo normale dello sviluppo, nelle tappe decisive della differenziazione, tanto più gravi e irreversibili sono le conseguenze.

Nell’insieme della popolazione sono comparativamente pochi gli individui che mostrano una discordanza significativa tra il sesso biologico, la loro identità e orientamento sessuale, e il comportamento connesso con il ruolo. Le turbe principali possono essere ricondotte al transessualismo, travestitismo ed omosessualità; le diverse forme di parafilia costituiscono variazioni patologiche nella scelta dell’oggetto sessuale.

Il caso più radicale è quello del transessuale. È una persona la cui identità di genere è in conflitto col proprio sesso biologico, compresa la morfologia genitale esterna. Il transessuale si sente una donna intrappolata in un corpo maschile (parliamo dell’uomo perché il caso contrario — del transessuale biologicamente donna che abbia un’identità maschile — è statisticamente molto più raro). Sempre più numerosi sono i transessuali che non si rassegnano a questa situazione e intraprendono

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il viaggio che li faccia approdare al sesso che sentono come la loro «vera natura». Dopo il trattamento ormonale, che modifica i caratteri sessuali secondari, alcuni si spingono fino ad alterare chirurgicamente la propria anatomia, per risolvere radicalmente l’incongruenza. L’operazione è solo l’elemento più spettacolare del cambiamento di sesso. Per armonizzare la discordanza tra biologia e identità di genere sono necessarie una quantità di trasformazioni relative agli stereotipi comportamentali dell’uno o dell’altro sesso.

Anche il travestitismo è una turba dell’identità sessuale maschile, quasi mai femminile 8. Si manifesta nella tendenza coatta a identificarsi col sesso opposto e a vestirne gli abiti. Il travestito autentico ha una specie di duplice identità: le due parti si alternano con nome e identità propria, con gli abiti, la voce e il portamento adatti. Non nega affatto la sua identità maschile, ma ha bisogno di alternarla con la personificazione di quella femminile, con il sentimento ludico di «giocare» un altro ruolo.

La variazione dell’identità più nota e diffusa è l’omosessualità. Spesso l’identità di genere vera e propria non è propriamente in causa: l’omosessuale non ha dubbi circa la propria identità, ma orienta il proprio interesse erotico verso persone dello stesso sesso. Quando tuttavia l’omosessuale, oltre a convogliare l’interesse erotico verso gli uomini, assume comportamenti effeminati e ama identificarsi con il sesso femminile, i confini con il travestitismo e con il transessualismo diventano fluidi.

Tra le turbe dell’orientamento sessuale vanno elencate quelle particolari condizioni psicosessuali per cui la persona è eccitata da stimoli inusuali e socialmente e moralmente inaccettabili. Comunemente vi si ravvisa delle «perversioni»; con linguaggio neutro, medicalmente si preferisce parlare di «parafilia»: sadismo e masochismo, esibizionismo, voyeurismo, pederastia, necrofilia ecc.

In che misura l’orientamento sessuale delle persone dipende da una specie di determinismo naturale? La scelta di un partner sessuale è un elemento dell’apprendimento del comportamento sessuale adeguato, che si acquisisce mediante il processo di socializzazione, oppure esiste un meccanismo biologico che stimola il nostro erotismo? La ricerca scientifica

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negli animali ha appurato che gli ormoni possono svolgere un ruolo di organizzazione neurologica nel creare la scelta dell’oggetto sessuale. Ma la connessione tra livelli ormonali e orientamento sessuale nei soggetti umani è molto più problematica (anche se è attendibile che gli ormoni fetali che organizzano le strutture fetali dismorfiche possono anche influenzare l’organizzazione delle strutture cerebrali che concernano i comportamenti sessuali). Nell’essere umano gioca un ruolo importante lo sviluppo dell’identità e dell’orientamento sessuale che avviene dopo la nascita. Lo confermano i risultati della ricerca clinica relativa all’omosessualità, che tra le turbe dell’orientamento sessuale è la più studiata. Risulta inoppugnabile che i genitori giocano un ruolo determinante per quanto riguarda la salute psicosessuale del bambino e i suoi sentimenti di adeguatezza sessuale. Tuttavia non c’è evidenza che siano i genitori a «creare» un bambino omosessuale. Nelle modalità dell’esistenza umana c’è sempre qualcosa che dipende dalla libertà e dalla decisione personale.

1.3. Orientamenti dell’etica cristiana

Il corpo umano ha uno stampo sessuale. Quando lo si è voluto negare, si è solo riusciti a colpevolizzare le persone, per l’inevitabile emergenza della sessualità in tutte le espressioni della vita, ivi compresa l’esperienza religiosa. Nascondendo l’impronta del sesso nelle rappresentazioni artistiche, coprendo di vergogna i genitali (le «pudenda», le «parti vergognose»...), non si è riusciti che a produrre, per lo più, una fissazione morbosa. Le varie espressioni di puritanesimo repressivo, ai limiti della nevrosi, si sono molto spesso alleate con la mentalità cristiana. Eppure la gioia di vivere, che nasce da una piena accettazione del proprio corpo, anche nella sua specificazione sessuale, non è contraria al cristianesimo. La riflessione cristiana sull’uomo comincia, secondo l’esempio fornito da Giovanni Paolo II, con il primo uomo e la prima donna nudi nell’Eden, quale simbolo visivo del dono divino della sessualità.

Oggi però sappiamo, meglio che in passato, che la sessualità, oltre che un dono, è anche un compito. Si giunge ad essere uomini e donne attraverso un itinerario che riserva talvolta esiti imprevisti. L’identità e l’orientamento sessuale sono largamente basati sulle caratteristiche sessuali biologiche, ma non ne sono interamente determinati in modo obbligante. Nell’ambito del compito di «dover essere» ciò che per natura si «può essere», si aprono i problemi dell’etica. Anche la morale cristiana è provocata dal sapere scientifico sulla sessualità umana e dai problemi di coscienza di molti individui a prendere posizione.

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In primo luogo: è lecito cambiare sesso, come pervengono a conseguire i transessuali? Questa formulazione riflette da vicino il modo in cui il problema dei transessuali è visto dall’opinione pubblica. Sulla loro vicenda grava il sospetto di un intervento capriccioso, quasi una sfida alla natura e alla società, nonché l’insinuazione che il passaggio da un sesso all’altro sia, in definitiva, a servizio della prostituzione. La scelta è vista in funzione del piacere, senza considerare la sofferenza lacerante che molto spesso accompagna il transessuale nella ricerca della propria identità sessuale. Il transessuale, da parte sua, vive la sua decisione non come un cambiamento arbitrario, bensì come l’adeguamento del corpo al profilo psicosessuale che sente come proprio.

La richiesta di intervento medico per la riassegnazione del sesso — con la terapia ormonale e, come ultima tappa, con l’intervento chirurgico — solleva per il sanitario problemi deontologici ed etici. L’opera medica in questo caso travalica l’ambito terapeutico tradizionale. Il medico non può limitarsi semplicemente ad assecondare la richiesta, senza sottoporla a un certo vaglio per appurare la qualità della motivazione, oltre che le conseguenze sanitarie e psicologiche dell’intervento. Benché la legislazione italiana con la legge del 14.4.1982, n. 164, non consideri più tali interventi chirurgici come mutilazione perseguibili penalmente 9, i medici sono per lo più ostili; l’opinione pubblica condanna come aberrazioni o eccentricità i cambiamenti di sesso. In tale contesto i transessuali sono rinviati al sottobosco della medicina abusiva (e abborracciata: perciò, spesso, con danni gravi all’organismo) e della speculazione.

Per una serena valutazione morale bisogna far perno sull’identità sessuale, stabilizzata al momento della pubertà. Non è su questa che si può agire, perché l’identità, una volta stabilita, non è più in grado di subire cambiamenti. L’incongruenza con il sesso biologico può essere livellata solo operando sul versante somatico 10. Qualora ciò — per motivi medici, sociali o psicologici — non fosse possibile, rimane la frustrazione beante, a cui si può dare una risposta solo per la via della sublimazione.

La visione cristiana della sessualità, come momento della chiamata

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divina, è sufficientemente dinamica per integrare le conoscenze scientifiche moderne circa il processo di acquisizione dell’identità sessuale. I racconti biblici della creazione non giustificano nessun fissismo su cui possa far leva la visione ingenua della maschilità e femminilità. Tuttavia non bisogna dimenticare il carattere specifico dell’etica religiosa biblica, compendiato nel concetto di «alleanza». Nella morale dell’alleanza l’essere uomo o donna non sono beni in sé; sono piuttosto luoghi della «vocazione», destinati a far parte del dialogo della salvezza.

Contro la tendenza, tipica del soggettivismo moderno, a sganciare l’individuo dalla normatività insita nella natura, l’etica cristiana ripropone costantemente il valore della «legge naturale». È con questo metro che la chiesa cattolica continua a condannare l’omosessualità e le varie forme di parafilia 11.

Il diffondersi di un’etica sessuale che assume come parametro valutativo dei comportamenti sessuali il modello del piacere ha fatto cadere i criteri tradizionali. Se il sesso è stato troppo a lungo soggetto a restrizioni, non ne segue che d’ora in poi debba essere vissuto senza restrizioni di alcun genere. Qualsiasi concezione filosofica della sessualità si assuma, ne derivano restrizioni. Il cristianesimo ha per lo più fatto proprio e proposto il modello di una sessualità normata dalla finalità riproduttiva. La sensibilità personalistica di oggi invita piuttosto ad aprirsi al modello comunicativo. Questo sposta l’accento dagli aspetti più fisici della sessualità, in quanto finalizzata alla generazione di una nuova vita, ai ruoli interpersonali, all’espressione delle emozioni (il sesso come linguaggio che esprime tenerezza, rispetto, ammirazione, e ovviamente come espressione di amore), comunicazione e condivisione del piacere.

Adattando questo modello — che integra, e non sostituisce quello riproduttivo — la risposta alla domanda etica di che cosa è «normale» e che cosa è «perverso» nel sesso diventa più difficile. Difficile, ma non impossibile; né tantomeno irrilevante. È necessario tributare il giusto apprezzamento alla diversità e alla complessità degli orientamenti sessuali, senza rinunciare però a riferirsi alla «normalità» in armonia con il tipo ideale di sessualità umana a cui si aspira.

Un contributo peculiare dell’antropologia cristiana va ravvisato nell’ambito della revisione dei comportamenti legati agli stereotipi sessuali.

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Lo stereotipo maschile e il suo corrispettivo femminile sono la definizione che la società offre di quel che significa essere uomo o essere donna; rappresentano il generale consenso, nell’ambito di una comunità culturale, sui ruoli assegnati agli uomini e alle donne, ai bambini e alle bambine 12. La miopia che pervade ogni comunità culturale, differenziandola dalle altre, inclina a far considerare gli stereotipi che ci sono familiari come «normali», e a respingere i comportamenti che divergono come aberrazioni o come folklore. Inoltre gli stereotipi tendono, come indica il nome stesso, a una certa rigidità. La resistenza al cambiamento si ottiene mediante un processo di ideologizzazione delle differenze dei ruoli. Essi vengono fatti risalire alla «natura», oppure, più radicalmente, alla volontà di Dio. Anche per ciò che concerne la maschilità e la femminilità, la teologia cristiana ha dato il suo contributo per «naturalizzare» e «divinizzare» le diversità che invece hanno un’origine soltanto culturale 13. Il messaggio cristiano, così come è stato vissuto da Gesù, contiene una potenzialità rivoluzionaria che soltanto oggi, nel contesto dei rapidi mutamenti e dell’appassionata ricerca di ruoli sessuali che non opprimano, bensì si integrino reciprocamente, possiamo appurare appieno. Gesù, «inconfondibile nel suo tempo e nel suo ambiente» nel modo di realizzare la propria maschilità e di concepire la femminilità 14, costituisce un’apparizione storica singolare. Ha distrutto l’androcentrismo del mondo antico, fonte di un’ostilità globale contro il femminile; è stato egli stesso l’epifania di una maschilità non animosa, riconciliata con la femminilità prima di tutto nella propria persona, e poi con quella delle donne. È questo il modello con cui l’antropologia cristiana della sessualità è chiamata a confrontarsi. Forze irresistibili si nascondono dentro al presente tumulto che sconvolge la concezione tradizionale della sessualità, forze nuove nella lunga storia dell’umanità.

