Medico

Sandro Spinsanti

MEDICO

in Nuovo Dizionario di Teologia Morale

Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990

pp. 736-749

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MEDICO

Sommario

Introduzione: Attualità della ricerca di un’etica per il medico.

I. Medico ippocratico eo medico cristiano:

1. Diversi modelli di ippocratismo;

2. L’ideale della filantropia nell’etica stoica.

II. ’Christus medicus’: le implicazioni etiche di un tema teologico:

1. La formulazione del tema nell’omiletica patristica;

2. La prospettiva apologetica;

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3. Un nuovo atteggiamento verso il malato.

III. Essere medico nella prospettiva messianica:

1. La ‘prassi messianica’ della comunità delle origini;

2. Compiti attuali per la ‘medicina messianica’;

3. Medicina sacerdotale, profetica, messianica.

IV. Essere medico nella cultura della complessità:

1. Pluralismo sociale ed etico;

2. L’obiezione di coscienza;

3. Il consenso attraverso il dialogo.

INTRODUZIONE: ATTUALITÀ DELLA RICERCA DI UN’ETICA PER IL MEDICO

L’attenzione ai problemi della medicina è tradizionale nel cristianesimo. A. von Harnack ha potuto addirittura affermare che il cristianesimo è essenzialmente una religione medica. Il Vangelo stesso è apparso sulla terra come annuncio di un guaritore e di una guarigione. Di conseguenza, la religione cristiana non può essere assente là dove si tratta di contribuire con la riflessione a una delle questioni pratiche che si ripropongono ogni volta che lo sviluppo culturale giunge a una svolta critica: a quali condizioni un medico può essere considerato un ‘buon medico’?

Vir bonus, sanandi peritus: parallelamente all’evolversi delle conoscenze e abilità prerequisite sul versante della competenza scientifica, si delinea in ogni epoca una ‘bonitas’ richiesta al medico per meritare la fiducia che l’individuo e la società gli concedono, e sulla quale si fonda il permesso di esercitare l’arte terapeutica.

La ‘bonitas’ non ha una connotazione esclusivamente religiosa. Anche il pensiero della società civile converge nell’esigere dal medico che abbia buoni costumi. Nella tradizione dell’Occidente il filone laico è rappresentato emblematicamente dal costante riferimento a Ippocrate e all’‘ethos’ detto appunto ippocratico. Senza ‘mores’ non esiste vero medico: è il senso di quell'ippocratismo che produrrà, all’epoca scolastica, minuziosi trattati di ‘etichetta medica’, precorritori dei moderni codici deontologici. La formazione morale è parallela a quella intellettuale, e non meno importante di quest’ultima. Questa esigenza troverà un’espressione ‘ecumenica’ nei tre rami della medicina scolastica ― araba, ebraica e cristiana —, unanimi nel richiedere al medico una perfetta correlazione tra un corpo sano e uno spirito moralmente responsabile. «Il filosofo ― troviamo scritto nel trattato Pratica etica del medico, scritto in arabo da al-Ruhawi, un cristiano nestoriano — cerca solo il vantaggio dello spirito, mentre il medico virtuoso deve cercare il vantaggio tanto del corpo quanto dell’anima. Il medico è così l’uomo che imita, tanto quanto può, gli stessi atti di Dio».

In forza di questa visione religiosa, non si è esitato a considerare l’esercizio della medicina, fino in epoca moderna, come una professione a regime speciale: più ‘missione’ che professione. La missionarietà è stata considerata come fonte di esigenze specifiche, riguardanti sia le motivazioni, sia le modalità con cui la medicina viene esercitata al quotidiano. È un ordine di;problemi che, dopo un apparente affossamento a favore di una concezione esclusivamente scientifica e socializzata della professione, è ritornato di attualità sull’onda del dibattito relativo all’‘umanizzazione’ della medicina. Si è voluto identificare, infatti, nella perdita di idealità e di ispirazione filantropica tra coloro che esercitano l’arte sanitaria una causa del calo preoccupante di qualità che si registra nella pratica medica. Se non si contrasta l’emorragia di anima tra il professionisti della sanità, si avrà una medicina in rapido degrado, malgrado i crescenti progressi tecnici.

