La formazione del consenso con la famiglia

Sandro Spinsanti

La formazione del consenso con la famiglia: un orizzonte dell'etica clinica

in Il Policlinico

vol. 97, fasc. 4, 28 febbraio 1990, pp. 142-148

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LA FORMAZIONE DEL CONSENSO CON LA FAMIGLIA:

UN ORIZZONTE DELL'ETICA CLINICA

Vorrei iniziare raccontando qualcosa di personale: non riguardo alla formazione del consenso nella pratica clinica, ma relativo al «consenso dei clinici». Ottenere il consenso dei medici a quel tipo di riflessione che chiamiamo «etica clinica» è un obiettivo che si rivela spesso di non facile realizzazione. Credo che sia un’esperienza comune a tutti coloro che, come filosofi, bioetici, giuristi, teologi, in ogni caso senza appartenere alla corporazione medica, si occupano di ciò che avviene nella pratica della medicina: la prima reazione dei medici al loro intervento in merito all’atto medico è di diffidenza e scetticismo.

In quanto «laici», dobbiamo superare una sottile barriera che si esprime in piccoli movimenti della testa all'indietro, in un sopracciglio alzato con aria interrogativa, in una piega della bocca che accenna appena a un sorriso ironico («Che cosa vuoi sapere tu di medicina?»): una barriera impalpabile, ma reale. Ebbene, mi è capitato di dire a un amico medico che avrei dovuto partecipare a un convegno che si sarebbe occupato della formazione del consenso nella pratica clinica. Puntualmente, ho visto apparire sul suo volto quell’atteggiamento scettico, che ormai conosco bene; la sua bocca intanto formulava la domanda: «Formazione del consenso: che cos’è?». Ho cercato di spiegare, in dieci parole, di che si tratta.

Questa volta non ho dovuto faticare molto per far cadere la barriera. Con il sorriso dell’«Aha Erlebnis», mi ha detto: «Proprio la settimana scorsa abbiamo avuto in ospedale un caso in cui si è dovuto contrattare molto per arrivare a un consenso con la famiglia di un malato. Ma ci siamo riusciti». E mi ha raccontato la storia seguente.

«Il Sig. M., di 70 anni, era ricoverato nel nostro ospedale (una clinica specializzata in pneumologia). Da una broncoscopia risultò un tumore polmonare in stato avanzato, che aveva già raggiunto i due bronchi e la trachea. La forte dispnea aveva reso necessario l’immediato ricorso a una Laserterapia, che aveva portato un leggero e provvisorio miglioramento

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della dispnea. Ciò era accaduto il mercoledì; Il sabato, essendo di servizio, fui informato dal collega del cattivo stato del paziente. La famiglia era stata avvisata dello stato quasi terminale del paziente. Rendendomi conto della situazione critica, stato generale del paziente, feci chiamare subito la famiglia. Questa era composta dalla moglie, due figli verso la quarantina con rispettive mogli e la figlia di circa 30 anni. Il figlio più grande mi parlò per primo e volle sapere come si fosse arrivati allo stato attuale. Gli spiegai che, come già sapeva, il padre soffriva di un tumore maligno a rapida evoluzione. Ciò fu fortemente contestato dal figlio: affermò che nessuno glielo aveva detto. Mi informai presso l'infermiera, la quale mi disse di essere stata presente al colloquio con cui erano stati informati i due figli.

Cercai di spiegare la situazione ancora una volta al figlio; gli dissi che il padre soffriva di un tumore maligno dei bronchi e che le nostre possibilità terapeutiche erano giunte al termine. La morte sarebbe probabilmente sopravvenuta entro poche ore.

Il figlio era interdetto; disse più volte che questo non poteva essere: la settimana prima il padre stava seduto in giardino; poteva ben essere un tumore maligno, ma una morte così rapida non era possibile. Mi supplicò di fare quanto era mio potere per suo padre: la medicina è oggi così progredita che deve essere facile fare ancora qualcosa; avremmo potuto applicare ancora la Laserterapia, ricorrere alla respirazione artificiale o alla macchina cuore-polmoni: per suo padre doveva essere tentato tutto il possibile.

