
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- Il consenso informato: del buono e del cattivo uso
- Consenso informato tra comunicazione e informazione
- Comunicazione, consenso, responsabilità
- Informazione e consenso: un cambiamento culturale in atto
- Informare i cittadini: come e perchè
- La formazione del consenso con la famiglia
- Decisioni in medicina
- Etica dell'informazione
- Direttive anticipate
Sandro Spinsanti
IL CONSENSO INFORMATO: DEL BUONO E DEL CATTIVO USO
in Il consenso informato, Commissione Regionale di Bioetica
Regione Toscana Giunta Regionale, Firenze 1995
pp. 20-22
20
Il consenso informato è l’espressione centrale di una modalità di esercizio dell’arte medica che si rivela come profondamente innovativo rispetto al passato. Siccome questo passato è lungo e glorioso ― si tratta niente meno che di venticinque secoli di medicina sviluppatasi all’ombra degli ideali umanistici ed etici di Ippocrate, il cambiamento viene sentito come destabilizzante. L’atteggiamento di fondo negli ambienti sanitari è perciò prevalentemente accompagnato da una buona misura di diffidenza.
Raramente avviene che qualcuno argomenti, in linea di principio, contro il consenso informato. Al contrario, istituzioni dotate di grande autorevolezza presuppongono come acquisto l’accordo su una pratica della medicina legittimata non tanto dal "beneficio" da procurare al paziente, quanto dall’autorizzazione di questi all’intervento del professionista. Il progetto di Convenzione sulla bioetica ("Progetto di convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina"), approvato dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella sessione 30 gennaio ― 3 febbraio 1995, nell’art. 5 ha previsto il consenso per ogni intervento su una persona per ragioni di salute, sia di diagnosi, prevenzione, terapia, riabilitazione o ricerca:
"Nessun intervento in materia di salute può essere effettuato su una persona senza il suo consenso informato, libero esplicito e specifico".
Per attenerci alla realtà italiana, il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento approvato il 20 giugno 1992, Informazione e consenso all’atto medico, ha dato per acquisita, sotto il profilo sociologico, la svolta del consenso informato:
"Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società; si ritiene tramontata la stagione del paternalismo medico in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell’esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente, e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l’indicazione clinica in senso stretto".
Il consenso informato nei trattamenti sanitari, proposto dalla Commissione Regionale di Bioetica della Toscana, presuppone gli stessi valori e persegue identici obiettivi. Ma il passaggio dalle intenzioni alla messa in atto si rivela indubbiamente molto impegnativo e non privo di difficoltà.
Le ragioni profonde della resistenza al cambiamento di modello generale di rapporto tra medico e paziente, che il consenso informato presuppone, vanno
21
ricercate nella mancata "rivoluzione liberale" in medicina. Questa è l’opinione dello storico della medicina ed esperto di bioetica Diego Gracia. Nella sua ricostruzione storica Fondamenti di bioetica (tr. it., ed. San Paolo, 1993, pagg. 174) egli sostiene che fino agli anni più recenti la rivoluzione liberale e democratica in medicina abbia stentato, rispetto ad altri ambiti sociali, ad imporsi:
"Nel mondo della salute la rivoluzione sodale ha preceduto in molti casi la rivoluzione liberale. Il paternalismo è una forma di monopolio, per cui non deve meravigliare che la medicina sia passata facilmente dal modello paternalistico classico a quello monopolistico, senza passare per il modello liberale. Il liberalismo è sempre stato il grande argomento in sospeso nella medicina occidentale".
Ciò spiega perché le culture che più si sentono estranee al liberalismo ― e in Italia l’attuale dibattito politico sta rivelando tutte le insufficienze del liberalismo di casa nostra ― stentino a entrare in sintonia con il modello del rapporto medico-paziente basato sul consenso informato. E non solo per cattive ragioni: il mondo non anglosassone, specialmente quello di tradizione latina, si trova più a suo agio in una formulazione dell’etica che non sia centrata sull’individuo autonomo e rivolto alla difesa dei propri diritti, ma si orienti piuttosto verso il "prendersi cura" reciproco, come struttura primordiale dell’esistenza umana. È una prospettiva molto familiare alle professioni sanitarie, che in genere sentono come estraneo il linguaggio della bioetica elaborato a partire dalla prospettiva dei diritti individuali, della privacy, dell’autonomia. Nel mondo culturale latino è più familiare l’etica delle virtù, rispetto a quella dei diritti; dall’etica ci si aspetta che guidi l’azione verso la qualità eccellente, piuttosto che si ponga a tutela del diritto dell’individuo a non essere violato nella sua autodeterminazione autonoma.