Essere un ‘buon’ medico è per un cristiano un’esigenza che richiede una ulteriore specificazione della ‘bonitas’. Un primo livello di quest’ultima è, nei casi di conflitto di valore, la coerenza delle scelte con le esigenze della morale jcristiana. Un medico cristiano potrà dire di avere una vita morale conforme alla sua vocazione se si adegua alle norme della morale cristiana nelle situazioni concrete che si presentalo nella pratica della professione. A tal fine si è sviluppato, all’interno della teologia morale, il capitolo della ‘morale medica’ (ampliatasi

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più di recente, dal punto di vista contenutistico, con i problemi affluenti dalla biologia; in conseguenza di questo ampliamento tematico, è diventata frequente la designazione di questo ambito della morale col nome di ↗ ‘bioetica’). La morale medica ha formalizzato in un corpo dottrinale le regole a cui il medico cristiano deve attenersi in merito all’ ↗ aborto, all’ ↗ eutanasia, alla ↗ contraccezione, al ↗ trapianto di organi, alla ↗ sterilizzazione, al prolungamento artificiale della vita, alla ↗ fecondazione ‘in vitro’, alla creazione e utilizzazione di embrioni [↗ Ingegneria genetica], alla ↗ sperimentazione con esseri umani ecc.

Oltre a questo aspetto formale — è un buon medico cristiano colui che segue le regole morali autorevolmente proposte dalla chiesa, nelle diverse articolazioni del suo magistero dottrinale - emerge oggi sempre di più la ricerca di un ‘habitus’ morale, consistente soprattutto nelle virtù che si attualizzano non solo nei casi di conflitto più clamoroso, ma anche in quella prassi che potremmo chiamare ‘etica al quotidiano’. Da questo punto di vista un buon medico cristiano è chiamato a sviluppare delle ↗ virtù personali, tanto ↗ teologali che ↗ cardinali; a introiettare una concezione antropologica che lo porti ad accostare l’altro essere umano così come lo presenta la rivelazione cristiana; a elaborare uno ‘stile’ di esercizio professionale che lasci trasparire, nel tessuto della sanità contemporanea, quella particolare sensibilità che fa del cristianesimo una ‘religione medica’.

I ― MEDICO IPPOCRATICO E↗O MEDICO CRISTIANO

1. Diversi modelli di ippocratismo

Uno degli argomenti con cui frequentemente si sente rifiutare un confronto specifico del medico con la morale cristiana è quello della ‘sufficienza’ dell’etica professionale elaborata fin dall’antichità, e nella quale tutti i medici fondamentalmente si riconoscono. Per il medico, in altre parole, sarebbe sufficiente modellarsi sull’ideale della medicina ippocratica: tanto basta per essere un ‘buon’ medico. Tale ideale richiede al medico un atteggiamento fatto di accoglienza di qualsiasi malato, di preoccupazione per il bene del malato stesso, di filantropia. L’ispirarsi ad un ideale cristiano può essere, in quest’ottica, un ‘di più’ opzionale, che si può prendere o lasciare senza intaccare la struttura di fondo dell’etica richiesta dalla professione medica.

Il richiamo all’ippocratismo etico non ha necessariamente una valenza anti-cristiana. Talvolta ci si riferisce all’ideale ippocratico con la speranza di poter arrivare a un accordo sostanziale sui problemi di fondo della pratica della medicina, malgrado il pluralismo di orientamenti etici che può far sembrare il dialogo irrealizzabile. Tuttavia, se non si vuole cadere in uno schematismo semplicista (facendo magari dell’ippocratismo uno schermo su cui ognuno proietta il modello ideale di medico che auspica), è necessario considerare diversamente il rapporto tra l'ethos’ medico che deriva con continuità storica dal mondo antico e quello che si ispira ai valori cristiani. A un esame storico, il generico ideale ippocratico si sfaccetta in una pluralità di modelli. Non c’è dubbio che il mondo classico sia arrivato a formulare l’ideale a cui il medico deve aspirare, e gli obblighi che acquisisce verso il malato, in termini di misericordia, solidarietà, fratellanza universale: in una parola, come un'‘etica della filantropia’. Ma questo ideale non è stato l’unico, né si è imposto unitariamente in tutto l’ambiente medico dell’antichità. I diversi modelli che il mondo greco-romano ha espresso hanno un rapporto peculiare con l’animazione etica della professione che deriva la sua linfa dal cristianesimo.

Nell’epoca classica della civiltà greca il comportamento medico non si ispirava agli obblighi verso l’umanità. Negli scritti veramente ippocratici (V sec. a.C.) la ‘filantropia’ è intesa come gentilezza e buone maniere, in pratica come contrapposto della misantropia. I suggerimenti impartiti al medico riguardavano i comportamenti

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più efficaci da tenere nel corso del suo lavoro, al fine di conseguire la fiducia del paziente e distinguersi dai numerosi guaritori ciarlatani. In altri termini, si tratta più di ‘etichetta’ che di etica medica. In questa fase dello sviluppo delle norme per essere un buon medico, l'‘ethos’ è quello di una corretta prestazione esterna. Il medico era, in pratica, un artigiano ed esercitava la sua arte (techne) come gli altri artigiani. L’età classica, come risulta dagli scritti platonici, giudicava il lavoro normale sulla base della competenza e dell’efficienza. Nessuna particolare idealizzazione esaltava la medicina al di sopra delle altre professioni: era considerata un’arte come le altre, estranea a valori come l’intenzione interiore, la motivazione e il cuore. In pratica, a chi esercitava un’arte la filosofia classica non attribuiva la possibilità di un’autorealizzazione etica tramite la professione stessa.