Anche un colloquio con il primario, che discusse la situazione con i due figli del paziente, non li soddisfece. Nell’équipe medica discutemmo se non fosse ancora possibile un intervento con il laser. Ci appariva tuttavia rischioso e, anche se fosse riuscito, avrebbe assicurato al paziente solo una breve sopravvivenza molto dolorosa, in estrema dispnea e senza alcuna possibilità di essere dimesso dall’ospedale. Tutti noi medici eravamo d’accordo che non avremmo dato il consenso per una tale terapia nel caso in cui si fosse trattato di nostro padre.

Nel frattempo il sig. M. era entrato in coma. Discutemmo la situazione ancora una volta al letto del malato, dicendo con parole semplici a tutta la famiglia ciò che prima avevamo deciso tra di noi. Il primario ripeté ancora che l’intervento comportava un altissimo rischio e che egli perciò lo sconsigliava. Chiese poi all’infermiera, che era presente, quale fosse la sua opinione. Questa disse spontaneamente che lei avrebbe lasciato la decisione alla famiglia.

Il primario tracciò ancora una volta i due scenari: da una parte il paziente in uno stato di sapore, verosimilmente senza dolori, che tra breve sarebbe morto, circondato dalla sua famiglia (diventata nel frattempo ancora più numerosa); dall'altra un intervento medico aggressivo, che avrebbe potuto portare alla morte nel caso della broncoscopia e tutt’al più consentire una breve sopravvivenza gravata da insufficienza respiratoria, molto probabilmente senza alcuna possibilità di tornare a casa sua. La sua opinione era che il «non fare» rappresentava la migliore via da seguire, ma che in ogni caso era pronto ad effettuare l’intervento, qualora la famiglia proprio lo avesse desiderato. La famiglia si consultò per circa mezz’ora, dopo di che ci comunicò che non voleva nessun altro intervento. La moglie e la figlia ci fecero capire chiaramente che erano d’accordo con noi; per i figli fu più difficile accettare il «non voler fare qualcosa».

Il sig. M. morì un’ora più tardi. La famiglia ci ringraziò; lasciò l’ospedale in grande cordoglio, ma senza collera».

Quando il mio amico ebbe terminato la esposizione del caso, gli dissi che, a mio avviso, lui stesso e gli altri sanitari dell’équipe avevano seguito un’ottima procedura per ottenere un consenso con la famiglia. Questa era stata un agente in duplice senso: in quanto rappresentante del malato, che non era in grado di prendere una decisione per se stesso, e in quanto soggetto essa stessa, con le sue emozioni, desideri, e bisogni di elaborazione del distacco. «Ecco — dissi — è di cose di questo genere che tratteremo». «Allora mi è successo come a Monsieur Jourdain», fu il mio commento.

Mi aspettavo un altro caso clinico, sotto il nome di Monsieur Jourdain. Sorrise della mia ignoranza e mi disse che M. Jourdain è un personaggio di una commedia di Molière, «Le burgeois gentilhomme». Arricchitosi, assume un precettore per farsi insegnare le cose che un gentiluomo dovrebbe sapere. La prima lezione comprende la spiegazione della differenza tra la poesia e la prosa. Dopo aver sentito ciò che distingue la poesia dalla prosa, M. Jourdain reagisce con vivace sorpresa: «Accidenti, è quarant'anni

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che faccio della prosa e non lo sapevo!». «Anch’io dunque — insinuava con ironia il mio amico — esercitando il mio mestiere quotidiano di medico stavo facendo la formazione del consenso, e non lo sapevo!».

Questa coincidenza tra solida medicina ed etica merita qualcosa di più di un «bon mot». Non sempre chi esercita la riflessione etica per professione si rende conto che egli non sta importando l’etica in campo sanitario come un prodotto estraneo, ma utilizza i suoi strumenti concettuali per mettere in evidenza ciò che già esiste, come una dimensione intrinseca di un lavoro fatto «a regola d’arte».

L’immagine che, a mio avviso, rende in modo più convincente questa situazione è la dottrina della Gestalt applicata alla percezione. Noi non percepiamo i singoli elementi separatamente, ma li disponiamo in complessi strutturati — Gestalten, appunto — distinguendo elementi che costituiscono la figura ed altri che formano lo sfondo. Con la possibilità di invertire il loro ruolo, così che ciò che prima era sfondo diventi figura. Tutti conoscono le «figure ambigue», diffuse dalla corrente tedesca della psicologia della Gestalt. Uno stesso insieme si può vedere, a seconda del ruolo rispettivo che si attribuisce alla figura o allo sfondo, come un vaso o come due profili di facce l’una di fronte all’altra; oppure in una figura ambigua si può vedere un’immagine di giovane donna o una vecchia... Nessun nuovo elemento viene introdotto; semplicemente cambia il gioco di figura/sfondo.

