Quando l’ospedale è meglio della casa

Sandro Spinsanti

QUANDO L'OSPEDALE È MEGLIO DELLA CASA: UNA VALUTA-ZIONE ETICA

in Quaderni di cure palliative

anno 4, gennaio-marzo 1996, pp. 51-53

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Scegliere lo scenario per la cura e l’assistenza dei malati destinatari delle cure palliative è un nodo decisionale molto delicato. L’ospedale o il domicilio? Dalla scelta dipendono sviluppi di grande importanza, con ricadute sia sulla quantità di vita che si può fornire al malato, sia sulla qualità della stessa. Se all’etica non attribuiamo solo un carattere esortativo-predicatorio, ma anche una funzione di aiuto nella scelta tra le alternative, possiamo e dobbiamo chiederle di guidare in forma metodica la decisione relativa all’ambiente migliore per assistere il malato nella fase finale della sua vita.

Intuitivamente comprendiamo che un luogo può essere “migliore”, cioè più appropriato, dell’altro. Dall’etica ci aspettiamo che ci aiuti a ragionare valutando in che cosa consista il “meglio”. Per procedere in forma schematica, sottoponiamo la scelta preferenziale a due interrogativi: meglio per chi? E: meglio rispetto a che cosa?

Il primo aspetto rimanda piuttosto agli aspetti procedurali dell’etica (chi deve prendere la decisione? quali parti in causa hanno diritto di far valere le proprie esigenze? in caso di conflitto, gli interessi di chi hanno diritto di priorità?). Il secondo interrogativo ci orienta verso gli aspetti sostantivi nell’etica, cioè i valori che le scelte intendono tutelare.

Interessi in conflitto

Sembra ovvio che quando ci si domanda se sia meglio l’ospedale o la casa per assistere il malato nella fase terminale si pensi al suo bene. Così è, così deve essere. L’etica medica tradizionale ha affidato in particolare al medico il ruolo di “avvocato” del malato, sapendo che questi si trova in una condizione di fragilità da cui altri potrebbero trarre un indebito vantaggio. Perché intorno al letto di un malato ― soprattutto di un malato cosiddetto “terminale” ― si addensano numerosi interessi, che possono entrare in conflitto.

I familiari, ai quali spesso spetta la decisione finale sull’alternativa tra casa e ospedale, portano nella scelta motivazioni e interessi diversi, senza escludere quelli che pescano nel torbido. La famiglia, che magari ha assicurato un’assistenza logorante per un tempo lunghissimo, potrebbe propendere per una soluzione che acceleri la fine. Oppure potrebbe volere, sempre per motivi poco nobili, proprio il contrario.

Il signor Francesco, 93 anni, da mesi sta andando verso la fine. È assistito a casa da una signora molto più giovane, che nel corso degli anni da infermiera è diventata sua convivente. Non hanno mai celebrato le nozze, per una promessa che il signor Francesco aveva fatto, molti anni addietro, a sua moglie sul letto di morte, che non si sarebbe più risposato. Tuttavia i parenti sanno che parte consistente del notevole patrimonio è destinata nel testamento alla convivente. I nipoti iniziano una causa per far dichiarare il signor Francesco incapace dì intendere e di volere, con l’intento di contestare il testamento. L’udienza è fissata per metà gennaio. Poco prima di Natale, l’anziano malato sta declinando rapidamente, a casa, dove ha sempre voluto restare, assistito dalla convivente, che ha organizzato un servizio infermieristico 24 ore su 24.

I nipoti accusano la donna di non fare quanto era medicalmente appropriato per il malato. Fanno pressione sul medico di famiglia perché sia trasferito nell’ospedale della cittadina dove risiede. La convivente non può opporsi, per non destare sospetti, e deve accettare un trasferimento straziante per il vecchio, che è ancora lucido. In ospedale le condizioni peggiorano. I parenti, preoccupati che il malato non possa farcela per l’udienza di metà gennaio, brigano perché sia trasferito in un grande ospedale di una città vicina, che è dotato del servizio di rianimazione. Arrivano anche a offrire una somma consistente al primario della rianimazione, perché lo accetti e lo tenga in vita fino all’udienza. Il primario rifiuta, sdegnato. Il signor Francesco riesce a morire nei primi giorni di gennaio.