Per l’originale messaggio di Gesù, rimasto a lungo nascosto sotto il moggio, l’èra presente è un «kairós», un tempo opportuno della grazia.

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2. La presentazione sociale del corpo

2.1. La decorazione del corpo

Il corpo è il legame tra noi stessi e il mondo esteriore, in modo diretto con il mondo costituito dal gruppo sociale. Per suo tramite ci proiettiamo direttamente nella vita sociale. Nel passaggio dalla condizione «naturale» a quella «sociale» il corpo riceve un trattamento, che possiamo designare genericamente come decorazione. Specialmente nelle culture primitive la decorazione è un fatto globale, che include una pluralità di significati relativi al tipo di società in cui l’individuo è inserito e al posto che occupa in essa (uomo, donna; bambino o adolescente; iniziato o non iniziato; celibe o sposato; stregone, o capo, o guerriero ecc.).

La decorazione del corpo, come il nome, serve a dare uno status preciso all’individuo, ed esprime visivamente il controllo che la società esercita sulla interiorità. Ogni gruppo sociale ha un suo codice peculiare: anche la grammatica della decorazione corporea si differenzia, in colori e forme, come quella dei fenomeni del linguaggio.

Per essere un individuo culturale talvolta si paga un prezzo doloroso. È il caso di molte società primitive, in cui l’identità è fissata mediante forme permanenti di decorazioni: tatuaggio, scarnificazione, deformazioni del corpo, mutilazioni 15. Altre volte la funzione di indicare lo status sociale è svolta dagli ornamenti, o più in generale dagli abiti 16. Dalla

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decorazione del corpo derivano vantaggi psicologici e sociali. Essa fornisce la chiave per la nostra percezione degli altri e forma la base del nostro modo di comportarci verso di essi.

Una delle funzioni della decorazione corporea è quella di favorire la selezione sessuale. Chi subisce una scelta fa in modo di condizionarla, usando un linguaggio corporeo che trasmetta precisi messaggi di seduzione. Nel mondo animale questo ruolo è prevalentemente del maschio, mentre presso gli esseri umani è l’uomo che sceglie, e quindi è la donna che decora il proprio corpo, al fine di attirare e di essere scelta. Mentre nelle culture primitive la decorazione del corpo è un fatto globale, finalizzato a «inculturare» l’individuo, in occidente è diventata emergente la funzione seduttiva. Per questo motivo nella valutazione morale, e ancor più nella predicazione cristiana, è stata tradizionalmente denunciata come espressione di vanità e di mollezza.

La diffusione del cristianesimo è avvenuta nel contesto del mondo greco-romano, in cui la cosmesi era una pratica corrente. I Padri della Chiesa condannavano l’uso dei cosmetici, in quanto tendente a valorizzare la carne, senza tuttavia riuscire a incidere efficacemente sul cambiamento dei costumi. Una sorte analoga è toccata alla più recente predicazione, che ha usato pulpiti e confessionali per distogliere le giovani cristiane dalla cosmesi moderna, organizzatasi su base industriale alla fine del XIX secolo. Un fatto nuovo, da registrare come variazione del costume, è piuttosto il diffondersi della cosmesi anche tra gli uomini. È la conseguenza dell'espandersi di un’industria che muove ingenti capitali e fa ricorso a una massiccia opera di persuasione mediante la pubblicità. Più in profondità, dipende dal cambiamento in corso dei ruoli sessuali, per cui non ci si attende più che la seduzione sia esercitata in senso univoco dalla donna.

L’obbligo morale generale di preservare la propria integrità corporea e la propria salute vale anche in questo campo. Esistono in commercio numerosi cosmetici rischiosi, mentre il consumatore è tenuto dolosamente all’oscuro del contenuto reale di ciò che compra e dei possibili pericoli per la sua salute. Non sempre gli allarmi sono efficaci: la pubblicità crea artificialmente la «fame di un’immagine» diversa del proprio corpo, e su di essa speculano i venditori di bellezza. Alla cosmesi che si esprime in prodotti di sintesi, cioè chimici, oggi sempre più si affianca la ricerca di una bellezza «ecologica», che si affida alle erbe e ai prodotti naturali (fitocosmetici).

2.2. Abbinamento e moda

Il significato antropologico dell’abbigliamento può essere ricondotto

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sostanzialmente alle considerazioni che abbiamo svolto parlando della decorazione del corpo. Gli aspetti utilitaristici dell’abbigliamento — protezione del corpo dall’avversità degli elementi atmosferici — sono secondari rispetto alla ricchezza di significati che hanno gli abiti per l’uomo, e non sarebbero sufficienti per dar ragione della sua multiforme variabilità 17.

L’abbigliamento prolunga e potenzia la presentazione sociale del corpo. Serve a stabilire lo status dell’individuo nella compagine del gruppo e svolge un ruolo seduttivo: nel gioco dell’attrazione sessuale l’abbigliamento — gli abiti e i suoi accessori — svolge un ruolo tanto più decisivo, quanto più sono stati confinati a un ruolo marginale gli interventi decorativi sul corpo stesso 18.

Per tener continuamente desto l’interesse, l’abbigliamento ha bisogno di cambiamenti frequenti. Il cambiamento è la molla della moda. Psicologicamente essa si radica invece nel bisogno di imitazione. La moda offre inoltre la possibilità di accrescere ed esaltare il proprio narcisismo attraverso l’interesse dedicato al vestiario. L’abito è investito di amore, in quanto permette di abbellire e magnificare il proprio corpo 19.

Un influsso determinante sulla moda è esercitato dalla società consumistica contemporanea, che esalta lo spreco e il continuo avvicendamento dei prodotti. Anche la rivolta contro questo stesso consumismo è spesso recuperata dal sistema: il modo di vestire dei giovani, che rifiutano l’abbigliamento della società stabilizzata, diventa a sua volta una moda.

Tradizionalmente la teologia morale cattolica trattava della moda nel

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capitolo dello scandalo, come una modalità dei peccati contro l’amore del prossimo 20. Ovviamente questa prospettiva resta valida, nella misura in cui abbigliamento e moda possano essere usati come strumenti per manipolare gli altri in giochi di seduzione. Oggi, tuttavia, sembra più urgente richiamare l’attenzione sulle conseguenze che ha la moda sulla persona stessa che vi si sottomette. Quando la moda diventa un fine in sé, piuttosto che un mezzo, esercita una tirannia che mantiene la persona in stato di infantilismo. Inoltre la moda spesso è dispotica e pretende cose che sono pericolose sotto l’aspetto sanitario. Valga per tutte la moda, spesso denunciata dai medici, dei pantaloni troppo stretti: ha conseguenze dannose tanto sugli uomini (sterilità) che sulle donne (infiammazioni ginecologiche). Compito dell’etica cristiana, è in questo campo, di farsi paladina della ragionevolezza e di promuovere la libertà personale, sottraendosi tanto al dominio dei bisogni inconsci di autovalorizzazione mediante la seduzione, quanto alla soggezione alle leggi del consumismo. Se la variabilità della moda corrisponde a un bisogno, di per sé non condannabile, l’esasperazione di tale bisogno ad opera della società consumistica è un pericolo per la libertà della persona; contro di esso l’individuo deve essere messo in grado di difendersi.

2.3. Il corpo nudo

Una delle questioni attualmente più dibattute nell’ambito della presentazione sociale del corpo è quella dell’esposizione del corpo nudo allo sguardo altrui. Il costume balneare ha conosciuto una rapida escalation negli ultimi anni: dal bikini al topless al nudo integrale. Ciò che avviene sulle spiagge offre la misura di un permissivismo crescente, che ha portato il nudo a trionfare nella pubblicità, nei rotocalchi e in altre espressioni della convivenza civile. I fautori del nudismo adducono ragioni di tipo naturalista. Il naturismo, come movimento ideologico, ha una matrice ecologica. Vuol difendere la natura e l’ambiente contro le varie forme d’inquinamento e promuovere una vita sana, non sedentaria, all’aperto. Il lasciar cadere gli abiti è considerata una via per un contatto più diretto con la natura. Gli oppositori del nudismo non sempre lo avversano per ragioni morali. Quando il nudismo non viene praticato con uno spirito quasi cultuale nell’ambito protetto dei gruppi naturisti, bensì straripa nel contesto della vita sociale, molti vi percepiscono una

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sfida di chi si sente culturalmente più avanzato e vuol ostentare una superiorità culturale intesa come superamento delle inibizioni.

Gli argini opposti dalla legge al diffondersi del nudismo si sono riscontrati inefficaci. L’art. 726 del Codice Penale colpisce «chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza». Nell’interpretazione della legge la Corte di Cassazione ritenne valido, nel 1952, il divieto di usare lo slip in pubblico nei pressi della spiaggia, poiché «è contrario ai rapporti di civile convivenza e specialmente alla compostezza che è l’abito esteriore del costume sessuale». È la data di inizio di una serie di sentenze in materie di nudismo, emesse dai vari tribunali, spesso in contraddizione luna con l’altra. Mancando in materia valori assoluti cui riferirsi — il concetto di pubblica decenza è in continua evoluzione, e soprattutto è opinabile —, i verdetti sono affidati alla personalità del giudice.

I tentativi di banalizzare il nudo sono destinati all’insuccesso: il nudo non è né indifferente, né innocente. Non che la nudità debba essere necessariamente correlata con l’erotismo. Il nudo in sé non è erotico, ma è la proiezione erotica che genera il suo potere di attrazione sessuale; se questa proiezione non avviene più, quel corpo cessa di attrarre. La nudità, comunque, rimane legata — almeno nella nostra cultura — con la disponibilità e l’offerta sessuali. Per questo motivo la morale cristiana ha preso, in genere, una posizione di rifiuto nei confronti del nudismo 21.

In senso positivo, le riserve dell’etica cristiana verso l’esibizione del corpo nudo dipendono dalla concezione che vede nel corpo l’espressione della persona. La nudità è perciò riservata ai momenti di particolare intensità, in cui la persona si lascia «conoscere» nell’abbandono amoroso.