Si può forse osare di concettualizzare il rapporto tra l’aspetto scientifico e quello etico della pratica della medicina ricorrendo alla psicologia della Gestalt: fare della buona medicina come scienza e fare della buona medicina dal punto di vista delle esigenze umanistiche ed etiche è una questione di figura/sfondo. Concettualizzare la pratica nell’uno o nell’altro modo non richiede l’introduzione di nuovi elementi, che non siano già presenti nell’insieme del campo.

I medici, insomma, per fare della medicina che risponda a esigenze etiche non devono cambiare mestiere, né mutuare da un sapere estraneo qualche cosa che non faccia già parte intrinsecamente di ciò che costituisce la loro professione.

Quando i bioetici diventano consapevoli di questo stato delle cose, evitano di comportarsi da «missionari», che si muovono nella medicina come «in partibus infidelium», o quanto meno di essere pedanti come il precettore di Monsieur Jourdain... Ciò evita il rischio di resistenze pregiudizionali da parte dei sanitari e facilita loro l'insight: «mea res agitur». Questo è quanto ho chiamato all’inizio «formazione del consenso dei clinici». Ottenere tale consenso non è solo una strategia di successo per guadagnarsi una «audience»: è un criterio di qualità per l’etica che proponiamo.

Dopo questa lunga presentazione del tema, diventa evidente che in questo scritto non si tratterà della formazione del consenso nella «consulenza familiare» (nel senso tecnico di quest’ultima espressione: in quanto pratica, cioè, rivolta all'aiuto di un sistema familiare che versa in una situazione di necessità psicologica, affinché trovi, in modo non direttivo, una via per introdurre quei cambiamenti che porteranno ad un comportamento più adeguato); tratterà piuttosto della formazione del consenso nella pratica clinica con la famiglia ed attraverso la famiglia.

Che posto occupa la famiglia in quel processo deliberativo attraverso il quale i curanti cercano di fare della «buona

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medicina»? Per rispondere a questa domanda, cerchiamo un primo orientamento nei documenti che esprimono in modo ufficiale le regole di comportamento a cui si attengono i medici: i codici deontologici.

In Europa abbiamo, dal gennaio 1987, una Guida europea di Etica medica, approvata da una Conferenza degli Ordini dei medici della CEE. Se scorriamo il documento, non troviamo alcun riferimento alla famiglia del malato. La guida presuppone, dal punto di vista teorico, una concezione assolutamente individuale del rapporto medico-paziente. I valori centrali, che devono guidare la deliberazione dal punto di vista etico, sono il beneficio del paziente e l’indipendenza professionale del medico (vedi artt. 5, 24 e 25). Questa indipendenza rende il medico impermeabile a qualsiasi tentativo di regolazione sociale della pratica sanitaria (ciò spiega perché, ad esempio, in quest’ottica siano del tutto irrilevanti i problemi che derivano dai costi della salute).

D’altro lato, la forte accentuazione del criterio costituito dal beneficio del paziente presuppone una concezione antropologica che della persona sottolinea più l’individualità che la relazionalità. Il rapporto medico-paziente che ispira la Guida europea è descritto come un contratto tra due individualità radicali, il cui risultato può essere solo un compromesso. Completamente estranea a tale prospettiva è la concezione dell’essere umano come persona relazionale, che si costituisce, dalla nascita alla morte, in una rete di rapporti, dei quali la famiglia è il referente simbolico. Riferendoci ai modelli della bioetica americana, potremmo dire che la Guida europea è il tentativo più riuscito di integrare il principio di autonomia nella sua concezione più radicale.

Nell’ambito culturale mediterraneo sembra, a prima vista, che la famiglia occupi uno spazio maggiore nell’etica medica. Se prendiamo, infatti, il codice deontologico dei medici italiani, nel capitolo che regola i rapporti tra medico e paziente troviamo una menzione esplicita della famiglia. Questa emerge in particolare in quella situazione che per un medico di cultura latina costituisce il dilemma etico per antonomasia: si deve o no comunicare una diagnosi a prognosi infausta a un paziente? A questo proposito il Codice deontologico italiano precedente, elaborato dalla Federazione degli Ordini dei Medici nel 1978, diceva testualmente nell’art. 30: «Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia». La più recente versione del Codice deontologico, approvata l’anno scorso, all'art. 39 afferma: «Il medico potrà valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti. In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico elemento determinante al quale ispirare il proprio comportamento».

