
- Narrative based medicine
- We have a dream
- Il recupero del soggetto
- Manuale di medical humanities
- Medicina e letteratura
- Medical Humanities
- La narrazione nei territori di cura
- La narrazione della morte nella letteratura
- Le trame della cura
- Il cammino verso la guarigione: modi e gradi
- Speranza e narrazione
- Céline, o del disincanto davanti alla morte
- Romain Gary: la vita davanti a sé
MEDICINA E LETTERATURA
a cura di Sandro Spinsanti
in Le raccolte di Janus
Zadig Editore, Roma 2009
pp. 5-11
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INTRODUZIONE
NARRAZIONE LETTERARIA E MEDICAL HUMANITIES
Tutto il resto è poesia...
Mettere fianco a fianco medicina e letteratura è un’operazione intellettuale rischiosa. Curare i malati ed esprimere artisticamente la propria comprensione della realtà umana sono due attività che si svolgono su piani diversi, con protagonisti non destinati a incontrarsi. La prima è diventata sempre più competenza della scienza (che ha tanto migliore stampa quanto più è hard, si basa su numeri e quantità e si confronta con risultati misurabili); la seconda si affida all’intuizione ed evoca i sentimenti, tanto quanto la scienza insegna a diffidarne.
La separazione non è casuale; è il risultato di un processo che sottende la formazione che ricevono coloro che si preparano a esercitare una professione sanitaria: come scrivono Trisha Greenhalgh e Brian Hurwitz, «nella sua forma più arida, la medicina moderna manca di un sistema per valutare qualità esistenziali come le ferite intime, la disperazione, la speranza, l’afflizione e il dolore morale che frequentemente accompagnano e spesso costituiscono la malattia stessa di cui le persone soffrono. L’inesorabile sostituzione durante la formazione medica di competenze e abilità considerate “scientifiche” ― quelle in massimo grado misurabili, ma inevitabilmente riduzionistiche ― al posto delle competenze fondamentalmente linguistiche, empatiche e interpretative è considerata come un elemento che caratterizza il successo di un curricolo moderno». Letteratura e poesia appaiono fuori posto nell’attuale organizzazione sanitaria delle cure. Una pagina letteraria, basata su vicende autobiografiche, può aiutarci a visualizzare la reciproca estraneità di medicina e creazione artistica. Nelle Ceneri di Angela, dello scrittore americano Frank McCourt, un bambino di dieci anni contrae il tifo e finisce nel reparto di malattie infettive di un ospedale. L’ambiente è quello dell’Irlanda povera e degradata ― appena sopra il limite della sopravvivenza ― degli anni Trenta. La
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sua è un’infanzia infelice («ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora», è il suo pungente commento...). L’unico conforto in ospedale sono dei colloqui, attraverso la parete, con una bambina nella stanza accanto, colpita dalla difterite. Patricia insegna al suo amichetto, giorno dopo giorno, i versi di una ballata che parla di un bandito e delle labbra vermiglie della figlia del locandiere, dell’amore del bandito e della caccia che gli stanno dando i soldati. Il bambino deve imparare a memoria la poesia per recitargliela, sempre attraverso il muro, al mattino presto o la sera tardi, quando non circolano né suore né infermiere.
Quando Patricia sta per leggere le ultime strofe, un’infermiera li sorprende: «Ve l’avevo detto che tra due stanze è proibito parlare. La difterite non può parlare con il tifo e viceversa. V’avevo avvertito». Scatta la punizione: il ragazzino è trasferito in un altro piano, in un enorme stanzone, da solo. Un inserviente analfabeta ma molto comprensivo disapprova la sanzione inflitta per la poesia recitata da una stanza all’altra: «L’unico malanno che ci si può prendere da una poesia nel caso è il mal d’amore e l’eventualità è abbastanza lontana quando uno c’ha dieci anni e va per gli undici»... Da lui il ragazzo viene a sapere che Patricia è morta, e non può sapere la fine della ballata. L’inserviente si offre allora di chiedere, nel proprio pub, se qualcuno conosce la poesia. L’impara a memoria, perché non sa scrivere, e la recita al piccolo malato. «Se vuoi sentire qualche altra poesia, Frankie, basta che me lo dici, io le raccolgo al pub e poi te le ripeto a memoria».