2.4. L’uso del corpo nella pubblicità

L’analisi del trattamento che il corpo subisce da parte della pubblicità è un luogo classico per illustrare le manipolazioni cui è sottoposto l’uomo dell’epoca dei mass-media ad opera dei «persuasori occulti». Con particolare impegno ha condotto questa battaglia il movimento femminista, essendo il corpo della donna il bersaglio privilegiato della pubblicità. Questa aderisce ai valori ideologici della società opulenta, proponendo

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come meta la felicità nel consumo. L’immagine tradizionale della donna è stata sfruttata in tutte le sue possibilità; principalmente, però, puntando nel binomio bellezza e giovinezza, a cui si riconducono le chances esistenziali della donna, in quanto dalla bellezza e dalla giovinezza è fatto dipendere il suo potere di seduzione. Tutto l’investimento è fatto sull’esterno, sul corpo quale è rispecchiato nello sguardo dell’uomo quale soggetto desiderante. Alla pubblicità a fini estetico-edonistici si abbina quella medica: dopo la «prescrizione» pubblicitaria dei cosmetici, quella dei rimedi contro la cellulite, il deterioramento della pelle, i danni della menopausa. Pelle, capelli, seni, silhouette (terrorismo psicologico della magrezza): nessun dettaglio del corpo femminile è risparmiato. Per i propri fini commerciali la pubblicità crea dei fantasmi collettivi (insicurezza del proprio potere di seduzione, vergogna dell’invecchiamento), e poi li sfrutta.

Molto femminismo militante è stato ingenuamente convinto che bastasse smascherare queste subdole manipolazioni per togliere alla pubblicità il suo potere. La denuncia è risonata chiara, ma il comportamento non è cambiato in misura adeguata alla presa di coscienza. Anzi, l’uso pubblicitario del corpo si è esteso, integrando nel ruolo di felice consumatrice non solo la donna «alienata» — quella confinata nei ruoli di sposa e di madre —, bensì anche quella «liberata» 22. Anche i nuovi ruoli che la donna assume nella società, se non rimettono in discussione radicalmente il modo di vivere il corpo e la sessualità, non sfuggono alle manipolazioni pubblicitarie. Perfino la rivolta e l’amarezza delle femministe sono state convertite in bisogno di acquistare prodotti. Sotto il rivestimento superficiale della donna liberata, riappare l’immagine della donna tradizionale; il legame è costituito dal fatto che, nell’uno come nell’altro caso, la donna è ridotta al suo corpo. Più di recente anche il corpo dell’uomo ha subito lo stesso trattamento. Il rapporto degli uomini col loro corpo è stato «femminilizzato» dalla pubblicità. Si è cominciato a inculcare anche al maschio il diritto alla bellezza e il dovere di piacere, agganciandolo così mediante il suo corpo al mercato del consumo.

Perché il servizio all’uomo che la morale cristiana può rendere in questo settore non sia ridotto alla sterile denuncia, è necessario che il suo

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intervento si inscriva costruttivamente nei meccanismi che permettono lo sfruttamento del corpo nella pubblicità. La diffusione delle pagine pubblicitarie non si spiega solo con l’abilità persuasiva dei mercanti. Ciò che permette alla pubblicità di prosperare è il suo aggancio ai desideri profondi dei consumatori. L’apporto di una morale liberante è auspicabile proprio nell’ambito dei meccanismi psicologici usati dalla pubblicità. Il più importante è la «colpevolizzazione». Viene insinuato alla persona che è colpa sua, se non riesce ad acquisire e conservare un corpo giovane e bello. La bellezza — i cui canoni vengono, volta a volta, stabiliti dai creatori di immagini — è un dovere; la bruttezza — cioè il discostarsi da quell’immagine — una colpa. Insieme vengono nutrite l’ossessione di piacere stabilmente e l’angoscia di non piacere più. Ciò provoca una polarizzazione sul corpo, non come simbolo reale («sacramento») della interiorità personale, bensì come immagine rispecchiata dal desiderio dell’altro. Solo una persona che ha percorso una buona parte del cammino verso l’autonomia è relativamente immunizzata contro le persuasioni pubblicitarie: finché «si cerca la gloria, gli uni dagli altri», il corpo rimarrà un fragile appiglio esposto a ogni manipolazione.

3. La disciplina del corpo

3.1. L’ascetica corporea

Le pratiche tendenti a disciplinare il corpo, a fini religiosi o educativi, sembrano aver perso diritto di cittadinanza nell’ambito culturale che vive dell’eredità della cristianità. Hanno bisogno di una nuova fondazione dopo che l’ascetica, tradizionalmente elemento integrante della vita religiosa, è stata messa in crisi di diritto e di fatto. Rinunce, sacrifici, penitenze: tutto ciò è scomparso dal vocabolario, oltre che dalla prassi quotidiana che abitualmente qualificava il «buon cristiano». Nel corso dell’evoluzione storica del cristianesimo è avvenuto che alcune forme di penitenza corporea siano entrate a far parte dell’esperienza cristiana. Di alcune riusciamo a parlare solo con un certo disagio, benché siano state praticate dai santi; la loro scomparsa va salutata come una benefica depurazione di elementi superstiziosi e psicopatologici che inquinavano la pratica religiosa 23. Ma altre pratiche di penitenza sono sembrate e sembrano accettabili senza difficoltà pregiudiziali. Alcune, fino a un passato

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recente, erano richieste e suggerite a tutto il popolo cristiano: così l’astinenza dalle carni il venerdì, il digiuno in determinati giorni liturgici, senza dimenticare i «fioretti», che facevano parte di un’educazione alla penitenza, all’autocontrollo e alla disciplina di tutto ciò che è istintuale. Fenomenologicamente si può stabilire uno spettro diversificato di forme ascetiche, che va da quelle che esercitano un’azione diretta sul corpo — digiuno e restrizioni alimentari, esposizione alle intemperie, flagellazione e cilicio, continenza — a quelle che si librano al di sopra dell’esplicita manipolazione corporea, trasformandosi in ascesi interiore, sotto forma di esercizio che regola la direzione della volontà, del sentimento, dell’intelletto.

Il fine ascetico inteso da queste ultime è di morire al mondo, non in quanto macerazione fisica della carne, ma come rinuncia al proprio essere mondano. In ogni caso, comunque, l’ascesi, sia quando ricorre a metodi fisici, sia quando si risolve in esercitazione spirituale delle facoltà superiori dell’uomo, presuppone una negazione della vita «normale» e comune. La pratica ascetica rifiuta essenzialmente di accettare la realtà com’è. Concepisce l’uomo come dotato di energie fisiche o di poteri spirituali che, sottoposti a regolari training, gli consentono di accedere a un’esperienza di corporeità superiore 24, ovvero di salire a un livello di maggiore perfezione (virtù, santità). Proprio questo modello antropologico, fondamentalmente evolutivo ed ottimista, si rivela problematico per la sensibilità moderna ed è sottoposto a critica.

La diffidenza verso l’ascesi corporea si è insinuata anche presso quegli aggregati religiosi che l’avevano tradizionalmente privilegiata. All’interno del cattolicesimo è penetrata la riserva protestante nei confronti delle opere di penitenza, indiziate di corrompere il senso autentico della salvezza per grazia. Contemporaneamente anche il modello secolarizzato dell’ascesi si è sgretolato. Intendiamo riferirci all’ideale dell’autocontrollo, che costituiva un pilastro dell’educazione impartita fino a un recente passato. Non cedere agli istinti, moderare i desideri, saper dilazionare

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le gratificazioni, non far trapelare le proprie emozioni, tenere il corpo sotto controllo: tutto ciò era considerato una meta aspirativa da trasmettere nel processo educativo. Mentre in ambito religioso l’autocontrollo riceveva facilmente una colorazione ascetico-spirituale, nella prospettiva secolare era apprezzato in sé e per sé, come strumento di formazione della personalità virile.

Oggi gli educatori sono diventati reticenti circa l’autocontrollo. Forse perché la nostra civiltà è più edonistica e tende a considerare come valore l’appagamento dei desideri, piuttosto che la loro repressione? È diventato molto arduo convincere qualcuno, in particolare i giovani, a rinunciare a qualcosa che si presenta come piacevole. Siamo tutti, in qualche modo, figli della civiltà dei consumi, legati ad essa per il bene e per il male. Se cessiamo di desiderare — prodotti sempre nuovi, a un ritmo sempre più accelerato — la macchina si inceppa: le merci non sarebbero richieste, la produzione ristagnerebbe. L’autocontrollo ascetico di colui che si priva del superfluo, e magari tende a restringere anche i limiti dell’indispensabile, rischia di apparire come un comportamento antisociale. L’educazione all’autocontrollo è incompatibile con l’atteggiamento del «tutto e subito». Ci pensa la persuasione occulta che straripa da tutti i pori della nostra esistenza, bombardandoci di annunci pubblicitari, a conquistare strati sempre più ampi allo stato di beati consumatori.

L’allergia attuale all’autocontrollo non deriva però unicamente dall’essere diventati consapevoli delle manipolazioni che subiamo dalla società in genere. Ci è nato il sospetto che il controllo proposto non sia veramente «auto»-controllo: piuttosto un «etero»-controllo, cioè esercitato da altri, sotto l’apparenza di un «auto»-controllo. Tutti coloro che cercano di socializzarci, di trasmetterci le proprie scale di valori, di assimilarci alla loro visione del mondo, diventano inevitabilmente dei controllori. La loro opera è tanto più perfetta, quanto meno è visibile; raggiunge il massimo dell'efficacia quando induce a esercitare spontaneamente su se stessi il controllo che neutralizza le emozioni originarie, i desideri autentici, il grido di protesta. Crediamo allora di esercitare l’autocontrollo, mentre in realtà siamo controllati dai controllori estranei che abbiamo accolto e accettato dentro di noi. Invece di vedere, sentire, odorare, gustare, toccare il mondo com’è, lo percepiamo così come ci è stato insegnato a fare.

La fame di esperienza che oggi induce a rifiutare ogni forma di autocontrollo, specialmente quello proposto in nome di una supremazia della volontà e dello spirito sulla parte corporea-istintuale, nasce dal sospetto che non facciamo che perpetuare una visione distorta della realtà, perdendo così gli aspetti più belli del mondo creato da Dio.

Il puritanesimo non è l’equivalente, ma piuttosto la caricatura

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dell’«occhio puro» delle Beatitudini. Il pericolo più grave per l’occhio non è di vedere il mondo, ma di scambiare l’immagine riflessa di esso — sulla quale sono depositati spessi strati di mode consumistiche, interessi, manipolazioni di oggi, nonché di pregiudizi, peccati, paure, viltà delle generazioni che ci hanno preceduto — per l’immagine del mondo voluto da Dio. La disciplina (ascesi) è necessaria: non per castigare il desiderio innato di esperienza, bensì per preservarlo dai tanti inquinamenti che lo minacciano.

Dominare o essere dominati dal corpo? L’alternativa è falsa, e si fonda su una dicotomia implicita, che ci induce a identificarci o con l’intelletto/volontà, o con il corpo, disintegrando così l’organismo totale. C’è disciplina e disciplina. C’è n’è una finalizzata a mantenere il predominio di una parte sull’altra, infrangendo l’unità originaria; e c’è una disciplina volta a ottenere uno stato di sana spontaneità. Per salvare la genuinità dell’essere umano è richiesta la massima disciplina: è quella necessaria per rimanere fedeli alla totalità, rifiutando la dialettica del predominio della parzialità. Questa è la visione antropologica del Vaticano II, riconducibile al compito morale di sforzarsi per il retto ordine:

«Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore (cfr. Dan. 3,57-90). Allora, non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno. E tuttavia ferito dal peccato l’uomo sperimenta la ribellione del corpo. Perciò è la dignità stessa dell’uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo (cfr. 1 Cor 6, 13-20), e che non permette che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore» (G.S., 14).

Possiamo assumerla come base dottrinale per la reinvenzione di una disciplina del corpo, che non sia mutilante dal punto di vista antropologico.

