Lettera ai medici di domani

Ada Burrone

LETTERA AI MEDICI DI DOMANI. LA PAURA È CONTAGIOSA, MA LO È ANCHE LA SPERANZA

Attivecomeprima onlus, Milano 2011

pp. 24-25

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POSTFAZIONE

"Todo cambia", cantava l'indimenticabile Mercedes Sosa: "cambia il superficiale e cambia anche il profondo; cambia il modo di pensare, cambia tutto in questo mondo".

Nell'elenco dettagliato delle cose che cambiano la canzone non include il sommovimento che la malattia introduce nella vita quando siamo costretti, improvvisamente, ad abbandonare la terra sicura della salute.

"Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma primo o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell'altro paese".

(Susan Sontag: Malattia come metafora).

Cambia, in superficie, la vita di chi si ammala; ma cambia anche, nel profondo, la relazione tra chi offre le cure sanitarie e chi le riceve.

Cambia il rapporto medico-paziente. Non è una novità: è cambiato altre volte nel corso del tempo. Tanto che uno storico della medicina, Edward Shorter, ha potuto scrivere una monografia intitolata: La tormentata storia del rapporto medico-paziente. Uno dei cambiamenti più spettacolari è avvenuto sotto i nostri occhi, in poco meno di una generazione: la figura del medico ha clamorosamente cambiato di segno.

Era una autorità indiscussa ed è stata messa sotto accusa. Anche giudiziariamente: vent'anni fa le cause intentate ai medici erano una rarità, oggi sono diventate una valanga. Il medico era una figura aureolata di prestigio sociale e di autorevolezza morale: come un buon padre, o una buona madre, prendeva le decisioni per il malato, decidendo al posto suo la terapia e gestendo l'informazione in un modo che prevedeva ampiamente la reticenza e anche la stessa menzogna al paziente. Cambiato il rapporto, tra il medico e il malato si inseriscono moduli per il "consenso informato" e minuziose prescrizioni per la gestione dei dati, sotto l'egida della "privacy". Nei casi migliori, medici e pazienti rischiano di sentirsi estranei, in quelli peggiori nemici, chiusi in posizioni difensive (à la guerre, comme à la guerre...).

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È in un contesto di questo genere che si inserisce la lettera di Ada Burrone ai medici. A quelli di oggi, ma soprattutto a coloro che si preparano a esercitare la medicina domani. La lettera porta la buona notizia di un altro cambiamento possibile, anzi auspicabile. Ancor più: di un cambiamento già iniziato. Ada si fa consapevolmente portavoce di questa avanguardia. Sono persone ― donne soprattutto, passate attraverso l'esperienza del cancro al seno ― che vedono nel medico un alleato.

Non un superpadre al quale affidarsi ciecamente e passivamente, per lasciarsi condurre; non un professionista insensibile e forse anche interessato a guadagni scorretti, dal quale difendersi. Il buon medico di oggi ― e ancor più quello di domani ― esercita la medicina nella consapevolezza che ciò che si richiede da lui è, sì, "scienza e coscienza", ma anche ascolto della persona che affronta il cambiamento richiesto dalla malattia. L'ascolto è il primo passo verso una informazione corretta, non riversata sul malato in maniera brutale. Soprattutto l'ascolto è preliminare al processo della decisione condivisa, nella quale confluiscano, in pari dignità, il sapere clinico del medico e le preferenze della persona malata.

Da parte sua, questo malato che si affaccia dal cambiamento in corso assicura al medico la sua lealtà. Se sarà trattato come un adulto ― ferito, ma non ridotto all'impotenza, minacciato nella sua autonomia dalla paura, ma pur sempre chiamato a "tenere la faccia contro il vento", come dice il poeta Saint-John Perse ― considererà a sua volta il medico come un essere umano. Rispetterà i suoi limiti, se il medico avrà dato prova del giusto impegno. Perdonerà anche le sue debolezze, se non si sarà fatto scudo della maschera da superuomo. Condividerà con il medico la speranza, anche quando è un pane duro e amaro. Perché il modo più umano di vivere la speranza è condividerla. Sullo sfondo della lettera di Ada si profila un rapporto tra medico e persona malata che i Greci avrebbero messo sotto il segno della philìa, ovvero dell'"amicizia".

Per dar ragione a Giuseppe Verdi: "Torniamo all'antico: sarà un progresso".