Il racconto introduce la suggestiva immagine della poesia che circola, da clandestina, sospetta e perseguitata, tra le stanze di un ospedale, pensato in termini di isolamento e come ambiente sterile. La sterilità in chiave igienica minaccia costantemente di tramutarsi in sterilità spirituale. Ciò vale non solo per le strutture dove ha luogo la cura, ma per tutto l’arsenale terapeutico in quanto tale. L’esilio della poesia dall’ospedale descritto da McCourt richiama, per associazione, una dichiarazione che fonti giornalistiche attribuivano di recente a Daniel Weinberg, direttore della divisione clinica per i disordini mentali dell’istituto nazionale per la salute mentale di Bethesda (Washington). Illustrando i risultati scientifici della ricerca più recente sulle malattie mentali, Weinberg affermava: «Per ora della schizofrenia conosciamo veramente solo le cause genetiche, biologiche. E gli effetti positivi dei farmaci sui sintomi. Tutto il resto è poesia». Questo “resto” qualificato come poesia, e in quanto tale svalutato, ironizzato, esiliato dallo scenario clinico perché considerato ospite indesiderato nella casa della scienza, è proprio ciò che letteratura e arti espressive considerano come parte costitutiva della medicina.
Quando il medico è anche letterato
Il medico-letterato è una figura anomala. In passato se ne può identificare qualche
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raro esemplare; ma quando la pratica medica o l’arte diventano serie, non ammettono facili coabitazioni. Certo, Anton Cechov, Arthur Schnitzler e Céline ― per fare qualche nome ― sono stati sia medici che scrittori; ma, a onor del vero, li ricordiamo come medici passati alla letteratura, piuttosto che come medici-scrittori.
Coltivare le arti, arricchendo la propria formazione umanistica, è un consiglio che è stato spesso rivolto a chi pratica la medicina. Tradizionalmente il medico si collocava tra le persone colte, quando cultura era sinonimo di conoscenze letterarie (magari classici della letteratura letti in originale, con buona conoscenza di greco e di latino...). Come sentenziava José de Letamendi, cattedratico di patologia generale nell’università di Madrid e umanista celebre della seconda metà dell’Ottocento, «Quien solo medicina sabe, ni aún medicina sabe». Esprimeva con ciò la convinzione che la medicina è solo in parte il risultato di saperi riconducibili alle scienze esatte o della natura; tanto che non si può dire che conosca la medicina chi, pur conoscendo la dimensione biologica della medicina, ignori le scienze umane e le arti.
La figura del medico che coltiva lo spirito e amplia i propri orizzonti mediante una frequentazione attiva della letteratura fa parte del nostro immaginario. Un’evocazione convincente è fornita da un ritratto di medico tracciato da Claudio Magris, in una piega recondita dei suoi Microcosmi:
Ongaro fa il medico; la sua pacatezza rassicurante e la sua mite e ferma precisione danno subito un senso di sollievo ai pazienti che vanno da lui con le loro ansie, i fantasmi dell’insonnia e del panico, le ossessioni coatte, il vuoto di una vita che sembra risucchiata nel buio. Lui ascolta, disponibile, senza fretta; qualcosa, nel suo viso e nel suo tratto, ricorda la linda dirittura e la malinconica bontà di Freud, corrette da una sorniona ironia. Si addentra nelle spirali dell’angoscia con la paziente leggerezza di un gatto; saggia il terreno con domande discrete, suggerisce un farmaco senza promettere miracoli, ma la zampa felina non si lascia scappare la serpe dell’ansia, l’afferra senza parere e la tira fuori, e spesso, dopo qualche tempo, le persone braccate dai demoni ritornano capaci di vivere.
Magris non manca di insinuare che esiste un legame tra la grande capacità empatica di questo medico e l’attività letteraria. Perché nei tempi liberi dal lavoro il dottor Ongaro si dedica alla scrittura creativa: «Battute di dialogo, immagini insolite, abbozzi di un carattere o di una vicenda, l’epifania di un istante, la luce di un pomeriggio o di un viso, il flash di un lampo nella pioggia, la traccia di fuoco che si alza dalla fusina e sparisce nell’aria. Intorno a quegli schizzi, si condensa a poco a poco una storia, nasce un romanzo».
Per correttezza non possiamo tacere che non sempre cultura letteraria e buona medicina sono state viste come realtà sinergiche. La letteratura e le arti, che pacificano
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lo spirito e promuovono l’equilibrio, possono essere anche intese come un “riposo del guerriero”, quasi un momento individuale di pace interiore che però si abbina a una pratica della medicina che manca di qualità. L’archetipo di questa critica lo troviamo in un dialogo del Malato immaginario di Molière. Nello scambio di battute tra Argan e suo fratello Béralde il commediografo condensa la sua opinione negativa sulla medicina e sulla funzione puramente esornativa che attribuiva alla cultura umanistica dei medici, fatta di accademismo, lingue morte e sterile frequentazione dei classici:
Argan: I medici non sanno dunque niente, secondo voi?
Béralde: Proprio così, fratello mio. La maggior parte di loro conoscono delle bellissime humanités, sanno parlare in un latino elegante, sanno chiamare in greco tutte le malattie, le sanno definire e classificare; ma per quanto riguarda il guarirle, non sanno proprio niente.