Dal confronto tra queste due redazioni, tra le quali intercorre solo un decennio, emergono delle annotazioni interessanti. Anzitutto la parola «famiglia» è stata sostituita da «congiunti». Evidentemente anche in Italia l’immagine tradizionale di famiglia, in cui le relazioni di fatto esistenti rispecchiano sostanzialmente ciò che risulta all’anagrafe, cede il passo a situazioni più mobili e «irregolari». La nuova formulazione permette di equiparare alla «famiglia» del malato anche un convivente, in ogni caso chiunque di fatto abbia un rapporto significativo con il malato.

Un secondo elemento, sostanzialmente

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più importante, è la parte che riguarda la volontà del paziente come criterio di orientamento. È un elemento nuovo nella deontologia del medico italiano, che presuppone il superamento sia del paternalismo medico (il medico sa qual è la cosa migliore per il suo paziente...), sia del «familismo» che immerge la volontà del singolo in un gruppo che la ingloba in modo indistinto. Pur con questa concessione al principio dell’autonomia, nella deontologia del medico italiano permane tuttavia un orientamento relazionale, che obbliga il medico a tenere in considerazione non solo il singolo malato, ma anche la sua famiglia o i suoi congiunti, se si preferisce.

Possiamo forse ipotizzare due modelli nella formazione del consenso, con formazione di «tasso ideale»: l’uno centrato sull’individuo e inteso a tutelare la sua autonomia, l’altro orientato alla persona nella sua dimensione relazionale e preoccupato di promuovere la solidarietà. Come spesso avviene nella riflessione etica, il nostro primo sforzo deve essere rivolto a evitare quella forma di dualismo che induce a collocare il bene e il male tutto da una parte. E neppure dobbiamo cedere alla tentazione di considerare un modello come segno della modernità, e a svalutare l’altro come permanenza di una tradizione destinata a cedere il passo ad una concezione più avanzata.

Certo, oggi è diventato corrente nella riflessione bioetica internazionale denunciare i limiti di un’«etica della giustizia», che non sappia integrare un’«etica del prendersi cura» («ethics of care», nella teorizzazione di Carol Gilligan). Questa etica della giustizia, finalizzata a rendere operante il principio dell’autonomia, non porta a rafforzare i vincoli interpersonali (famiglia, comunità), ma piuttosto a formare fragili relazioni basate sui motivi di utilità. L’etica del prendersi cura, invece, parte dall’assunto che le persone sono dinamicamente interconnesse e che ogni situazione richiede una valutazione contestuale delle interrelazioni. Non basta, quindi, il consenso su ciò che è «giusto» (fairness): il consenso deve tendere a salvare le relazioni. Il giudizio morale non può accontentarsi di un metodo razionale: esso deve includere anche un metodo relazionale.

Quale che sia il credito che si voglia dare all’«etica del prendersi cura» quale correttivo dell’unilateralità dell’etica della giustizia e dell’autonomia, credo che non bisogna mai spingersi fino a gettare su quest’ultima l’ombra del discredito. L’autonomia è un valore importante e va promossa soprattutto in quelle culture nelle quali l’etica medica tende ancora a regolarsi secondo criteri paternalistici. Non vorremmo essere troppo radicali, ma crediamo di poter affermare che nel nostro Paese, per molti medici la «formazione del consenso» non è ancora una dimensione quotidiana che qualifica per loro il fare una «buona medicina»; è piuttosto un «optional» dell’ordine del gratuito.

In un’altra direzione ancora è utile promuovere l’autonomia: non solo contro il paternalismo medico, ma contro le intrusioni della famiglia. Questa rischia di essere una realtà agglutinante, che si sovrappone all'individuo. Il consenso che il medico ,in questo contesto, consegue con la famiglia, può acquistare piuttosto i tratti di una collusione, consapevole o inconsapevole, ai danni del paziente.

Quando parliamo di collusione non dobbiamo pensare solo a situazioni in cui i familiari prendono accordi con il medico, relativamente all’una o all’altra strategia terapeutica che abbia incidenza sulla sopravvivenza del malato, per interessi che possono essere tanto materiali quanto un testamento o un'eredità. Questi sono casi

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che interessano il codice civile ed il giudice, piuttosto che l’etica. Mi riferisco invece a situazioni in cui la collusione con la famiglia ha aspetti molto più sottili.