Anche senza essere così spudoratamente disonesti, gli interessi della famiglia possono essere in rotta di collisione con il miglior interesse del malato. Oggi, in epoca di ospedali resi responsabili dei bilanci e di sanità confrontata con i vincoli dell’economia, il medico ― e i familiari ― potrebbero trovarsi a dover difendere il malato da chi vorrebbe dimetterlo dall’ospedale, perché curarlo a casa è meno dispendioso per l’”azienda”. Il malato va tutelato nei confronti di interpretazioni ragioneristiche dei DRG, che potrebbero portare a utilizzare le modalità di pagamento a tariffa contro l’interesse del malato ad avere le cure appropriate, nel luogo appropriato. La

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tutela del malato dalle misure restrittive che derivano dall’attuale “scarsità fiscale” costituisce una attualizzazione nuova di quella “avvocatura” che è parte essenziale dell’etica medica di ieri e di sempre.

Le scelte

La scelta tra gli interessi delle parti in causa non è sempre un processo lineare. Esistono, infatti, dei legittimi diritti, sia dei familiari che dalla società, che possono porre dei limiti al diritto del malato stesso che si faccia per lui tutto il possibile. Al caso clinico precedente, tratto dall’esperienza vissuta, accostiamo un riferimento letterario, che sa cogliere in modo drammatico il conflitto tra i diritti dei vivi e i diritti dei morenti, che si ripercuote sulle scelte cliniche. Lo attingiamo da La montagna incantata di Thomas Mann 1. Lo scenario è quello del Berghof, un sanatorio dove sono curati i malati di tubercolosi; date le limitate capacità terapeutiche dell’epoca, spesso l’esito della malattia era il decesso. Uno di coloro che sono arrivati al capolinea è un gentiluomo austriaco. Una infermiera spiega a due altri ospiti del sanatorio la situazione:

Da un pezzo aveva dato prova di essere un gentiluomo tenace, ma negli ultimi tempi nessuno riusciva a capire con che cosa respirasse; vero è che da qualche giorno si teneva su con enormi quantità di ossigeno e solo nelle ultime ventiquattro ore aveva consumato la bellezza di quaranta bombole da sei franchi l’una. Era una grossa spesa, come i signori potevano calcolare, senza dire che la moglie, tra le cui braccia era deceduto, era assolutamente priva di mezzi”.

Questa scelta suscita la vivace disapprovazione di uno dei malati: ”A che scopo prolungare la tortura e quella costosa vita artificiale in un caso del tutto disperato? Certo, non c’era da prendersela con lui se aveva consumato alla cieca il prezioso gas vitale, considerando che glielo avevano imposto. I curanti avrebbero invece dovuto essere più ragionevoli e lasciarlo andare in santa pace per il suo inevitabile cammino, prescindendo dalla condizione finanziaria o anzi tenendone conto. Anche i vivi hanno i loro diritti”.

In notevole anticipo sui tempi ― il romanzo è apparso nel 1924 ― Thomas Mann ha colto un conflitto di interessi tra le parti in causa nella allocazione delle risorse, che avrebbe reso sempre più difficili le decisioni cliniche sul finire del secolo. Ci ricorda che la decisione clinica va collocata concretamente in un contesto fatto di rapporti affettivi, legami, conflitti; il bene del malato non può essere isolato dal bene della famiglia e, essendo spesso il malato in queste condizioni incapace di prendere le decisioni per se stesso, dalle interpretazioni che i familiari sono costretti a fare del suo bene.

Anche la considerazione degli interessi della società può essere soggetta a un’interpretazione positiva. Le cure “futili” ― in quanto il gradimento del malato non compensa i notevoli costi per la società, che ha a disposizione solo risorse limitate per la sanità ― non superano la prova della “appropriatezza sociale”. Il bene dell’individuo e il bene della società non possono ignorarsi reciprocamente, ma vanno opportunamente bilanciati.