La letteratura nel contesto delle medical humanities
Il contesto in cui la medicina e la letteratura si incontrano oggi non è più solo quello delle “belle lettere” come patrimonio costitutivo della cultura di un uomo superiore. Ai nostri giorni l’incontro avviene nell’ambito delle medical humanities. Per una comprensione storica di questa espressione dobbiamo far riferimento agli Stati Uniti, dove, fin dalla fine degli anni Sessanta, si è andato sviluppando un movimento volto a compensare l’unilaterale accentuazione del ricorso alle scienze naturali in medicina. La leadership del movimento è stata assicurata dalla Society for Health and Human Values, generosamente finanziata da un fondo federale (“National Endowement for the Humanities”), creato appositamente per incrementare lo sviluppo della prospettiva umanistica nelle scienze. Uno dei risultati più vistosi di questa opera pionieristica è stata l’introduzione di vari corsi di humanities in quasi tutte le scuole di medicina.
Un bilancio tracciato all’inizio degli anni Ottanta da Edmund Pellegrino e Thomas Me Elhinney prendeva atto di un rovesciamento della situazione avvenuto nell’arco di tempo di un solo decennio: in tutto il territorio degli Stati Uniti non esisteva quasi più scuola medica e infermieristica che non facesse posto alle humanities come parte integrante del curricolo di formazione dei professionisti della sanità. I cultori delle discipline umanistiche e delle arti si sono sentiti autorizzati a rivendicare un ruolo non secondario nella formazione dei medici. Per citare Kathryn Hunter ― una docente di letteratura coinvolta a tempo pieno nella facoltà di medicina ― l’onere della prova spetta non a chi vuole introdurre la letteratura nella formazione dei futuri medici, ma a chi vorrebbe escluderla: «Come potrebbe la letteratura non far parte del curricolo medico? Questa, che è la forma più soggettiva del discorso
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umano, ha un’utile collocazione nella rigorosa formazione scientifica e clinica del medico. Un posto di particolare rilievo spetta alla poesia. Come il resto della letteratura ― fiction, biografia, teatro ― la poesia fornisce ai suoi lettori una descrizione della condizione umana vista dall'interno. Sono informazioni di cui hanno estremo bisogno coloro che si orientano alla professione medica. Gli studenti di medicina sono giovani: è probabile che non siano mai stati seriamente malati; possono non aver mai conosciuto nessuno molto vecchio o morente; ai nostri giorni molti di loro hanno quattro nonni in buona salute. La letteratura fornisce a chi la legge e a chi l’ascolta l’opportunità di vedere la vita come altre persone la sperimentano. Gli studenti possono imparare qualcosa circa ciò che significa essere malato o morente, o appartenere a un’altra razza o classe sociale o sesso; possono anche intuire che cosa vuol dire essere medico».
Negli anni Ottanta l’avanzata del movimento rivolto a riportare l’attenzione agli human values in medicina è avvenuta principalmente all’insegna della bioetica, con un primato sempre più esplicito della filosofia morale. Tuttavia l’intersezione della medicina con le humanities nel loro insieme, e non esclusivamente con l’etica, non è mai andata completamente perduta.
Il luogo accademico dove è stata fatta più esplicitamente la scelta di privilegiare le medical humanities, piuttosto che la bioetica, è la sede delle facoltà di medicina dell’Università del Texas, che si trova a Galveston. L'Institute for the medical humanities è stato creato nel 1973, grazie al fondo federale già ricordato. Da allora è andato crescendo, creandosi una solida reputazione come centro pilota nelle medical humanities. Svolge un’opera di formazione per gli studenti di medicina all’università del Texas, in diversi momenti cruciali del loro curricolo; promuove la conoscenza della dimensione umanistica della medicina attraverso una rivista apposita: Medical Humanities Review. Dal 1988 l’istituto è autorizzato a conferire il dottorato di ricerca (PhD) in medical humanities: una possibilità che non ha l’equivalente né negli Stati Uniti, né altrove. Per quanto riguarda le vie di incontro tra letteratura e medicina, c’è da segnalare che nell'Istituto di Galveston una grande attenzione è rivolta proprio a questo ambito, con insegnamenti specifici e la pubblicazione periodica della prestigiosa collezione Literature and Medicine.
Descrivendo gli usi possibili della narrativa nella formazione etica dei sanitari, Anne Hudson Jones, professore di letteratura applicata alla medicina nell’Istituto di Galveston, distingue tra l’impiego di storie (di fiction letteraria o di altra origine) in quanto guida morale e le narrazioni di “testimonianza”. Nel primo caso, entra in considerazione ogni narrazione che, anche senza avere come argomento specifico situazioni tipicamente sanitarie, stimola una riflessione morale su ciò che significa essere una persona con qualità morali, vivere una vita eticamente giustificabile e praticare una professione in modo esemplare.