Una aggravante è costituita dal fatto che l’accentuazione del consenso informato quale pilastro fondamentale del rapporto medico-paziente non è entrata in medicina attraverso la porta della pratica clinica, ma attraverso la finestra della ricerca scientifica. La richiesta del consenso è stata considerata quale garanzia principale dell’individuo, per difenderlo da un uso strumentale a servizio della ricerca. Queste norme, per quanto legittime e necessarie, erano più appropriate a regolare i rapporti tra estranei, o "stranieri morali", che tra gli intimi, quali sono il medico e il paziente che stipulano tacitamente un’alleanza terapeutica. Per questo non sono pochi i medici che continuano a sentire il consenso informato come una pratica estranea allo spirito che anima la loro professione.
Tuttavia, malgrado tutte le riserve, dobbiamo riconoscere che è giunta l’epoca in cui la medicina deve trovare linguaggio e gesti per coniugare la pratica terapeutica con il nuovo clima culturale che attribuisce grande valore all’autodeterminazione dell’individuo. In un articolo dedicato a "Gli sviluppi del diritto alla salute in Italia" (L’Arco di Giano, n. 4, 1994, pp. 53-73) Amedeo Santosuosso ricostruisce il percorso che ha portato all’inizio degli anni Novanta all’esplicito e pieno riconoscimento del diritto alla salute come regola interna del rapporto medico-paziente e come cardine del processo decisionale.
22
Benché sia diventata evidente ― a suo dire ― la distanza
"tra la vecchia rivendicazione dei medici di procurare il bene del paziente (anche senza la sua volontà) e il riconoscimento che il paziente è arbitro della valutazione della qualità della propria vita e che il medico non può sostituire la propria concezione della qualità della vita a quella del paziente" (p. 71)
è possibile pensare a una evoluzione, piuttosto che alla sostituzione di un modello con un altro, previa una dolorosa lacerazione.
La questione, in definitiva, diventa quella dell’uso che si vorrà fare del consenso informato. Non è auspicabile che l’adozione di questa procedura sia svuotata della sua sostanza etica e ridotta a un espletamento formale. In questa ipotesi, sia il paziente che il medico potrebbero riceverne un danno. Il primo rischierebbe di essere trattato da "estraneo", abbandonato al suo smarrimento proprio nel momento in cui ha maggior bisogno di supporto; il secondo vedrebbe scadere il profilo ideale della sua professione, mentre il vecchio equilibrio tra atteggiamento virtuoso e competenza (il medico come "vir bonus", sanandi peritus") si sbilancerebbe tutto verso la seconda parte.
Al consenso informato, quale momento cruciale del rapporto che si instaura non solo tra ricercatore e soggetto sperimentale ma anche tra clinico e malato, non possiamo più sottrarci. E non perché ci siamo messi in testa di scimmiottare l’America: il consenso informato ci è richiesto dalla nuova cultura che sta unificando l’Europa. Ma se vogliamo che l’unifichi per il meglio, non dovremmo dimenticare quella formulazione dell’etica orientata al "prendersi cura" reciproco, come struttura primordiale dell’esistenza umana. Ci possiamo realizzare come essere liberi e autonomi perché l’etica delle cure reciproche fa sì che qualcuno si prenda cura di noi, mentre noi ci occupiamo, in una circolarità delle cure, di coloro che hanno bisogno di noi. Nella salute e nella malattia. Ma sopratutto nella malattia.
Per la pratica della medicina dell’epoca moderna ― quella che ha interiorizzato il principio del rispetto delle decisioni che nascono dall’autonomia dell’individuo, ma nello stesso tempo non abbandona il valore tradizionale costituito dal legale di una particolare alleanza che si stabilisce tra chi offre le cure e chi le riceve ― il consenso informato è uno strumento. Senza mitizzarlo, è opportuno trattarlo in quanto tale, continuando a domandarci a quale modello di medicina vogliamo farlo servire. E soprattutto bisognerà convincerci che sull’uso del consenso informato abbiamo ancora tanto da imparare. Una medicina preoccupata della dimensione umanistica e interpersonale (così come, a livello normativo, ci viene richiesto anche dal riordino del Sistema sanitario nazionale: D.L. 517/1993, art. 14: "partecipazione e tutela dei diritti dei cittadini") dovrà farne un tema privilegiato di ricerca.