3.2. La nuova educazione del corpo

Nessun progetto pedagogico esclude il corpo dal progetto educativo. Quello che varia, invece, è il modello antropologico sottostante, cosicché la funzione del corpo nell’educazione può essere intesa in modi diversi,

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anche diametralmente opposti. Per riferirci a modelli storici estremi, pensiamo alla paideia greca, mirante alla celebrazione della forma atletica del corpo come epifania del divino, e alla pedagogia prussiana, il cui scopo sembrava essere l’eliminazione di tutto ciò che nel corpo evoca spontaneità e naturalezza 25.

L’educazione fisica che è entrata nelle nostre scuole era modellata su una concezione antropologica che non è più in armonia con il modo in cui oggi viviamo il corpo. Predominava una fisiologia a servizio di una morale volontaristica, rivolta a sviluppare la tenacia e la forza di volontà: «essere forte per essere utile» 26. Si ricercava la robustezza per una finalità trascendente e morale. La priorità data all’elemento mentale-intellettuale era tipica di un’epoca in cui l’uomo si identificava con la propria parte pensante e affidava all’intelletto la leadership sopra la parte animale. La ginnastica tradizionale si preoccupava di «educare» il corpo; ciò che la pedagogia contemporanea rivendica è un educarsi attraverso il corpo. Il corpo non è una parte da educare: è l’essere umano nella sua totalità, per cui l’educazione del corpo e l’educazione dell’uomo coincidono nella finalità. L’educazione corporea è una via del processo educativo, che in se stesso non può non mirare a un’integrazione tanto della sfera conscia come di quella inconscia della vita mentale. La svolta è così radicale che alcuni fautori della nuova educazione corporea parlano polemicamente di «antiginnastica» 27.

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La critica più vivace all’educazione corporea tradizionale, e all’educazione fisica in particolare, è venuta dall’approccio psicocinetico. Rifiutando risolutamente di promuovere l’educazione fisica a fini strumentali di vario genere, la psicocinetica pretende di collocarsi in modo originale nel novero delle scienze umane, anzi di costituire una vera e propria «scienza del movimento umano» 28. Si oppone a una visione parcellare, quale quella di una fisiologia che spieghi solo la meccanica del gesto o di una psicologia che si limiti a cercarne la motivazione. Con l’ausilio di esercizi corporei — e utilizzando costantemente la respirazione quale supporto energetico e prototipo di un movimento continuo che coordina il corpo e la persona — mira a ritrovare la totalità corpo-spirito dell’individuo. Nell’educazione psicomotoria l’attenzione è spostata dall’esercizio all’allievo. Oltre a condurlo, attraverso il corpo, a prendere coscienza di sé, agisce sul movimento per giungere all’essere sociale (educazione alla socializzazione), e alla piena consapevolezza della comunicazione tanto verbale che non verbale. L’educazione fisica in questo contesto non è più vista come un insegnamento tecnico-pratico. Il mutamento di atteggiamenti e di abitudini corporee è perseguito in quanto, attraverso questo, si modifica il comportamento globale di un soggetto. L’approccio psicocinetico favorisce una Umwertung der Werte, un capovolgimento del modo consueto di pensare, insinuando il sospetto che la realtà vera si trovi collocata su un altro registro, dove corpo e idea sono la stessa cosa e costituiscono una realtà indissociabile (la «totalità primordiale»). In questo approccio riemerge la polemica contro ogni dualismo, responsabile degli squilibri profondi dovuti al rifiuto dell’unità dell’essere corporale, intellettuale, affettivo e spirituale.

3.3. La danza per guarire

Il movimento può essere, dunque, un luogo privilegiato dell’educazione, perché grazie ad esso si agisce non tanto sui contenuti oggettivi di conoscenze, quanto piuttosto sui modelli inconsci che li sottendono. Ancor più: il movimento consapevole può essere uno strumento di terapia.

La saggezza dell’Oriente ha sempre insegnato che l’uomo può agire

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sullo psichismo modificando l’atteggiamento corporeo. La via occidentale passa attraverso la scoperta del significato espressivo del corpo in movimento. Dall’osservazione attenta del movimento rileviamo che ognuno di noi usa il proprio corpo e lo spazio attorno ad esso in modo idiosincratico, che è espressivo di come percepisce se stesso, gli altri e l’ambiente. Bambini e anziani, persone con disturbi fisici e handicappati mentali: ognuno configura le mosse in una combinazione propria di corpo-spazio-sforzo (cioè flusso energetico), che rivela uno specifico contenuto funzionale ed espressivo. Nel movimento è l’uomo totale — corpo, psiche, emozioni, spirito — che si esprime. Se si giunge a produrre un cambiamento nel comportamento del corpo, il cambiamento si riverbererà nel mondo psichico ed emotivo della persona. Su questa assunzione si fonda la «danzaterapia» 29.

Dopo timidi inizi negli anni ’50, la danzaterapia si è sviluppata vertiginosamente a partire dagli anni ’60. L’American Dance Therapy Association la definisce: «l’uso psicoterapeutico del movimento come processo che favorisce l’integrazione emotiva e fisica dell’individuo». I terapeuti che vi ricorrono sono animati dalla fiducia che è possibile raggiungere le emozioni delle persone mediante il potere eccitante, vivificante e calmante della danza. Le risorse della danza offrono sia un’espressività soggettiva e oggettiva, sia un’attività. Rendono possibile la proiezione delle emozioni nello spazio attraverso il corpo. I benefici terapeutici sono connessi alla fiducia in se stesso creata dall’esperienza di dar forma alle proprie strutture organiche nello spazio, nonché allo sviluppo della sensazione di essere accettati e sostenuti dal gruppo con cui si danza.

Quando si riconduce la danza alla sua matrice originaria, che è quella dei movimenti espressivi del corpo, la si sottrae ai giudizi moralistici che hanno voluto vedervi solo un’espressione di edonismo, e perciò l’hanno condannata come luogo od occasione di peccato. Oltre al carattere ludico, alla danza sono state tradizionalmente attribuite altre funzioni. Quella rituale-sociale, ad esempio: specialmente nelle danze folkloristiche, in

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cui il ritmo è il mediatore dell’incontro tra le persone 30. Alla danza è insito anche un carattere mistico-religioso, come si manifesta nelle culture che, a differenza dell’Occidente puritano, non l’hanno eliminata dal repertorio dei simboli con cui l’uomo tenta di dire l’indicibile 3131. La moderna riscoperta e accentuazione del carattere terapeutico della danza può costituire un centro, a partire dal quale si dispiega il significato polivalente di questo comportamento corporeo.

La «guarigione» che il movimento espressivo della danza favorisce non è solo quella dei disturbi emotivi e fisici, ma anche la restaurazione della capacità di percepire se stesso come una totalità integrata bio-psicospirituale. Al termine di questo cammino di rieducazione del corpo, che è anche un cammino di reintegrazione antropologica, potremo forse ritrovare la capacità di esprimere nella danza la pienezza dell’emozione religiosa, come il re David davanti all’Arca (cfr. 2 Sam 8,16).

3.4. Lo sport: vecchie e nuove pratiche

Lo sport è una delle manifestazioni più gloriose del potenziamento e trascendimento delle possibilità corporee che si possono ottenere con una adeguata disciplina. La pratica dello sport favorisce un’entusiastica sensazione di vivere; fa accedere a una forma superiore il gioco gioioso e ricreativo; contribuisce a un’armoniosa formazione fisica e psichica, cui si accompagnano importanti riflessi morali e spirituali (anche se l’originaria dimensione sacrale non si è potuta ripristinare neppure col nuovo «ideale olimpionico»).

L’etica cristiana ha da tempo affrontato in modo organico i problemi morali posti dallo sport. La sua posizione si articola sostanzialmente in due momenti: presentare e riconoscere i valori naturali espressi dalle

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pratiche sportive; criticare i limiti e le deformazioni di quei valori, alla luce della concezione personalista del corpo. Un autorevole contributo a questa linea è venuto dal magistero di Pio XII 32.

Gli sviluppi recenti dello sport agonistico hanno esasperato la manipolazione del corpo. Il campione viene «fabbricato» come un sofisticato prodotto di laboratorio, a cui si dedicano schiere di tecnici. La manipolazione è ormai totale in tutte le discipline sportive: da un lato si neutralizza la naturale spinta della natura (ritardando, per esempio, lo sviluppo e la crescita, per ottenere atlete che siano «adolescenti-bambine»), dall’altra la si ipertrofizza (ottenendo donne-maschio, ingigantite dai muscoli). L’aspetto fisico è devastato dalle manipolazioni, mediante sistemi di condizionamento chimico, biologico e fisiologico. Questa violazione della persona è ancora più grave della pratica del doping, cioè della battaglia per i primati fatta a colpi di sostanze proibite.

Al polo opposto troviamo il diffondersi delle pratiche sportive di massa. Queste vogliono reagire alla mercificazione a livello di spettacolo e di sport agonistico, rifiutando il culto del campione e dei primati. Positivamente, intendono contrastare l’assenza di qualsiasi pratica di attività motoria da parte dell’uomo moderno, che è indotto piuttosto a cercare divagazioni che non comportino sforzo e impegno. La mancanza di attività fisica è un segno dello stato di passività e di indifferenza che genera l’odierna civiltà; l’inerzia fisica è legata al cattivo umore e al pessimismo.

Il movimento può essere, dunque, un modo di ribellarsi agli idoli che la società impone. Anche se, a loro volta, queste nuove pratiche sportive difficilmente possono sottrarsi alle manipolazioni della moda. Con piena consapevolezza della sua ambiguità, possiamo considerare la moda della corsa venuta dagli Stati Uniti (dove è chiamata running o più spesso jogging). Viene lodata come la forma più semplice, più economica e più sana di sport. Ma da molti è vissuta come un’esperienza più ampia di una semplice pratica sportiva. Il correre regolarmente offre un valido aiuto su un duplice piano: fisiologico e psicologico. È un rimedio all’atrofia del nostro apparato motorio, che è una malattia della civiltà (l’umanità

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nella sua lunga evoluzione, ha vissuto per lo più quale «animale da corsa»; l’insieme della nostra biomeccanica e fisiologia è costruito sul movimento); fornisce perciò un’efficacia prevenzione di malattie, quali i disturbi circolatori e del ricambio e la dipendenza da sostanze eccitanti. Il vissuto emotivo, legato alla pratica regolare e intensiva della corsa, costituisce, inoltre, anche un prezioso aiuto psichico, correlato con una influenza sull’umore. Per molti che corrono regolarmente non si tratta solo di assolvere al «sacro dovere» di mantenere il corpo in forma per la concorrenza quotidiana. La corsa, permettendo il ristabilimento più veloce dell’equilibrio fisiologico, ha una funzione antistress, almeno quanto le diverse tecniche di rilassamento. Potenzia la vitalità, dando la sensazione di un accresciuto potenziale energetico; aumenta l’autostima e la sicurezza nelle proprie capacità 33. Una «Miracle Drug», dunque, la corsa? No: piuttosto, uno dei mezzi più semplici per collegare cura della salute e benessere psichico.