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Il secondo uso della narrazione si rivolge invece di preferenza a scritti filtrati dall’esperienza personale ― dei pazienti stessi, di familiari e amici, dei professionisti sanitari ― che inducono a riesaminare pratiche mediche e precetti etici correnti. A cavallo tra i due generi si possono collocare alcune raccolte di storie e di poesie di medici-scrittori, particolarmente popolari nell'ambiente medico americano, come The doctor stories di William Carlos Williams (1984), Letters to a young doctor di Richard Selzer (1982), Renaming the streets (1985) e In the country of hearts: Journeys in the art of medicine (1990) di John Stone.
Si intravede così l’emergere di una nuova disciplina, in qualche modo parallela alla storia della medicina e all’etica medica. Non si tratta semplicemente di documentare, attraverso la letteratura, la presenza della medicina e delle sue pratiche all’interno della società. L’obiettivo non è neppure quello di accostare medici e studenti di medicina alla letteratura, nella fiducia che un testo di fiction di qualità artistica, se proposto con competenza e ricevuto con piacere, costituirà un’esperienza positiva, destinata ad accrescere la qualità umana (e quindi latamente professionale) del sanitario. L’integrazione della letteratura deve servire a formulare questioni relative al valore conoscitivo dell’arte e della scienza, alle questioni antropologiche legate alle vicende del corpo ― nascita, malattia, guarigione, cronicità, morte ― al rapporto tra natura e cultura nelle pratiche di cura e assistenza, ai ruoli drammatici che pazienti, familiari, professionisti e sanitari assumono nelle relazioni terapeutiche.
Le medical humanities che il ricorso sistematico alla letteratura vuole promuovere non hanno come programma quel processo di “umanizzazione della medicina” che molti invocano come necessario e urgente. Indipendentemente dalle intenzioni dei promotori, non si può negare che parlare di “umanizzazione” minaccia di sconfinare nel moralismo. Il programma delle medical humanities si dissocia da qualsiasi pretesa di rendere i professionisti della sanità più “umani”. Pur senza chiudere gli occhi sulla “disumanità” che può introdursi anche nella sanità ― così come in qualsiasi altra espressione della vita sociale ― le humanities non vogliono assumere quel tono colpevolizzante e accusatorio che le denunce della “malasanità” ci hanno reso così familiare.
Né chiedono di essere intese in senso puramente parenetico. È vero che la formazione completa del sanitario comprende, oltre all’aspetto tecnico-professionale e a quello cognitivo, anche una dimensione affettiva, che culmina nella capacità empatica. Tuttavia le medical humanities non sono lo strumento per questa formazione: non si rivolgono in primo luogo all’affettività, ma piuttosto alle idee e ai valori. Benché ci si possa legittimamente aspettare che una riflessione finalizzata a rendere i sanitari più consapevoli di tutto ciò che è in gioco nella cura della salute, più circospetti nei confronti della complessità delle relazioni interpersonali in cui sono
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coinvolti e più avvertiti dei legami della professione con la società intera, avrà alla lunga dei benefici effetti anche sui comportamenti, l’obiettivo primario delle medical humanities non è modificare i comportamenti, come intendono fare le campagne di moralizzazione. Il loro scopo va più in profondità: ha a che fare con la definizione stessa di ciò che intendiamo per medicina.
L’intento delle medical humanities non è né esortativo, né “esornativo”. Pur attingendo alla letteratura e alle arti, non vogliono essere ridotte a medical amenities (o alle humanités oggetto delle frecciate satiriche di Molière). Non si propongono semplicemente di abbellire la pratica della sanità, ma di ricondurla alla sua ispirazione e finalità originarie: essere una medicina per l’uomo. La dimensione umanista è un destino necessario che colui che si occupa di salute conosce per tradizione secolare. La medicina più avanzata non ha inventato le medical humanities: è stata solo costretta a riattualizzarle, per ridurre la dissonanza tra la “scienza” della misurazione oggettiva e l’“arte” della competenza e del giudizio che sono propri del medico clinico.
BIBLIOGRAFIA
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T. Greenhalgh, B. Hurwitz, "Why study narrative?". In: British Medical Journal, 318, 1999.
K.M. Hunter, "How to be a doctor. The place of poetry in medical education", in Second Opinion, n. 16, 1991.
A.H. Jones, "Narrative in medical ethics", in British Medical Journal, 318,1999.
C. Magris, Microcosmi. Garzanti, Milano, 1996.
F. McCourt, Le ceneri di Angela. Adelphi, Milano, 1997.
E.D. Pellegrino, T.K. Mc Elhinney, Teaching ethics, the humanities, and human values in medical schools: A ten-years overview, Institute of Human Values in Medicine, Washington, 1983.