Un esempio convincente è offerto da un approfondito studio antropologico condotto da Deborah Gordon, un’antropologa americana, sulla comunicazione della diagnosi a donne affette da cancro alla mammella in Italia, in particolare a Firenze. Anche nel caso del cancro alla mammella, la studiosa ha trovato confermato quanto già emergeva da altre ricerche relative a pazienti affetti in generale da neoplasie: la diagnosi non viene comunicata al paziente, oppure ciò che viene comunicato non è degno di essere chiamato comunicazione, perché è fatto di eufemismi e reticenze, quando non addirittura di menzogne, ma alla famiglia; invariabilmente è la famiglia che sceglie, d’accordo con il medico, di sottrarre l’informazione al paziente: tutto ciò con l’esplicita finalità di tutelare il paziente dallo shock, «per il suo bene».

Il contributo dell’antropologa è quello di aver analizzato a fondo i meccanismi culturali sottostanti a questa scelta, che «prima facie» si presenta con motivazioni etiche. Nella cultura italiana, dove esiste ancora una forte associazione fra cancro e morte, sofferenza e mancanza di speranza, la non comunicazione della diagnosi equivale a un meccanismo rivolto a mantenere il «condannato» nel mondo sociale, lasciando la morte e la sofferenza nell’«altro». Quello che domina è la realtà sociale mentre informare un paziente della diagnosi equivale alla morte sociale. «Questo celare la verità», osserva Deborah Gordon, «accentua la esperienza di un mondo diviso. Sotto molti aspetti il cancro è una malattia di divisioni, di separazioni, di diversità. La malattia di per sé è vissuta spesso come «altro», e così pure la persona affetta da tumore è considerata un «diverso». I resoconti che appaiono sia nella stampa medica che in quella popolare presentano una battaglia fra il «bene» e il «male», fra il «benigno» e il «maligno» riaffermando quella interpretazione dicotomica e bene ordinata del mondo alla quale il cancro sfugge».

Se questa interpretazione può essere confermata — se, in altre parole, la pratica di non comunicazione delle diagnosi può essere vista come l’eliminazione dal tessuto comunitario dell’«altro», inteso come simbolo della morte che minaccia il corpo sociale — allora l'apparente modello solidaristico in cui il medico cerca il consenso della famiglia per proteggere il paziente dall'angoscia di morte mostra tutta la sua ambiguità: quell’alleanza è in realtà una collusione, che costerà al paziente una maggiore angoscia e un più radicale isolamento.

Questa «etica del prendersi cura» avrebbe bisogno, in realtà, di una buona iniezione di «autonomia» come correttivo. E il medico, invece di cercare il consenso della famiglia, dovrebbe osar affrontare la disapprovazione di questa, per tutelare il diritto del malato a gestire la propria vita. Il consenso con la famiglia, invece di essere sempre e ovunque una garanzia di una medicina ad alto profilo etico, rischia di costituire una prevaricazione.

Che cosa concludere? Come avviene quasi sempre quando nella pratica clinica l’etica acquista il rilievo della figura e i problemi scientifici diventano lo sfondo, non siamo in grado di indicare una formula risolutiva che abbia validità universale. Non possiamo dire, semplicisticamente, che il coinvolgimento della famiglia nella formazione del consenso sia un di più facoltativo, come sembra lasciar intendere la bioetica centrata sull’autonomia (di fatto, nella maggior parte dei

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protocolli che ad essa si ispirano non è previsto uno spazio per interrogarsi sulla famiglia). Non possiamo neppure affermare che il consenso della famiglia e con la famiglia salvaguardi sempre le esigenze dell’etica. Forse andiamo più vicini alla realtà affermando che i due modelli ideali si devono integrare.

Non sarà facile, tuttavia. La medicina scientifica ritiene superfluo, per il suo sapere sull'uomo malato, l’ambito delle relazioni umane. Anche la bioetica che ha avuto più successo non si è costruita su base relazionale. Evocare la famiglia nella formazione del consenso può avere almeno questa utilità: ricordarci che senza la conoscenza dell’essere umano come essere relazionale, senza contestualizzare le decisioni che lo riguardano nella rete dei rapporti interpersonali, non si può fare una buona medicina in senso clinico. E quindi neppure una medicina etica.