4. La ricerca del centro

4.1. L’uomo moderno ha perso il «centro»

Le formule che pretendono di fare la radiografia dell’anima di un’epoca sono spesso tanto più abusivamente semplificatrici, quanto più sono brillanti. Abbiamo, a ragione, imparato a diffidarne. Non si può negare, tuttavia, che talvolta prestino un utile servizio. Accentuano un tratto della complessa Gestalt che costituisce una cultura, magari facendone una chiave di lettura globale. Si può divergere sull’importanza da attribuire al fatto; la caratteristica individuata resta, peraltro, acquisita all’attenzione, e molto spesso al vocabolario. È quanto è successo con l’espressione «perdita del centro» quale categoria per comprendere il profondo rivolgimento da cui è nata la cultura moderna. L’espressione stessa si deve allo storico dell’arte Hans Sedlmayr, che ne ha fatto il titolo di un saggio famoso, in cui dall’esame delle opere d’arte nell’arco di tempo che va della fine del XVIII alla metà del nostro secolo ricava conclusioni relative alla rivoluzione avvenuta nella profondità del mondo spirituale 34. Ha usato l’arte come strumento per cogliere le caratteristiche

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di un’epoca adottando metodologicamente l’ipotesi che l’arte sia, per la storia delle comunità umane, ciò che il sogno di un uomo è per lo psichiatra. Nell’architettura, nella scultura e nella pittura le forme che recano il contrassegno del «moderno» dell’arte hanno come tratto caratteristico la «perdita del centro».

Nella diagnosi di Sedlmayr la «perdita del centro» costituisce il sintomo fondamentale, a cui vanno ricondotte diverse tendenze. Tra le principali, individuate dallo storico dell’arte che vuol essere al tempo stesso critico della storia spirituale dell’umanità: la polarizzazione, ovvero la tendenza verso gli estremi 35; la spiccata predilezione per tutto ciò che è inorganico, verso una «pietrificazione della vita» (E. Jünger); lo svincolarsi dalla base terrena, nell’architettura e nella pittura, così come in molti altri settori (la negazione della base è accompagnata dal subentrare di un senso di vertigine); la tendenza a eliminare la diversità tra «sopra» e «sotto» in arte, a cui fa riscontro quella ad appianare la differenza tra il super-razionale e il sub-razionale, a dissolvere l’idea di Dio nella natura, mentre l’idea dell’uomo si degrada in dimensioni subumane. Complessivamente, l’arte si allontana dal centro, diviene «eccentrica», perché l’uomo ha perduto il suo centro; l’arte si allontana dall’uomo, dall’umanità e dalla giusta misura, perché lentamente si è consumato l’antico patrimonio della tradizione umanista. Il movimento, che parte da una presa di posizione contro l’uomo e il suo mondo, prosegue con la discesa verso l’inorganico e verso il caos 36.

La «perdita del centro» come caratteristica dello spirito del nostro tempo può essere diagnosticata non solo in base alle opere d’arte, ma anche con altri strumenti delle scienze dell’uomo. Ritroviamo il quadro dell’uomo «decentrato» nella personalità che il sociologo Georg Simmel attribuisce all’abitante delle grandi città 37. La tensione data dalla lotta per l’affermazione della propria individualità rispetto al prevalere della cultura di massa si esprime nella tendenza a concentrarsi «al culmine». La vita metropolitana presuppone una consapevolezza eccezionale favorita dalla intensificazione delle stimolazioni nervose interne ed esterne, e una predominanza dell’intellettualità. E il raziocinio, osserva Simmel,

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«risiede nel livello più superficiale, trasparente e cosciente della psiche» 38. È un’altra forma di «decentramento», non spirituale ma psicologico; responsabile però anch’esso dell’impoverimento antropologico, a cui sono legate varie forme di malessere.

4.2. Il «corpo centrato» e il sacro

Se, come afferma Mircea Eliade, la costruzione di un «centro», quale luogo di rapporto privilegiato con il sacro, è un momento costitutivo dell’esperienza religiosa 39, la perdita del centro ha una ripercussione immediata sulla vita spirituale. Ma il centro da cui irradia il sacro non è solo quello ubicato nello spazio al di fuori dell’uomo, bensì soprattutto quello che coincide con il suo corpo. È questo il centro che è necessario riconquistare in modo prioritario. E la via è la preghiera.

Dal punto di vista della spiritualità cristiana, il nostro modo di pregare (silenzioso, intellettuale, volontaristico, e con la completa esclusione della partecipazione del corpo) è una singolarità che non ha precedenti. Più che un’espressione della tradizione, va considerato come un’invasione surrettizia di puritanesimo. Per contrasto, basti pensare alla tradizione della «preghiera pura» coltivata nella cristianità orientale dal movimento esicasta 40. Cercando di far «discendere» l’intelletto nel cuore, gli oranti miravano ad acquistare coscienza della presenza divina. Il mezzo privilegiato era considerato la «preghiera di Gesù» (l’invocazione: «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me»), ripetuta incessantemente, al ritmo stesso della respirazione. La «preghiera pura» è infatti tutt’altro che mentalismo rarefatto. Si serve di tecniche, come il controllo della respirazione, che hanno un impressionante parallelo nelle tecniche di concentrazione delle religioni asiatiche.

Anche la tradizione cattolica fino alle soglie dell’epoca moderna non conosce la diffidenza per il corpo nella preghiera. Sono note le indicazioni precise circa gli atteggiamenti del corpo che dà S. Ignazio negli «Esercizi spirituali».

Perfino la spiritualità domenicana, apparentemente così intellettuale,

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attribuisce un congruo posto al corpo. S. Tommaso (Summateol. II-II, q. 84, a. 2) insegna che la preghiera corporale è perfettamente valida e buona, anche se il nostro cuore e il nostro spirito non vi sono totalmente impegnati. La teologia dell’Aquinate beneficiava indirettamente del ricco insegnamento sulla preghiera corporale che S. Domenico stesso aveva lasciato in eredità al suo ordine. Ne dà testimonianza un documento redatto probabilmente dopo la sua morte: «Le nove maniere di pregare di San Domenico» 41. Al santo dobbiamo riconoscere una grande libertà e inventività del gesto. La sua preghiera comprende inchini profondi e lenti, prostrazioni, genuflessioni frequenti, l’abbandonarsi alle lacrime (che una lunga tradizione anche liturgica considera un dono), il tenersi «sulla punta dei piedi, le mani levate al cielo»... Riferendoci a questa tradizione, potremmo sentirci incoraggiati ad avere meno inibizioni nel muovere e nell’usare il corpo nella preghiera 42.

Oltre alla tradizione propria del cristianesimo, esistono in ambiti religiosi esperienze di preghiera corporea di valore universale. Tra le diverse tradizioni sono possibili influenze reciproche. Una delle novità più clamorose di questi ultimi anni è appunto la penetrazione in Occidente della meditazione orientale, specialmente nella forma assunta dal buddismo Zen, proveniente dal Giappone.

Lo Zen (il termine equivale a «concentrazione», «meditazione assisa») non è propriamente né una religione, né una filosofia. Fondamentalmente è un’esperienza personale ed esistenziale, non rappresentabile in termini discorsivi. L’illuminazione (in giapponese satori) è un’esperienza che fa toccare il fondo dell’essere. Tuttavia chi l’ha vissuta la presenta come la cosa più naturale, più rispondente alla natura dell’uomo. È una riconquista del significato elementare delle cose e di se stesso mediante un’adesione immediata all’oggetto, senza mediazione di concetti e parole. Presupposto per essere presi in questa esperienza è l’abbandono della guardia intellettuale.

Il movimento Zen fu introdotto in America verso la fine del secolo scorso e si è diffuso in centri di livello scientifico e universitario. Alan Watts ne fu il divulgatore principale e D.T. Suzuki uno dei maestri più ascoltati 43. Lo Zen divenne di moda all’epoca della generazione «beat».

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I giovani in rivolta nei confronti della convenzionale concezione scientifica dell’uomo e della natura pensarono di aver trovato nello Zen qualcosa di cui avevano bisogno e fecero libero uso di ciò che avevano capito di questa esotica tradizione. Forse quello che i giovani hanno preso per Zen ha scarse relazioni con la tradizione originale; ciò che essi ne trassero fu soprattutto un rifiuto di tutto ciò che è positivistico e cerebrale, in senso costrittivo 44.

In Europa, soprattutto in ambito tedesco, l’interesse per lo Zen ha avuto una motivazione specificamente religiosa. Mediato da P. Lasalle-Enomya e soprattutto K. Dürckheim, che hanno avuto un’iniziazione personale nei monasteri buddisti giapponesi, lo Zen è stato diffuso come una tecnica di meditazione perfettamente assimilabile da cristiani 45.

Anche a proposito della comprensione europea dello Zen andrebbe posta la questione di quanto corrisponda all’originale. Malgrado tutti i tentativi di concordismo, gli uomini religiosi dell’occidente restano coscienti che ciò che viene praticato in oriente e in occidente col nome di meditazione è profondamente diverso 46.

La meditatìo cristiana è un’attività spirituale che conduce dal mondo sperimentale a Dio che si rivela, alla sua parola e opera di salvezza. È essenzialmente religiosa e domanda una presenza attiva del soggetto, che riflette ed elabora (nella «contemplazione», invece, anch’essa tradizionale in occidente, il credente accede a un’intima, profonda pace, in atteggiamento di accoglienza). La meditazione buddista è invece «senza oggetto». Non è concentrazione di tipo meditativo; non è neppure contemplazione, poiché tende a mantenere la mente completamente vuota da ogni presenza conoscitivo-concettuale. L’effetto delle meditazione Zen è la sensazione della non-differenza fra l’io e il mondo esteriore. Spontaneamente, senza che vi abbia posto intenzione, il meditante vede crollare le barriere formali fra soggetto e oggetto, fra spirito e contenuto dello spirito, fra idea e cosa proiettata nell’idea.

Ciò che oggi, a seguito del fecondo influsso dello Zen, si diffonde tra

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i cristiani col nome di «meditazione», non coincide esattamente con quanto questo termine designa nelle rispettive tradizioni dell’oriente e dell’occidente. Dallo Zen si è presa la tecnica, dalla meditazione cristiana l’intenzione profonda. «Preparare l’uomo all’esperienza dell’Essere, aprirlo alla vita della metamorfosi mediante il contatto con l’Essere: tale è lo scopo di ogni pratica meditativa» (K. Dürckheim). Non dunque una ricerca di tipo razionale, una riflessione su un tema; ma neppure l’illuminazione orientale che denuncia l’io e il mondo come illusioni. Piuttosto una via esperienziale all’Assoluto, un cammino verso la «realtà seconda», come l’ha chiamata Balthazar Stähelin 47, vale a dire la coscienza di appartenere a ciò che non è finito. La meditazione consiste nel trovare un «centro» che renda la realtà seconda trasparente. Con la scoperta del vero centro è connesso un rapporto differente con se stesso, con gli altri e con il mondo; un altro stile di vita, un altro modo di essere: la meditazione è, dunque, un cammino di trasformazione. Il processo avviene in noi, nel nostro corpo, grazie al nostro corpo. Per questo, preferiamo dare a questa pratica il nome di «meditazione corporea». Vediamone ora gli elementi costitutivi.

4.3. La meditazione corporea

La meditazione è un processo che ci conduce al più intimo del nostro intimo, facendoci essere pienamente raccolti e pacifici in profondità. Lo stile di vita odierno è caratterizzato da un risucchio verso la periferia. Così il contatto con gli strati profondi della persona è compromesso. Il centro di gravitazione tende a spostarsi verso gli strati che ci rappresentiamo come superiori, vale a dire la ragione che pensa con chiarezza logica e la volontà intenzionale. È quanto idealmente localizziamo nella testa. Questo spostamento va a spese del contatto con gli strati più profondi, cioè quelli dell’esperienza vitale e dell’intuizione, dove non è più in questione la ragione o la testa, ma qualcosa che localizziamo più in basso 48.

