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Sandro Spinsanti
LA NARRAZIONE DELLA MORTE NELLA LETTERATURA
in Alla fine della vita. La morte tra diritti e doveri
Atti del Convegno Formazione/Come, Regione Toscana, Giunta Regionale
Firenze, 23–24 gennaio 1998
pp. 56-60
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Un paio d'anni fa un intervento di Dacia Maraini, pubblicato con grande risalto su un quotidiano di informazione, infrangeva il monopolio medico sull’organizzazione della morte, nella nostra società.
Dacia Maraini non interveniva da scrittrice, ma in quanto persona coinvolta dalla morte della sorella, per dire “no!”, no alla morte medicalizzata. Nel gennaio del 1998 un giornale ha ospitato un intervento analogo di Guido Ceronetti: “Lasciatemi morire a casa!”. Dunque ancora uno scrittore interviene in un dibattito, senza essere autorizzato come bioetico o come medico, per portare il contributo di una voce che viene dalla letteratura, dalle “humanities” in senso ampio, a perorare un cambiamento del nostro atteggiamento sociale verso la morte. È quasi un genere letterario, quello dello scrittore che intervenendo al di fuori del suo campo diventa espressione della coscienza civile. Leggo dal settimanale “Die Zeit” di questi giorni che a Lubecca, proprio in questo periodo, lo scrittore Günter Grass, che è stato ricoverato all’ospedale della città, sta facendo una serie di lezioni che attirano folle di medici, infermieri, malati; devono chiudere il grande auditorio perché un’ora prima dell’intervento già strabocca. Grass legge e parla della morte, del morire, della malattia, a partire dalla letteratura.
Non sono in grado, non essendo uno scrittore, di svolgere questo ruolo. Mi sono limitato a interpretare il compito sostitutivo in maniera molto letterale: “narrazioni della morte”. Attingendo alle mie letture, ho individuato delle narrazioni di morte che ritengo significative. Significative proprio rispetto alla necessità di trovare dei modelli per strutturare i rapporti che si creano intorno al morente, tra il morente stesso e i medici, i familiari, la società. Abbiamo bisogno non soltanto di teorie etiche e di analisi sociologiche, ma anche, e ancora di più, di modelli. E la letteratura è una miniera di questi modelli. Qui ne ho scelti un paio che mi sembrano particolarmente significativi a questo riguardo. La prima narrazione che vi propongo è tratta da un grande romanzo, uno dei più grandi romanzi della coscienza europea, I Buddenbrook di Thomas Mann; è la narrazione della morte della vecchia madre di Thomas Buddenbrook. La scena si svolge nel cuore della notte, attorno al letto della morente è raccolta tutta la famiglia; ci sono anche i medici, compreso il dottor Grabow che all’inizio del romanzo troviamo assistere a una nascita, sempre nella casa della famiglia.
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“I movimenti dell’ammalata erano diventati più frequenti, una tremenda inquietudine, un’angoscia e un travaglio inesprimibile, un inevitabile senso d’abbandono e di impotenza senza limiti doveva pervadere da capo a piedi quel corpo già in preda alla morte. I suoi occhi, quei poveri occhi imploranti, lamentosi, supplichevoli, si chiudevano talvolta come spegnendosi quando torceva il capo rantolando o si spalancavano talmente che le piccole vene della cornea risaltavano sanguigne. Ma non sopraggiunse nessuna forma di torpore. Poco dopo le tre si vide Christian alzarsi: ‘Non ce la faccio più!’ annunciò ed uscì zoppicando, appoggiandosi ai mobili che trovava sul percorso. Verso le quattro la situazione peggiorò; l’ammalata dovette essere sorretta e le fu asciugato il sudore della fronte, il respiro minacciava di arrestarsi e l’angoscia crebbe. ‘Qualcosa per dormire ― implorò ― una medicina’ ma erano ben lontani dal darle un sonnifero. D’improvviso riprese a rispondere a qualcosa che gli altri non udivano, come già aveva fatto una volta: ‘Sì, Jean, tra poco’ [era il marito morto] e subito dopo ‘sì vengo Clara mia’ [la figlia morta] e poi ricominciò la lotta. Era ancora la lotta con la morte? No, adesso lottava con la vita per conquistare la morte. ‘Vorrei ― ansimava ― ma non posso. Qualcosa per dormire, dottori per pietà! Qualcosa per dormire. Quel ‘per pietà’ fece sì che la signora Permaneder scoppiasse forte a piangere. Thomas gemette piano stringendosi la testa fra le mani. Ma i medici conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene; al contrario rafforzarono il cuore con diverse medicine e provocarono più volte con il vomito un momentaneo sollievo. Alle cinque l’agonia non poteva essere più terribile, la vecchia signora, ritta nella lotta e con gli occhi sbarrati, agitava le braccia intorno a sé come per afferrare un appiglio o delle mani che le venivano incontro e rispondeva di continuo a richiami che solo lei udiva giungere da ogni parte e che parevano diventare sempre più numerosi ed insistenti. Era come se fossero lì presenti non solo il marito defunto e la figlia, ma anche i suoi genitori, e lei pronunciava nomi dei quali nessuno lì nella stanza avrebbe potuto dire a chi si riferissero. ‘Sì ― esclamava volgendosi di qua e di là ― ora vengo, subito, immediatamente, così non posso, una medicina dottore”.