I principi

Per quanto riguarda gli aspetti procedurali dell’etica, un prezioso aiuto è offerto dai principi, elaborati dalla bioetica americana. Si tratta degli ormai celebri principi di beneficità (beneficence), non maleficità, autonomia e giustizia. Le scelte, comprese quelle relative al luogo dove concludere la vita, vanno confrontate con l’orientamento condiviso costituito dai principi. Dobbiamo domandarci, in altre parole, se la scelta del domicilio o dell’ospedale faccia il bene del malato (beneficence), non gli procuri un danno (“non maleficità”), rispetti la sua decisione autonoma e sia in accordo con le esigenze della equità. Un apporto ulteriore alla bioetica dei principi è stato offerto da Diego Gracia, il quale ha proposto una gerarchizzazione tra i principi stessi 2. Ciò vuol dire che, quando entrano in conflitto, prevale il principio gerarchicamente più alto.

Al primo posto devono essere collocati i due principi della “non maleficità” e della giustizia. Questi dipendono dalla convinzione generale che tutti gli esseri umani devono essere trattati con uguale considerazione e rispetto. I comportamenti collegati a questi principi non dipendono direttamente dalla volontà delle persone. Non possiamo fare del male a qualcuno, anche se ce lo chiede. Lo stesso avviene con la giustizia: sul piano sociale si commette un’ingiustizia quando le persone non vengono trattate con uguale considerazione e rispetto, qualunque siano le loro preferenze soggettive. Gli obblighi della “non maleficità” e della giustizia si possono stabilire non criteri universali e comuni, che valgono per tutti, e vincolano indipendentemente dalla volontà delle persone.

Il principio di autonomia, invece, richiede che i valori e le preferenze delle persone siano rispettati. Per quanto importante sia, gerarchicamente è inferiore alle esigenze della “non maleficità” e della giustizia. Il principio di beneficità, a sua volta, richiede che il bene (beneficence) sia riferito alla situazione concreta di una persona, a ciò che nella sua valutazione corrisponde a un valore: non si può fare del bene a un altro contro la sua volontà, benché siamo obbligati a non fargli del male anche se, per assurdo, lo desiderasse.

Nel sistema etico proposto da Diego Gracia il livello in cui l’azione è retta dai principi di “non maleficità” e di giustizia corrisponde all’”etica del minimo”, alla quale siamo obbligati tutti per forza superiore; il livello ispirato alla beneficità e controllato dalla “autonomia” dell’individuo corrisponde all’"etica del massimo”. Quest’ultima dipende dal sistema di valori personali,

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dagli ideali di perfezione e felicità che abbiamo fatto nostri. Una è l’etica del dovere, l’altra è l’etica della felicità.

Le decisioni del paziente

I valori e le preferenze del paziente hanno un grande peso quando la decisione relativa allo scenario delle cure ― l’abitazione, l’ospedale, l'hospice, la RSA? ― incide sull’ideale di “buona vita” a cui la persona tende. Da questo punto di vista, nessuno è più in grado del paziente stesso di decidere quale sia “il meglio” per lui. La situazione familiare, l’articolazione personale della speranza, i legami residui, il grado di evoluzione spirituale realizzata, la tollerabilità dei sintomi sono altrettante variabili che rendono “migliore” l’uno o l’altro ambiente.

Questa prospettiva, che attribuisce pieno rilievo alla “beneficità” del trattamento così come è percepita dal paziente stesso, costringe il sanitario a rimettere in discussione la prospettiva tipica dell’etica medica tradizionale, che identifica nel prolungamento della vita l’unico bene da perseguire. L’etica medica, centrata sulla difesa del “minimo morale”, ha piuttosto valore di controllo e di tutela dagli abusi; la bioetica, che promuove l’autonomia e l’autodeterminazione, è l’orizzonte proprio della modernità. L’una non può far a meno dell’altra, se vogliamo procedere verso la giusta decisione.

BIBLIOGRAFIA

1  Mann T., La montagna incantata, Ed. Corbaccio, Milano 1992.

2  Gracia D., Fondamenti di bioetica, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.