La struttura psicologica dell’uomo metropolitano contemporaneo ha un riscontro propriamente fisiologico. La tendenza all’attività frenetica e alla realizzazione personale nelle prestazioni intellettuali e volitive si traduce in un particolare rapporto con il corpo. La percezione del corpo è atrofizzata. «Nella pratica, il senso meno sviluppato e che è invece il più utile per la personalità (ivi compresa la personalità morale) è il senso interno o propriocettivo. I cinque altri sensi lasciano allo spirito la possibilità

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di sfuggire, di assorbirsi o proiettarsi nell’oggetto visto, ascoltato, toccato, odorato o gustato. Mentre il senso interno, che non rivela che più o meno oscuramente il corpo in se stesso nella sua sostanza vivente, mette a dura prova l’intelligenza, ed è proprio questa prova che è salutare. Infatti la presenza effettiva al senso interno domanda al mio spirito di lasciare lo schermo mentale per dimenticarsi in qualche modo a vantaggio della sostanza diffusa nel volume delle mie membra e di tutto il mio corpo. Se riconosce sinceramente questa sostanza in se stessa, l’accetterà come irriducibile ai suoi concetti, benché intimamente associata all’unico soggetto che io sono. Sboccia qui un’umiltà fondamentale senza la quale nessun altro grado di umiltà sembra accessibile» 49.

Prendere il cammino dell’universo interiore, rompere il contatto con l’ambiente per raccogliersi in se stesso, concentrarsi per abbandonare le spiagge della vita inautentica, la superficie immediata dell’esistenza: tutto ciò è stato sempre inteso come l’essenza del processo meditativo. Quello che c’è di caratteristico nella meditazione influenzata dalle pratiche orientali è che tutto questo processo si condensa nella riappropriazione del centro naturale del corpo. Si è diffuso anche negli ambienti cristiani che praticano la meditazione corporea il termine giapponese con cui si designa tale centro ideale: hara. Di per sé la parola significa «ventre». Essa indica però un atteggiamento d’insieme, che comprende sia l’anima che il corpo, in cui il centro di gravitazione della persona sta nel ventre, le forze che trattengono l’uomo in alto sono in stato di relax, la profondità può esercitare il suo influsso riequilibratore e l’essere umano intero è aperto e disponibile per il contatto con il mistero dell’essere. Lo hara cresce nella meditazione, fino a diventare la disposizione abituale dell’uomo.

Lo strumento privilegiato per accedere a questo centro naturale del corpo e disporsi così all’evento meditativo è la tecnica del respiro. Anche questa è mutuata dalla tradizione orientale, dove alla respirazione è stata dedicata una cura che non trova riscontro nelle culture occidentali. La respirazione non è solo un processo fisiologico che assicura all’organismo la sua riserva di ossigeno, ma un fenomeno che coinvolge tutto l’uomo. È espressione dei processi psichici (le diverse modalità di respiro: affrettato o calmo, mozzo o sciolto, superficiale o ampio e profondo, sono legate a stati d’animo diversi); a sua volta il respiro può influenzare profondamente questi stessi processi psichici ed emotivi. La distorsione dell’equilibrio mediante la rottura con gli strati profondi e lo spostamento del centro di gravitazione verso la testa, di cui soffre la nostra cultura,

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si manifesta anche nella respirazione. Essa è bloccata inconsciamente nella parte superiore del corpo, creando un’ulteriore tensione. La respirazione toracica tende così a sostituire quella col diaframma. Questo muscolo, che è il grande mediatore del respiro profondo, cade nell’immobilità e si atrofizza. Il movimento di espirazione, di solito, non è condotto a termine: viene frenato, traducendo così un’angoscia viscerale, la paura di morire (di «spirare», appunto). Ciò impedisce di attendere la nuova inspirazione come un dono da ricevere con riconoscenza. Si «fa» la respirazione, invece di «lasciarla farsi». Questo modo di respirare è una manipolazione del movimento naturale della vita che raccoglie le nostre tensioni e fa ostacolo alla trasformazione. La respirazione toracica è l’espressione fisiologica del volere intenzionale, della volontà di autoaffermazione e dell’eccitazione permanente.

Il recupero della respirazione diaframmatica e del suo ritmo naturale permette di ricostruire i ponti con gli strati profondi dell’essere. Ritrovando le nostre radici, riannodiamo con quella parte di noi stessi che sfugge alla nostra volontà. Il modo di respirare di una persona traduce il suo atteggiamento generale di fronte alla vita. Quando la respirazione torna ad essere un abbandono armonioso alla natura col suo ritmo di morte e rinascita, si è posta la premessa per la trasformazione esistenziale a cui tende la meditazione. Si respira allora nel ventre — lo hara —, che è di fatto il centro geometrico del corpo. La respirazione diaframmatica comunica calma e fa essere se stesso in profondità. Respirazione, distensione, centro del corpo: aspetti diversi dell’unico processo che avviene nella meditazione corporea, cioè un cammino di trasformazione che porta alla nascita di una struttura (Gestalt) nuova.

Il giusto respiro mette in accordo con lo spirito della meditazione ed introduce ad essa. Per definizione, non si può spiegare verbalmente, facendo ricorso a un discorso razionale, l’esperienza che la meditazione rende possibile 50. Per avere almeno un’idea del processo interiore che viene messo in moto, ci si riferisce al ritmo quaternario chiamato «ruota della metamorfosi» (K. Dürckheim). Anch’esso è stato mutuato dal buddismo Zen.

Il ritmo quaternario è suggerito dal ritmo della respirazione. Quando questa non è deformata da tensioni psichiche e contrazioni fisiologiche, ma si svolge con naturalezza, il rapporto tra espirazione e inspirazione è di tre a uno (due tempi di espirazione, un tempo di pausa e un tempo d’inspirazione). Il processo interiore può essere favorito unendo mentalmente

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quattro tempi della respirazione delle parole che esprimono il significato dei diversi momenti che nell’intero cammino ciclico portano alla trasformazione.

Le parole suggerite dai maestri occidentali di meditazione Zen sono: «mi lascio», «discendo», «mi dono», «mi ricevo». Sono i quattro raggi il cui movimento costituisce la «ruota della metamorfosi». L’insieme realizza anche il ritmo binario di morte-nascita inscritto in ogni respirazione dell’essere vivente: ogni rivoluzione della ruota, ogni respirazione, contiene in sintesi tutta la densità del cammino che si estende per la vita intera. Mentre il corpo resta immobile, si tratta di entrare nel ritmo stesso del respiro, nel lento e profondo movimento del diaframma che va e viene. Il primo tempo è quello dell'espirazione, che induce a «lasciare la presa». Il respiro invita a lasciarsi in quanto persona, centrata e contratta nella parte superiore del corpo, installata in tutto un sistema di sicurezze artificiali, difese e paure, complessi, ruoli e maschere. Abbandonato il centro di gravità situato in alto, che imprigiona l’uomo nel cerchio del piccolo «io» col quale ci siamo identificati, ci si prepara ad essere invasi da una coscienza diversa, in cui l’atteggiamento fondamentale consiste non tanto nel «voler fare» quanto nel «lasciar fare». Accompagnando l’espirazione, la coscienza può scendere ancora più in basso, verso quel centro di gravitazione, situato nel bacino, che abbiamo chiamato hara. È il secondo tempo dell’espirazione («discendo»). L’espirazione, diretta dolcemente ma fermamente verso il basso, veicola le tensioni che traducono una mancanza di fiducia totale e di abbandono, la paura davanti alla vita. Spariscono le contrazioni localizzate nel bacino, traccia di innumerevoli repressioni. La sensazione di essere nello hara suscita un senso di forza diversa da quella che ha origine nella volontà, e genera progressivamente un altro atteggiamento vitale. Parlando dello hara, Dürckheim così descrive questo stato: «Tutto ciò che popola la forma di coscienza abituale è scomparso. Improvvisamente, ciò che era sentito come un vuoto spaventoso dell’io egocentrico diventa una pienezza che le parole non potrebbero esprimere e che penetra la persona intera, dandole forza, luce e calore» 51. È quanto vive il meditante nel vertice di distensione che costituisce il tempo di pausa tra l’espirazione e l’inspirazione. Il lasciarsi culmina con naturalezza nell’abbandono, nel dono completo di sé («mi dono»).

Il riflusso del respiro segue non più per comando della volontà, ma per forza propria. È la quarta fase. Come una nascita, la nuova inspirazione viene da sé, la si riceve come un dono; si riceve se stesso come un dono («mi ricevo»), E ciò senza abbandonare la posizione alla radice

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dell’essere, al centro della terra, raggiunta nella fase precedente di abbandono. Lasciando subito la presa, senza violenza, la «ruota della metamorfosi» si rimette in movimento. Con l’esercizio della meditazione, man mano che la distensione si approfondisce, il meditante si calerà maggiormente nel movimento, lasciandosene afferrare interamente.

Una questione è a questo punto inevitabile: la meditazione corporea ha un significato religioso o solo profano? È noto che nella tradizione orientale non si attribuisce alla meditazione un valore religioso, in quanto connesso con una fede e una rivelazione. In quell’ambito culturale la preoccupazione principale è quella di un’esperienza umana rettamente fondata nel centro dell’essere. In Giappone l’educazione tradizionale ha sviluppato, oltre alla meditazione, una quantità di esercizi — dal tiro dell’arco, all’arte di intrecciare i fiori (ikebana), alla cerimonia del thé — per consentire la giusta disposizione, cioè un’esistenza vissuta a partire dallo hara 52.

I mediatori occidentali della saggezza orientale hanno operato una reinterpretazione in senso religioso, sia naturalistico che propriamente soprannaturale. Hanno presentato la meditazione come un processo che permette di scoprire la trascendenza nel cuore stesso dell'immanenza, valorizzando al massimo il movimento di unificazione essenziale dell’essere che compie il meditante. Riscoprendo ciò che è più profondo in sé, l’uomo troverebbe la faccia che è permanentemente rivolta verso Dio.

Cristiani che esercitano la meditazione corporea testimoniano di attingervi un aiuto per vivere il proprio rapporto con Dio nel senso della fede cristiana. La meditazione può essere anche un’esperienza esistenziale rigorosa di unione col Cristo nella sua morte per aver parte alla sua risurrezione. Questa è la «ruota della metamorfosi» del cristiano. Da una visione esteriore del mistero essenziale della fede cristiana la meditazione fa accedere a una comprensione dall’interno. Una comprensione che non è data da una sapienza razionale e dialettica, bensì da una saggezza che va incontro alla rivelazione divina percorrendo la via del corpo, sulla traccia esile ma potente del soffio vitale. È la via che, in senso inverso, ha seguito Dio stesso nella rivelazione: «A noi Dio l’ha rivelato per

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mezzo dello Spirito (la «ruah», il soffio di vita). Lo Spirito infatti conosce tutto, anche i pensieri segreti di Dio. Nessuno può conoscere i pensieri segreti di un uomo: solo lo spirito che è dentro di lui può conoscerli. Allo stesso modo solo lo Spirito di Dio conosce i pensieri segreti di Dio» (1 Cor 2,10-11).

NOTE

1 Cfr. S. Acquaviva, In principio era il corpo, Roma 1977.

2 Una panoramica del ruolo che svolge il corpo nei diversi movimenti culturali del nostro tempo è fornita da S. Spinsanti, Il corpo nella cultura contemporanea, Brescia 1983.

3 La catechesi di Giovanni Paolo II sul corpo, concepita come un commento alla Genesi, è raccolta in un volumetto della collana «Magistero», ed. Paoline: Teologia del corpo, Roma 1982.