La narrazione continua, descrivendo nei dettagli la morte a duro prezzo conquistata.
Al di là del valore letterario di questa narrazione, che ci tocca profondamente, troviamo in essa la rappresentazione più chiara del modello del paternalismo medico. Siamo tipicamente nella situazione in cui qualcuno prende decisioni su un altro e per un altro, non solo quando si tratta di portarlo alla guarigione, ma anche nel cammino verso la morte. Il riferimento a quel codice di comportamento che “non ricordavano bene”, ma che identifichiamo senza difficoltà nell’ethos ippocratico ― questo dovere, volere prolungare
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la vita a tutti i costi ― richiama un modello di un sistema di doveri di fronte alla morte. I doveri del medico, ma anche il dovere del paziente di restare là dove la vita lo ha posto, anche se è un’agonia terribile.
In questo compatto sistema di doveri non c’è posto per i diritti, neppure per il diritto di scegliere come strutturare la propria morte, dandole il volto che più esprime i propri valori.
Per illustrare un modello antitetico a quello che regola la morte della signora Buddenbrook, vi propongo la narrazione di una “morte esemplare”. La traggo da un libro tedesco intitolato Ultimi giorni. Vi si racconta la morte di una quindicina di personaggi diversi; da Albert Schweitzer a Mozart, Pascal, Seneca, Socrate. Tra questi personaggi dei quali sono raccontati gli ultimi giorni troviamo Sigmund Freud. Freud, come sappiamo, è morto per un cancro che gli era stato diagnosticato nel 1923 ― allora aveva sessantasette anni ― e fu curato con una molteplicità di interventi terapeutici. Le operazioni chirurgiche crearono enormi problemi a Freud per la deglutizione; anche lo stesso fumare il sigaro gli era diventato molto difficile, ma Freud affrontò con coraggio la lotta contro la sua malattia, aiutato a prendere decisioni da Max Schnur, il suo medico di fiducia. Nel 1931 una sorpresa triste: una recidiva, grave. Seconda operazione; fino al 1939, l’anno della sua morte, Freud subirà trentatré interventi chirurgici per far fronte alla devastazione progressiva causata da quello che egli chiamava “das Ungeheuer”, cioè “il mostro”. Dal ‘37 non può più essere operato ma ricorre alla radioterapia. Sedici anni di lotta continua, finché il 21 settembre 1939, Freud chiama il dottor Schnur e gli dice: “Caro Schnur, lei si ricorda del nostro primo colloquio? Allora mi ha promesso che non mi avrebbe lasciato in asso quando sarebbe giunto il momento. Ora è solo tormento e non ha più alcun senso”. Lo stesso giorno, il 21 settembre, il dottor Schnur somministra al suo paziente, che finora ha sempre rifiutato ogni calmante, una forte dose di morfina e due giorni dopo Freud, senza svegliarsi, muore.
È una narrazione della morte di un uomo che si colloca con naturalezza nel grande filone dello stoicismo, insieme a Seneca, Marco Aurelio, Epitteto. Rispetto all’altro modello presentatoci da Thomas Mann troviamo in primo piano l’autodeterminazione del paziente. Freud mette in atto una strategia per attuare quello che ritiene un suo diritto: strutturare la propria morte. Dare alla propria vita e alla propria morte la forma e i limiti ritenuti più opportuni non è una benevola concessione, ma un diritto del paziente, che equivale alla sua rivendicazione a essere soggetto. Un altro elemento importantissimo è la personalizzazione della morte e del morire. La struttura della morte di Freud risponde ai suoi valori, in particolare a quello centrale della sua vita: la razionalità, il giudizio chiaro. Scriveva al fratello: “La vita non mi dà più gioia, da diversi punti di vista sono un relitto, ma sono in possesso delle mie facoltà intellettuali, lavoro ancora”. E al dottor Schnur aveva detto che non voleva i calmanti affermando: “Preferisco pensare tra i tormenti che non pensare”. Dunque la sua morte è coerente con la sua gerarchia di valori. Può darsi che per un altro il valore dominante non sia quello di conservare l’uso della ragione, la lucidità, fino alla fine, ma piuttosto quello di essere libero dal dolore.
