Céline, o del disincanto davanti alla morte

MEDICINA E LETTERATURA

a cura di Sandro Spinsanti

in Le raccolte di Janus

Zadig Editore, Roma 2009

pp. 65-69

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 CÉLINE, O DEL DISINCANTO DAVANTI ALLA MORTE

Una citazione tratta da uno scritto di Céline ha fornito lo spunto a Rossana Celegato per riflettere, in “Vestire la nudità della morte” (Janus 30), sulla propria esperienza professionale di psicoLoga che si trova ad accompagnare dei morenti nell’ultima tappa del loro percorso.

Nel romanzo Da un castello all’altro, Céline descriveva il comportamento di una cagna sul punto di morire. La sua agonia era l’occasione per ritrovare, istintivamente, un rapporto spontaneo con la natura; la si poteva ammirare nella sua morte elegante, senza “tralalà”, all’opposto della scenografia che costruiscono molti esseri umani per “rivestire” la propria morte. Il polo opposto al morire senza “tralalà” è il ruolo da attori che, consciamente o meno, assumono uomini e donne determinati a fare della propria morte un palcoscenico. Come esempio letterario Rossana Celegato citava la protagonista del dramma di Pirandello Vestire gli ignudi; si potrebbe aggiungere, per attingere all’attualità, l'ormai celebre Ultima lezione del professor Randy Pausch, uno dei video più cliccati su internet.

Il riferimento a Céline è troppo ricco per essere limitato a una battuta di colore. Céline non è solo lo scrittore maledetto e controverso specializzato nella provocazione: la sua opera segna il Ventesimo secolo e non cessa di ripagare chi ci si confronta. In particolare il suo primo e dirompente romanzo, Viaggio al termine della notte, apparso nel 1932, merita una rilettura alla luce dell’interrogativo: come morire?

Questa domanda si accompagna all’altra: come stare vicino a chi muore? A Céline stava a cuore questo interrogativo non solo come essere umano, ma come medico. Nel periodo in cui scriveva il Viaggio, in quei cinque disperatissimi anni che avevano fatto seguito alla sua partecipazione alla prima guerra mondiale, alle esperienze

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nell’Africa dei colonizzatori e nell’America delle fabbriche organizzate come catene di montaggio, Céline esercitava come medico nella desolata periferia di Parigi: lavorava al dispensario di Clichy.

Due infiniti da incubo

Céline si era laureato in medicina con una tesi letteraria: la ricostruzione storica della vicenda di Ignác Semmelweis, il medico che a Vienna aveva individuato la causa della febbre puerperale che falcidiava le partorienti. Semmelweis aveva scoperto che erano gli stessi medici che infettavano inconsapevolmente le donne, visitandole senza essersi sterilizzati le mani dopo le autopsie. Il rimedio banale che aveva proposto (lavarsi le mani) era stato irriso, l’ostilità nei suoi confronti era cresciuta fino a diventare una persecuzione. Il viaggio nella notte di Semmelweis era terminato nella pazzia. La scelta di quel capitolo oscuro della storia della medicina era suggerita probabilmente a Céline da un’identificazione inconscia con quel medico appassionato e perdente.

Già all’apparire del Viaggio al termine della notte Georges Bataille aveva proposto una lettura che mettesse al centro del romanzo la relazione del protagonista con la morte. Bardanu, l’io-narrante della vicenda, ripercorre le stesse tappe biografiche di Céline. Dopo le esperienze del fronte di guerra, dell’Africa e del Nordamerica, si laurea in medicina e pratica, povero tra i poveri, la medicina prima come medico di quartiere e poi in un asilo psichiatrico. Anche se la struttura è quella di un romanzo di iniziazione alla vita, quello che il protagonista impara è tutto in negativo: invece di accumulare saggezza ed esperienza, perde progressivamente le illusioni della giovinezza, a cominciare dall’entusiasmo che l’ha portato ad arruolarsi volontario nella Grande guerra:

Si perde la maggior parte della propria gioventù a colpi di goffaggini. Non avevo ancora imparato che esistono due umanità molto diverse, quella dei ricchi e quella dei poveri. Mi ci son voluti, come a tanti, vent’anni e la guerra, per imparare a starmene nella mia categoria, a chiedere il prezzo delle cose e degli esseri prima di prenderli, e soprattutto prima di attaccarmici.