Il medico artigiano aveva una sola credenziale: la buona reputazione. L’acquistava con l’apprendimento, l’abilità, la coscienziosità, la corretta prognosi, e in generale conducendo una vita onesta. Attraverso la porta bassa della ricerca della buona fama (doxa) ― non certo l’ideale più sublime che si possa concepire dal punto di vista etico! ― è entrato così nella cultura dell’Occidente il principio che la-medicina è un’arte in cui la conoscenza è inseparabile dalla moralità.

Il secondo stadio dell’evoluzione dell‘ethos’ medico dell’antichità precristiana presuppone la trasformazione spirituale che si è espressa nell’insegnamento pitagorico e nella filosofia stoica. La filosofia pitagorica comprendeva ideali di giustizia, fortezza, purezza e santità, e soprattutto di profondo rispetto per la vita. Il celebre giuramento attribuito a Ippocrate è molto probabilmente un prodotto dell’etica pitagorica, applicata alla medicina. I medici pitagorici potrebbero averlo redatto come un programma di riforme, e forse anche come protesta contro le pratiche correnti, tutt’altro che ispirate al rispetto per la vita. In seguito il giuramento fu considerato opera del grande Ippocrate, allo stesso modo in cui gli furono ascritte le opere mediche della biblioteca di Alessandria, secondo un processo di accreditamento comune nell’antichità. Gli ideali rappresentati dalla scuola pitagorica fecero da ponte tra il paganesimo e il cristianesimo, il quale, elevando il rispetto e la promozione della vita a imperativo etico fondamentale, avrebbe cambiato i fondamenti della civiltà antica anche per quanto riguarda l’‘ethos’ della pratica medica.

2. L’ideale della filantropia nell’etica stoica

Si deve soprattutto alla filosofia stoica l’aver reso possibile à ogni stato di vita, compreso quello dell’artigiano, il perseguimento di un ideale etico. Anche l'‘ethos’ dell’artigiano medico fu riformulato e la medicina elevata al rango di arte filantropica. La moralità della prestazione esterna, caratteristica dell’epoca classica, cedette così il posto alla moralità dell’intenzione: il medico, secondò Galeno (+ 200 ca.), non può non essere filosofo. Si struttura così in modo compiuto l’umanesimo medico dell’antichità. Esso trova la sua espressione letteraria negli scritti deontologici del Corpus Hippocraticum: il giuramento in primo luogo, ma anche i Precetti, Sul medico, Sul decoro. Composti in epoca ellenistica o addirittura cristiana, rispecchiano nella sua forma più compiuta l’ideale del medico come amore per l’umanità, cioè come filantropia.

A un’analisi più accurata, si riconoscono nei vari scritti sfumature filosofiche diverse. Così nello scritto Sul medicò predominano le virtù della scuola aristotelica: il medico deve essere onesto, prudente, gentile. La sintesi suprema è costituita dal primo paragrafo di questo libro, nel quale il comportamento abituale prescritto al medico è detto kalòs kaì agathós, ‘bello e buono’. Riconosciamo subito la suprema eccellenza dell’uomo nel mondò omerico, la kalokagathìa. Questa non è più privilegio fisico e morale delle stirpi nobili, bensì una virtù accessibile a coloro che praticano con decoro un’arte, in questo caso

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quella di curare. Il buon medico diventa moralmente un aristós, un ‘nobile’.

Precetti e lo scritto Sul decoro mettono piuttosto l’accento su valori stoici, come la saggezza e la scelta razionale. Negli scritti di Scribonio Largo — I sec. d.C. ― l’etica della prestazione materiale e dell’intenzione interiore sono diventate un’unità inseparabile. L’umanesimo stoico trasmesso da Cicerone diventa per Scribonio Largo il fondamento di specifiche virtù professionali. Il medico come filantropo deve misericordia et humanitas a ognuno dei suoi malati, sulla base della fratellanza tra gli uomini. L’amore dell’umanità, che si esprime in un sentimento di simpatia universale, diventa la virtù professionale del medico.