4 Giovanni Paolo II, Teologia del corpo, Roma 1982.

5 Da segnalare soprattutto l’opera di J. Money e della «Clinica per l’identità di genere» fondata alla Johns Hopkins University. Si è dedicato soprattutto allo studio di individui che mostrano una discordanza tra le varie componenti del sesso biologico, in particolare degli ermafroditi, che possiedono gli organi di ambedue i sessi. Nel presentare le acquisizioni scientifiche sul processo di acquisizione dell’identità sessuale e sulle sue disfunzioni seguiamo l’opera di J. Money e A.A. Ehrhardt, Uomo, Donna, Ragazzo, Ragazza, Milano 1976, concepita in una prospettiva interdisciplinare.

6 «La nostra percezione di noi stessi quali individui unici — della nostra identità — è l’essenza di noi medesimi, al cui centro sta la nostra percezione di noi medesimi quali maschi o femmine, vale a dire la nostra identità di genere. È l’àncora della nostra salute emozionale, presente nell’amore e nel gioco, nei rapporti con gli altri. La nostra identità di genere informa di sé tutto quanto facciamo e diciamo. La nostra comprensione di noi medesimi e degli altri è limitata dall’intendimento del significato che ha — per noi e per loro — ‘essere uomo o essere donna’»: J. Money e P. Tucker, Essere uomo, essere donna, Milano 1980, pp. 6 s.

7 «È prematuro attribuire tutti gli aspetti dell’identità di genere al periodo post-natale della differenziazione sessuale. Abbiamo però prove sufficienti, forniteci dall’ermafroditismo umano, per affermare che la maggior parte della differenziazione dell’identità di genere nell’uomo avviene durante il periodo post-natale. Ciò avverrebbe come nello sviluppo del linguaggio... I casi studiati erano costituiti da coppie di ermafroditi, identici dal punto di vista cromosomico e gonadico e per altre caratteristiche, ma discordanti per assegnazione del sesso, storia biografica e identità di genere. Il contrasto tra i due individui di ciascuna coppia, per quanto concerne il ruolo e identità di genere, è tale che difficilmente si riesce a comprendere che essi abbiano una situazione analoga di patologia sessuale»: J. Money e A.A. Ehrhardt, cit., pag. 35. Il confronto dimostra quanto sia determinante la fase post-natale nella differenziazione dell’identità di genere. Si potrebbe quasi dire che dalla stessa creta si può formare un uomo o una donna...

8 Le turbe dell’identità e dell’orientamento sessuali sono molto più frequenti tra gli uomini che tra le donne. Dagli studi comparativi di natura clinica e sociologica sull’incidenza dei disordini dell’identità sessuale risulta una proporzione di 3 o 4 maschi per una donna. Sono statistiche che riguardano sia i transessuali che gli omosessuali. Le parafilie, poi, sono distorsioni quasi esclusivamente maschili. È come se, per la natura, fosse un compito più difficile differenziare l’identità maschile rispetto a quella femminile. Qualunque sia la spiegazione che se ne voglia adottare, resta un fatto incontestabile là maggiore fragilità psicosessuale del maschio.

9 Per un’analisi delle conseguenze morali e giuridiche della nuova legislazione, cfr. G. Perico, Il fenomeno della transessualità. Rilievi clinici, giuridici e morali, in A. Bottani (ed.), Educazione alla sessualità, vol. II, Milano 1982, pp. 987-999.

10 La resistenza dei medici ad adire le richieste dei transessuali può ricevere una spiegazione anche dal biologismo che predomina nel mondo medico, rendendo così i sanitari incapaci di valutare in modo appropriato l’importanza dell’identità sessuale. I medici tendono a privilegiare la sessualità morfologico-ormonale. In tal modo si rischia di cadere sotto la tirannia delle gonadi.

11 Cfr. B. Häring, Omosessualità, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 19743, 682-688. Prevale attualmente nel discorso teologico la tendenza a evitare il ricorso alla nozione di legge naturale, a favore di una fondazione dei valori mediante categorie personaliste. Tuttavia l’uomo è, oltre che culturale per natura, anche «naturale per cultura», secondo l’espressione di E. Morin: con nuove giustificazioni culturali continua a riferirsi alla natura come fondamento stabile dell’essere e dei comportamenti.

12 Cfr. J. Money e P. Tucker, Essere uomo, essere donna, Milano 1980, p. 9. La funzione dello stereotipo sessuale viene considerata nell’ambito dell’identità di genere: «Allorché il nostro schema si adatta allo stereotipo, otteniamo il supporto della società per il nostro senso di identità, e per la stessa ragione un mutamento nello stereotipo fa stridere il senso che abbiamo di noi stessi. Come la colonna vertebrale, i nostri schemi dovrebbero essere abbastanza rigidi da sostenerci, ma anche abbastanza flessibili da permetterci di piegarci».

13 J.M. Aubert, La donna: antifemminismo e cristianesimo, Assisi 1976.

14 Per quanto riguarda la revisione dei ruoli sessuali in modo conforme alla proposta originaria di Gesù seguiamo H. Wolff, Gesù, la maschilità esemplare, Brescia 1979. È una rilettura del profilo psicosessuale di Gesù fatta sulla base della psicologia junghiana.

15 Un problema particolare, di recente emerso all’attenzione mondiale, è quello delle mutilazioni sessuali. Mentre quella maschile — la circoncisione — tende a perdere la sua valenza religiosa per essere adottata correntemente come misura igienica (specialmente negli Stati Uniti), le mutilazioni femminili sono denunciate come forme di tortura. Si tratta dell’eccisione del clitoride e dell’infibulazione, cioè la cucitura delle grandi labbra, destinata a preservare la verginità. Queste pratiche tradizionali, comuni in Africa dove 80 milioni di donne sono condannate ad essere eccise e/o infibulate, sono diventate note in Occidente in seguito all’immigrazione. Sono le donne stesse a domandare queste mutilazioni, perché senza di esse non vengono considerate appartenenti al gruppo sociale, e quindi non possono sposarsi. Non solo i musulmani, ma anche i cristiani (copti) e pagani praticano queste mutilazioni, di cui si conoscono male le radici lontane. Le mutilazioni genitali inflitte alle bambine non sono che la forma più visibile, più crudele e più traumatizzante dell’oppressione che pesa sulle donne da millenni. Affrontando questo problema nel 1958, l'Organizzazione Mondiale della Sanità si è dichiarata incompetente a risolverlo. Un seminario, organizzato a Karthoun nel 1979, sotto gli auspici dell’OMS, ha ribadito che le interdizioni si rivelano inefficaci. Alcuni paesi hanno legiferato invano contro le mutilazioni già da parecchi decenni. È necessaria una rieducazione in profondità, a cominciare dalle donne stesse. Perché tali campagne abbiano successo, bisogna che le pratiche mutilanti siano denunciate non in nome della libertà individuale, ma piuttosto della salute fisica e mentale.

16 V. EbinThe body decorated, London 1979.

17 «L’abito, benché spesso assurdo, produce piaceri che sovrastano il disagio e i disordini organici. Tutti i nostri tentativi di superare questa ossessione, razionalizzando la natura dell’abito, sono falliti. L’utilitarista vede nell’abito niente altro che una protezione dagli elementi, benché l’esempio di razze che sfidano i rigori di un clima freddo senza il beneficio di vestiti tende a screditare questa credenza. Ugualmente insostenibile è l’argomento che l’abitudine di portare dei vestiti sia dovuta alla modestia. Basta ricordare che diverse tribù nude indossano abiti solo per danze il cui scopo sia di eccitare la passione del sesso opposto. L’ornamento non aiuta a proteggere o a celare il corpo. Al contrario: sottolinea la sua nudità»: B. Rudofsky, The unfashionable human body, London 1972 (tr. it., Il corpo incompiuto, Milano 1975). Cfr. M.A. Descamps, Le nu et le vêtement, Paris 1974; T. Goffi, Corporeità, in: Trattato di etica teologica, EDB, Bologna 1981, v. II, 337-400.

18 La decorazione del corpo non è del tutto scomparsa neppure in Occidente, anche se è ispirata da motivazioni più sofisticate che presso le società primitive. Così gli artisti della body-art usano il corpo umano come tela, scultura, scena; il corpo è esibito, truccato, dipinto, travestito, sfregiato; volti e gesti vengono impiegati per esprimere umiliazioni, estasi, solitudini, orrori. È un’arte che vuol comunicare soprattutto un’azione critica contro la società. La stessa finalità è rintracciabile nella moda «punk», ostentata provocatoriamente da alcuni gruppi di giovani.

19 Cfr. G. Dorfles, Moda e modi, Milano 1980.

20 Cfr. B. Häring, La legge di Cristo, vol. II, Brescia 1962, pp. 525-527. Häring, considera benevolmente, con la solita moderazione, l’osservanza della moda e la cura del corpo, purché siano osservati i «giusti limiti rispetto al troppo o al troppo poco» e il motivo sia onesto («spesso solo l’intenzione e la disposizione d’animo rendono veramente pericolosa una moda di per sé indifferente o poco colpevole»).

21 «Dopo la perdita dell'innocenza nel paradiso terrestre, la nudità non può ormai considerarsi del tutto innocua (cfr. Gen 2,25); e precisamente, la moderna esibizione del nudo nel campo della moda, dell’arte, dei divertimenti e nello sport, come nei film e nelle danze, è tutt’altro che intesa a fini innocui. Essa è seduzione e forma di idolatria; ma rappresenta, in realtà, una degradazione, che deruba il corpo del pudore e della sua vera bellezza, essenziale emanazione dello spirito»: B. Häring, La legge di Cristo, vol. III, Brescia 1963, p. 264.

22 Per un’analisi delle diverse immagini del corpo usate dalla pubblicità, cfr. J. Milfort, «Le corps dans la pubblicité», in W. Pasini, Eros et changement, Paris 1981, pp. 37-48. Vedi anche M. Metoudi, La femme pubblicitaire: sport et chinchila, in Esprit, N. 62 (febbraio 1982), 34-50. Per una documentazione del trattamento che riceve l’immagine del corpo nella civiltà di massa, cfr. N. Aspesi - L. Tornabuoni, Corpo a corpo, Milano 1978: il volume illustra, con materiali figurativi e scritti, i fenomeni e le contraddizioni della riscoperta del corpo nel costume italiano contemporaneo.

23 Non è necessario volere, a tutti i costi, trovare giustificazioni spirituali ad asceti dediti alle pratiche più fantasiose di mortificazione del corpo. Alcuni comportamenti confinano inequivocabilmente con la psicopatologia. Qualche apologeta preferisce, invece, classificarli come «eccezionali», piuttosto che «anormali», ritenendo che sia necessario che all’orizzonte della chiesa si levino, di tanto in tanto, quei giganti dell’ascesi che, benché ancora nella carne, sembrano non esservi più; preferiscono vedere in certe forme esasperate di ascesi corporea un’espressione della «follia della croce» che sfida la follia del mondo: cfr. D. Gorce, Corps (spiritualité et hygiène), in Dictionn. de Spirit. II-2, Paris 1953, c. 2343.

24 Cfr. la concezione tantrica del «corpo sottile», divulgata in Occidente dalla teosofia: il corpo fisico sarebbe solo la esteriorizzazione di un’invisibile incorporazione della vita psichica; anche il «corpo sottile» sarebbe di ordine materiale, ma di una natura più dinamica della sua cornice fisica sensibile: cfr. G.R.S. Mead, The doctrine of the subtle body in Western tradition, London 1967. Un’esposizione molto informativa sull’insieme delle dottrine esoteriche sul corpo è fornita da D.T. Tansley, The subtle body, London 1977.