La distinzione tra ricchi e poveri non comporta un’analoga divisione tra cattivi e buoni. L’io profondo dell’uomo, le cui realizzazioni più profonde sono la guerra e la malattia mentale, «questi due infiniti dell’incubo», è uguale per tutti. La differenza è nei modi: «I ricchi non hanno bisogno di uccidere con le loro mani per mangiare. Fanno lavorare gli altri, come si dice. Il male non lo fanno loro stessi, i ricchi. Loro pagano. Si fa di tutto per piacergli e loro sono contenti».

Le due metafore intrecciate nel titolo del romanzo, il viaggio e la notte, trovano la

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loro unità nella morte: «La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte». Il viaggio termina nel nulla: «Non si troverebbe niente. È questo la morte».

Qualcosa di peggio della morte

Fin dalle prime osservazioni sul comportamento dei soldati al fronte, Céline individua l’atteggiamento inconsapevole verso la propria morte, come quei soldati, vera carne da cannone, che «una pallottola in pancia, avrebbero continuato a tirar su vecchie scarpe per via, perché potevano “ancora servire”. Come il montone che, sul fianco, in un prato, agonizza e bruca ancora». A questo si contrappone la dolorosa percezione della vita stessa come lento viaggio per essere inghiottiti dalla morte: «La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra».

Attorno a sé Bardanu osserva il gran daffare degli esseri umani, che «vanno da una commedia all’altra». Un comportamento opposto a quello della cagna, che muore “senza tralalà”:

Val mica la pena agitarsi, aspettare basta, dal momento che tutto deve finire per passarci, nella strada. Quella sola conta in fondo. Niente da dire. Ci aspetta. Bisognerà pur scenderci nella strada, decidersi, non uno, non due, non tre di noi, ma tutti. Stiamo lì davanti a far cerimonie e complimenti, ma capiterà..

Il termine del viaggio è il limite, purtroppo estensibile: «C’è un limite a tutto. Non è sempre la morte, è spesso qualcosa d’altro e di peggio, soprattutto con i bambini». È l’epigrafe di un episodio tra i più truci, in un romanzo che di orrori non è certo

LOUIS-FERDINAND CÉLINE

La letteratura francese, famosa per i suoi poeti maledetti, dovrebbe vantarsi anche di un romanziere maledetto; forse più maledetto di tutti, sia per la vita sia per l'opera.

Se Céline, nella definizione di Bernanos, è stato creato da Dio per dare scandalo, si può affermare senza dubbio che ha realizzato alla perfezione la sua missione in questo mondo: di provocazione

in provocazione, si è spinto fino all'infamia massima, la simpatia per il nazismo. Ma, a differenza di molti poeti maledetti nella vita ed estetiz-zanti nell'arte, la rivoluzione più importante di Céline è proprio sul piano letterario, nell'opera di svecchiamento della letteratura francese portata avanti parallelamente sul piano del contenuto e della lingua.

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avaro. Il dottor Bardanu osserva, dalla finestra della sua cucina, la vita squallida delle famiglie del suo quartiere. La povertà abbrutisce tutti, il vino scatena passioni primordiali, che circolano senza controllo. Dal suo osservatorio Bardanu partecipa in presa diretta a una scena che si ripete con regolarità nella casa accanto. Un padre e una madre legano la propria bambina di dieci anni a un tavolo, l’insultano e la picchiano senza pietà per eccitarsi e consumare poi un rapporto sessuale. Bardanu non può far niente:

Restavo soltanto ad ascoltare come sempre, dovunque. Eppure, credo che mi venissero delle forze a sentire quelle cose, la forza d’andare più lontano, delle strane forze e la prossima volta, allora potrei scendere ancora più giù la prossima volta, ascoltare altri lamenti che non avevo ancora sentito, o che prima non riuscivo a capire, perché si direbbe che ce ne sono ancora sempre in fondo agli altri di lamenti che non hai ancora sentito o capito.

Questa discesa agli inferi, nell’assistere impotente allo strazio di una bambina, si tramuta in una crescita in compassione. Bisogna essere equipaggiati, perché il male da compatire non ha limiti.

Ma a evitare ogni buonismo consolatorio è sufficiente ricordare il pericolo che incombe: scendendo gradino dopo gradino, si può arrivare a perdere la propria anima. È quanto sperimenta Ferdinand Bardanu in un altro dei vertici narrativi del romanzo: la morte di Léon Robinson.