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La personalizzazione della morte realizza il senso implicito dell’invocazione di Rilke: “Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte”.
Un altro elemento importante che troviamo nel racconto della morte di Freud è la negoziazione con il medico. Il medico e il malato non sono due nemici, non prevaricano l’uno sull’altro; il medico non impone la sua etica, il malato non fa prevalere il suo punto di vista, ma si confrontano e trovano insieme, in maniera dialogica e negoziale, la giusta soluzione. Due posizioni diverse, ma non “one up” e “one down”: sono tutte e due sullo stesso piano.
Che cosa è successo nel passaggio tra il modello arcaico, rappresentato dal comportamento che si ispira a un paternalismo duro, e il modello che abbiamo visto concretizzarsi nella vita e nella morte di Freud?
Si sono imposti nella cultura i tratti che consideriamo costitutivi della modernità: il valore dell’individuo, la soggettività, il diritto all’autodeterminazione, in una parola l’illuminismo. E proprio a Kant, simbolo dell’illuminismo e dei suoi valori, è dedicata la terza narrazione che voglio proporvi. La traggo da un libro, Gli ultimi giorni di Emmanuel Kant. Un libretto prezioso, scritto da Thomas De Quincey, un inglese che aveva un’ammirazione sviscerata per Kant. De Quincey ha scritto questa relazione nel 1827, quindi appena una ventina d’anni dopo la morte di Kant, che è avvenuta nel 1804, basandosi sulle relazioni di Vasiansky che aveva assistito Kant in tutta la fase terminale della sua vita. Qui troviamo il modello di una vita e di una morte dignitosa. Qui troviamo rappresentati l’autonomia, lo stile di vita conforme ai valori personali, e anche la ricerca di accordo, quella negoziazione di cui abbiamo parlato sopra. C’è un piccolo episodio in cui Vasiansky riesce a dare con grande fatica qualche cucchiaiata di brodo a Kant, ridotto ormai a un corpo fragile e trasparente come una vecchia pergamena. Kant accondiscende per un po’, poi dice: “Adesso basta!”. E Thomas De Quincey capisce la sovradeterminazione semantica dell’espressione: il morente non voleva solo dire “basta il brodo”, ma anche che la sua vita aveva raggiunto la giusta misura, “adesso basta!”.
Il racconto presenta anche un episodio, con il quale vorrei terminare. Il vecchio Kant, che aveva anche enormi difficoltà ad esprimersi ― Vasiansky interpretava le parole che Kant balbettava ― riceve il suo medico; questi vorrebbe che Kant si sedesse ma il filosofo rimane in piedi. Leggo dal racconto di De Quincey: “Intanto continuava a tenersi in piedi, ma si vedeva che era sul punto di cadere a terra. Allora avvertii il medico, e ne ero ben convinto, che Kant non si sarebbe seduto, per quanto potesse soffrire rimanendo in piedi, finché non si fossero seduti i suoi ospiti. Il dottore sembrava dubbioso, ma Kant, che aveva udito quel che avevo detto, con uno sforzo prodigioso confermò la mia spiegazione del suo comportamento e pronunciò distintamente queste parole: 'Dio non voglia che io cada così in basso da dimenticare i doveri dell’umanità'”.
Certamente nel termine “Humanität” c’è il significato arcaico di “cortesia”, “gentilezza”, ma non c’è soltanto questo. Ci sono dei doveri dell’umanità, doveri verso se stessi, ma anche doveri verso gli altri: ci sono i doveri della co-umanità. La strutturazione della propria fine non è soltanto
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un diritto; come è opportunamente formulato nel titolo di questo convegno, la fine della vita comporta diritti e doveri.
Dio non voglia che noi strutturiamo la nostra vita soltanto sul diritto, anche se sappiamo che il diritto di dare una forma personale alla vita, compreso il diritto di sfuggire a dolori evitabili, è stato acquisito dalla nostra cultura. Dio non voglia ― per dirla con il vecchio Kant ― che cadiamo così in basso da dimenticare anche i nostri doveri nei confronti dell’umanità.