25 I vertici di maggiore alienazione furono raggiunti con il successo arriso nella seconda metà dell’Ottocento all’opera di Schreber, medico e studioso di pedagogia. Egli pensava che i suoi tempi fossero moralmente fiacchi e in decadenza a causa soprattutto della debolezza che caratterizzava l’educazione e la disciplina dei bambini. A suo avviso, niente è più importante in un bambino dell’obbedienza e della disciplina, a cominciare da quella che consiste nell'imporre determinate posizioni del corpo. Escogitò strumenti «correttivi», per «domare le cattive abitudini», simili piuttosto a strumenti di tortura: cfr. documentazione in M. Schatzman, La famiglia che uccide, Milano 1973.

26 La formula, che ha occupato l’universo pedagogico per diversi decenni, risale a G. Herbert, L’education physique, virile et morale per la méthode naturelle, Paris 1936.

27 Il termine, coniato da Therèse Bertherat (Guarire con l’antiginnastica, Milano 1978) è, per sua stessa ammissione, inadeguato; evoca solo imperfettamente i metodi «naturali» ai quali fanno ricorso coloro che considerano il corpo come un’unità indissolubile. Ancor meno lascia intendere quanto di positivo viene affermato sull’uomo: l’equazione pratica tra il corpo di un essere e la sua vita; l’incapacità di vivere in pienezza, se prima non sono state risvegliate le zone morte del corpo e tolte le corazze muscolari. Sotto il termine riduttivo di «antiginnastica» si nasconde il progetta utopico di un’educazione alternativa alla corporeità, che porti all’equiparazione vissuta tra «essere corpo» ed «essere»: «Prendere coscienza del proprio corpo è accedere a tutto il proprio essere... poiché corpo e anima, psiche e fisico, e anche forza e debolezza, rappresentano non la dualità dell’essere, ma la sua unità».

L’insieme delle tecniche che usano movimenti liberi e coscienti per riconciliare il corpo con le proprie leggi ha preso più appropriatamente il nome di «ginnastiche dolci». Ampia documentazione in M.-T. Houareau, Ginnastiche dolci, Como 1981.

28 È il titolo di un volume di J. Le Boulch, Verso una scienza del movimento umano. Introduzione alla psicocinetica, Roma 1975. Le Boulch e P. Vayer sono i due corifei del movimento. Pur lavorando in campi differenti e con mezzi differenti, concordano nell’affermare che, nella presenza al mondo, l’uomo ha nel corpo un riferimento permanente; di conseguenza, l’educazione dell’essere attraverso il suo corpo costituisce la chiave di volta di ogni azione educativa o rieducativa. Cfr. anche A. Maigre - J. Destrooper, L’educazione psicomotoria, Roma 1978 e J. Berge, Vivre son corps. Pour une pédagogie du mouvement, Paris 1975.

29 Mutuiamo le riflessioni sulla funzione espressiva del movimento dal volume di I. Bartenieff, Body Movement: Coping with the Environment, New York 1980. La base dottrinale è costituita dall’insegnamento del coreografo e filosofo Rudolf Laban (1879-1958), un educatore estremamente innovativo e carismatico. Partecipò alle maggiori attività artistiche europee, specialmente allo sviluppo della danza moderna. Osservò il processo del movimento in tutti gli aspetti della vita: arti marziali, lavoro in fabbrica, modelli ritmici delle danze popolari, comportamento di persone con disturbi emotivi. Creò un sistema di notazione per i movimenti del corpo analogo a quello delle notazioni musicali («Laban-analysis»). Sulla sua scia Alan Lomax, insieme a I. Bartenieff, ha studiato e sistematizzato gli stili di movimento delle diverse culture. Dai princìpi di Laban si è sviluppata anche la «dance therapy». Nel 1966 il «Laban Institute» tenne la sua prima conferenza sul «Movimento come terapia», nell’ambito della quale venne esplorata la possibilità di usare la terapia del movimento con bambini e adulti affetti da disturbi emotivi.

30 Fino a non molto tempo fa bisognava ricorrere a culture primitive ed esotiche per osservare la funzione sociale della danza. Attualmente la danza tende ad acquistare nella società moderna la funzione che ha avuto e ha tutt’ora in altre culture meno meccanizzate e meno oppresse dal senso di colpa: «Gli uomini e le donne, sia giovani che vecchi, hanno scoperto che prender parte a un’attività di danza non è riservato ai danzatori professionisti, ma che tutti vi possono trovare lo stimolo a un rinnovamento della vita, un impulso all’azione creativa e una migliore comprensione della complessa realtà della natura umana, attraverso un agire concreto»: F. Boas (e altri), La funzione sociale della danza, Milano 1981, p. 4.

31 «E che cos’è questa febbre, capace di afferrare e agitare fino alla frenesia ogni creatura, se non la manifestazione, spesso esplosiva, dell'Istinto di Vita, che non aspira che a rigettare tutta la dualità del temporale, per ritrovare d’un tratto l’unità primeva, in cui corpi e anime, creatore e creazione, visibile e invisibile si ritrovano e si saldano, al di fuori del tempo, in un’unica estasi. La danza proclama e celebra l’identificazione all’imperituro»: Danse, in I. Chevalier - A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, Paris 1982.

32 Cfr. L. Gedda, Lo sport nella parola di Pio XII, Roma 1953. Secondo Pio XII, «vi sono virtù naturali e cristiane, senza di cui lo sport non può evolversi sanamente, mentre sprofonda inevitabilmente in un materialismo angusto, sufficiente a se stesso». In un’allocuzione sull’educazione sportiva mette in guardia dall’esagerazione e «dall’errore che ritiene illimitato il diritto di disporre del proprio corpo, esponendolo per conseguenza a pericoli evidenti e a sforzi eccessivi o introducendovi, allo scopo di ottenere prestazioni non consentite dalle proprie forze, sostanze gravemente dannose, quali i forti stimolanti, che non solo cagionano all’organismo danni forse irreparabili, ma dagli stessi arbitri sono giudicate un dolo». Troviamo in questa impostazione le linee portanti della valutazione dello sport che darà la teologia morale cattolica: vedi la voce «Sport» in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 19743, a cura di G. Perigo.

33 La letteratura sulla pratica del correre — e sui suoi risvolti fisici, psicologici e spirituali — è abbondante. Si veda: J. FixThe Complete Book of Running, New York 1977; B. Glover - J. ShepherdJogging. Laufen als neue Bewegungstherapie, München 1979; M. SteffnyLebens-Lauf, Laufen als neue Erfahrung mit Körper und Psyche, Köln 1979.

34 H. Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli diciannovesimo e ventesimo come sintomo e simbolo di un’epoca, Milano 1974.

35 «Intelletto e sentimento, intelletto e istinto, fede e sapere, cuore e testa, anima e spirito vengono violentemente scissi gli uni dagli altri e si dichiarano avversari. Il desiderio di tenerli uniti, e anche la moderazione, vengono banditi, perché considerati come un sintomo che denota tiepidezza»: H. Sedlmayr, ibi, p. 193.

36 «Non c’è dubbio che lo spirito moderno si sia abbandonato in questa sfera del caotico non meno profondamente di quanto non l’abbia fatto in quella dell’inorganico. Ed esso può farlo solo perché contiene in sé gli organi e le capacità sostanzialmente affini a quel mondo, che è il più basso di tutti i mondi immaginabili», ibi, p. 216.

37 G. Simmel, Die Grossstadt, trad. it. in G. Martinotti, Città e analisi sociologica, Padova 1968, p. 275.

38 Un’analisi aggiornata della psicologia dell’abitante delle grandi città è quella dovuta a W. Hellpach, L’uomo della metropoli, Milano 1960. Come caratteristiche psichiche principali egli indica: la rapidità e la fretta; la vigilanza sensoria (necessaria per una reazione rapida e precisa alle esigenze della vita urbana); l’indifferenza emotiva.

39 M. Eliade, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Milano 1981.

40 L’esicasmo deriva dal greco «hesychia», cioè: silenzio, pace dell’unione con Dio. Sulla pratica della «preghiera di Gesù, una delle più care alla spiritualità orientale russa, in particolare, si veda: «Un monaco della chiesa orientale»: La preghiera di Gesù. Genesi, sviluppo e pratica nella tradizione bizantino-slava, Brescia 1964.

41 La documentazione è fornita da S. Tugwell, Le corps dans le prière, in La vie spirituelle, 56 (1974), pp. 879-887.

42 Si veda, in questo senso, G. Moroni, Il corpo e la preghiera, Bologna 1976. Il libretto presenta esercizi pratici individuali e collettivi per una ricerca delle condizioni corporee e mentali per accogliere la preghiera. Suo presupposto è che tutto ciò che viene vissuto dalla persona nella sfera più intima viene recepito a livello fisico e che, viceversa, il corpo impone la sua presenza a ogni manifestazione, anche la più spirituale.

43 Tra le opere più qualificate sullo Zen, A. Watts, La via dello Zen, Milano 1959; D.T. Suzuki, Zen Buddhism, New York 1956. Bibliografia esauriente in Enciclopedia delle Religioni, vol. VI, Firenze 1970, pp. 354-356.

44 Tale è il giudizio di Th. Roszak, La nascita di una controcultura, cit., pp. 149-154.

45 K. DürckheimAlltag als Übung, Bern-Stuttgart, 1962; Id., HaraDie Erdmitte des Menschen, Weilheim 1964; Id., Zen und Wir, Weilheim 1961; Enomya-LasalleZen, Weg zur Eleuchtung, Wien 1960; Id., Zen Buddhismus, Köln 1966; Id., Zen-Medita- tion für Christen, Weilheim 1969. Sui rapporti tra Zen e cristianesimo, cfr. anche: H. DumoulinDialogo con il Buddismo Zen, in Concilium, 3 (1967/9), pp. 167-185; W. JohnstonDialogo con lo Zen, in Concilium, 5 (1969), pp. 1829-1839; T. Merton, Mystics and Zen masters, New York 1967; D.T. SuzukiMysticism, Cristian and Buddhist, London e New York 1957.

46 Cfr. H. Waldenfels, Meditazione: est e ovest, Brescia 1977.

47 B. Stähelin, Essere o avere. Diario metafisico, Roma 1966.

48 Questo quadro corrisponde, grosso modo, alla personalità che il sociologo G. Simmel attribuiva all’abitante delle grandi città.

49 A.M. Besnard, Tu m’as façonné un corps, in Le vie spirituelle, 56 (1974), p. 815.

50 Oltre all’indispensabile guida di un maestro, si può fare ricorso a guide e manuali, che già cominciano ad essere numerosi. Ci limitiamo a segnalare: K. Tillmann, Guida alla meditazione, Brescia 1975 e gli articoli di A. Goettlieb in Temps et paroles.

51 K. DürckheimHara. Die Erdmitte des Menschen, cit.

52 Una fonte esauriente di notizie sullo hara è il libro di Dürckheim dedicato all’argomento. Lo hara stesso vi è così definito: «Il possesso di quella disposizione generale dell’uomo che lo mette in grado di aprirsi alle forze e all’unità della vita originaria e di mostrarle nel dominare, dare un senso e portare a compimento la propria vita. Ciò che si oppone più tenacemente all’acquisizione della forza dal centro è il restare attaccato all’io, il quale con la propria ostinazione disturba la nascita di un vero potere. Solo quando si riesce a escludere l’intrusione dell’io si produce la prestazione perfetta, in quanto frutto di una maturazione interna. La ragione non è più necessaria, la volontà tace, il cuore è diventato silenzioso: con felice sicurezza l’uomo agisce senza il proprio intervento».