Questo personaggio, che svolge il ruolo di “doppio” del protagonista, sta agonizzando, ferito a morte da una donna di cui aveva disprezzato l’amore. Bardanu assiste alla sua agonia non da medico, ma da amico. Ma non sa che fare:

In quei momenti lì, imbarazza un po’ essere diventato così povero e così duro come sei diventato. Ti manca quasi tutto quello che ci vorrebbe per aiutare a morire qualcuno. Hai con te quasi soltanto le cose utili per la vita di tutti i giorni, la vita confortevole, la vita per sé sola, la cattiveria. Hai perduto la fiducia per strada [...]. E io restavo, davanti a Léon, per fargli coraggio, e mai ero stato tanto imbarazzato. Non ci arrivavo... Lui non mi trovava... Sudava sette camicie... Doveva cercare un altro Ferdinand, molto più grande di me, di sicuro, per morire, per aiutarlo a morire piuttosto, più dolcemente [...].

Non c’ero che io, proprio io, tutto solo, al suo fianco, un Ferdinand autentico al quale mancava quel che farebbe un uomo più grande della sua povera vita, l’amore per la vita degli altri. Di quello, non ce ne avevo, o almeno così poco che non era il caso di farlo vedere. Non ero grande come la morte io. Ero molto più piccolo. Non avevo una grande idea dell’uomo io.

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Lo stesso nichilismo nei confronti della capacità di venire incontro alla sofferenza altrui esprime Céline in quanto medico. Il dottor Bardanu, sua proiezione letteraria, oscilla tra il cinismo e la rassegnazione. L’entusiasmo professionale, se mai c’è stato, si è dissolto: «C’è niente che si spegne come un fuoco sacro». Al medico Céline non è la salute dei suoi pazienti che importa, ma le loro malattie, che gli garantiscono il magro reddito: «È l’umido e il freddo che ci vuole per la medicina. Niente più epidemie, una stagione storta». Sono i poveri stessi che hanno contribuito al disincanto: come i tubercolotici poveri, che non vogliono la guarigione, ma la pensione dello Stato, per cui un miglioramento è per loro una cattiva notizia; o come i familiari che preferiscono far morire in casa la propria figlia, dissanguata per un aborto clandestino, piuttosto che farla trasferire in ospedale ed esporsi alla vergogna.

Creato per dare scandalo

Se fare il medico dei ricchi può essere antipatico, curare i poveri può portare alla bancarotta:

I malati non mancavano, ma non ce n’erano molti che potevano o volevano pagarmi. La medicina è ingrata. Quando ci si fa pagare l’onorario dai ricchi, si ha l’aria di un lacchè, dai poveri si ha tutto del ladro [...]. Mica è comodo. Si lascia perdere. Si diventa comprensivi. E si cola a picco [...]. Quando mi accompagnavano alla porta, dopo che avevo dato alla famiglia i consigli e consegnato la ricetta mi lasciavo in un mare di divagazioni solo per rimandare l’istante del pagamento di qualche minuto in più. Non sapevo fare la puttana. Avevano l’aria così miserabile, così puzzolente, la maggior parte dei miei clienti, così torva anche, che mi chiedevo sempre dove andavano a trovare i venti franchi che bisognava darmi, e se non m’avrebbero ammazzato in compenso. Ce ne avevo comunque bisogno, io, dei venti franchi. Che vergogna! Avrei mai smesso di arrossirne.

«Céline è stato creato da Dio per dar scandalo»: è la celebre sentenza di Bernanos, che congela il suo ruolo in quello di scrittore maledetto. Il Céline del Viaggio al termine della notte avrebbe probabilmente commentato che il vero scandalo è l’uomo stesso, la sua vita, la sua morte. Purtroppo in seguito, quasi la misura non fosse colma, Céline ha voluto aggiungere scandalo a scandalo, con le sue malfamate prese di posizione di razzismo antiebraico e di simpatia per il nazismo. Così ha gettato un’ombra tenace su tutta la sua opera precedente, che impedisce ai più, pur affascinati dalla sua arte di scrittore, di accompagnarsi a lui nel viaggio al termine della notte, dove ci aspetta la morte.

BIBLIOGRAFIA

Kouis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 1992.

R. Celegato, "Vestire la nudità della morte". In Janus 30 (estate 2008).

L.-F. Céline, Il dottor Semmerlweis. Adelphi, Milano, 1993.

L.-F.Céline, Da un castello all'altro. Einaudi, Torino, 2008.