L’ideale etico del medico cristiano dell’antichità si colloca in posizione di continuità o di rottura con l’ideale pagano? La risposta a questa domanda non è semplice: è imbricata con le questioni fondamentali del rapporto tra fede e storia, chiesa e cultura, trascendenza della salvezza offerta ed incarnazione del messaggio. I rapporti tra i valori cristiani e quelli espressi dal mondo greco-romano non sono unidirezionali; è più facile spiegarli mediante un’influenza reciproca. Col diffondersi del cristianesimo il pensiero pitagorico era il più adatto a creare un ponte tra l’ambiente culturale pagano e la nuova fede. Ciò permise la ‘cristianizzazione’ dell’‘ethos’ medico che si era coagulato attorno al giuramento ippocratico: quell’etica fu considerata, infatti, naturaliter cristiana. D’altra parte l’alta considerazione del medico in ambiente cristiano, in quanto la sua attività lo fa rassomigliare al Cristo terapeuta, può aver influito sullo sviluppo dell’ideale stoico del medico-filantropo, che esercita la professione con amore disinteressato nei confronti di tutti coloro che hanno bisogno della sua opera. Una chiarificazione ulteriore dei rapporti tra comunità cristiane e mondo classico nell’ambito della cura della salute ci viene dagli sviluppi del tema del ‘Christus medicus’ nella letteratura patristica.

II ― «CHRISTUS MEDICUS»: LE IMPLICAZIONI ETICHE DI UN TEMA TEOLOGICO

1. La formulazione del tema nell'omiletica patristica

Un luogo privilegiato per osservare i cambiamenti che il cristianesimo, assumendo l’eredità greco-romana, ha provocato in essa, è il tema del ‘Christus medicus’. La designazione di Cristo come medico si trova già nei padri apostolici. Per Ignazio di Antiochia (Eph, 7) «esiste un solo medico, Gesù Cristo, nostro Signore». «Uno è il medico, di carne e di spirito allo stesso tempo, generato e increato, Dio apparso nella carne, vera vita nella morte, proveniente da Maria così come da Dio, prima passibile e poi impassibile, Gesù Cristo, il nostro medico». In un libro di ‘Atti degli Apostoli’ apocrifo troviamo una preghiera in cui ci si rivolge a Gesù con queste parole: «Tu che sei il solo protettore di questi servi e medico che guarisce senza compenso, fusolo sei misericordioso e ami gli uomini (philànthropos), tu sei il solo salvatore (sotèr) e giusto» (Acta apostolorum apokrypha, a cura di R. A. Lipsius e M. Bonnet, Lipsia 1983, n, 2060).

Nella letteratura patristica latina il motivo del Cristo medico è ripreso da Girolamo, Ambrogio, Agostino e diversi padri minori. L’immagine offre l’opportunità di riferirsi ad alcuni aspetti del comportamento professionale del medico, stabilendo allo stesso tempo un parallelo con l’azione di Cristo nei confronti del credente. Così, per quanto riguarda il primo contatto tra il medico e il paziente, viene sottolineato che è il malato che deve rivolgersi al medico, affinché si instauri il rapporto di fiducia; il medico divino, invece, assume lui l’iniziativa con il paziente. Un altro contrasto sottolineato in tutto lo sviluppo storico del motivo è quello tra l’amarezza della medicina usata e l’efficacia terapeutica del mezzo usato dal medico. Secondo Agostino, il Cristo: ha bevuto per primo l’amaro calice della rinuncia e del dolore, affinché il paziente sia animato ad affrontare l’amara ma salutare medicina (cf Sermo 88,7; pl 38,543).

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«Medicina autem ideo inventa est, ut pellatur vitium et sanetur natura. Venit ergo Salvator: ad genus humanum nullum sanum invenit, ideo magnus medicus venit» (Sermo 155,10; pl 38,846s.: La medicina è stata inventata per eliminare il male e guarire la natura. Quando il Salvatore è venuto tra gli uomini, non ne ha trovato nessuno sano, per questo è venuto come grande medico).

Nell’omiletica di Agostino, nella quale il motivo raggiunge la sua massima fioritura, il medico guarisce la natura dell’uomo, è un medico dell’umanità, piuttosto che del singolo individuo. Il tema diventa così una metafora tra le altre per indicare l’opera della redenzione.

Anche gli altri padri latini nell’insegnamento catechetico si servono dell’immagine di Gesù medico per spiegare Come avviene la redenzione. Il ‘Salvator’ opera la guarigione. La minaccia di una malattia è assunta come simbolo della peccaminosità. «Ciò che la malattia e le ferite sono per il corpo, lo è il peccato per l’anima» (Gerolamo, Dial. contr. Pel. III, 11; pl 23,608). Altre analogie utilizzate sono quelle della penitenza come medicina, «Vulnus medicum quaerit, medicus confessionem exigit» (Ambrogio, Ps 40,14; csel 64,237: La ferita cerca il medico, il medico richiede il riconoscimento dei peccati), oppure quella del medico che per soccorrere il paziente gli deve procurare dolore, incidendo o cauterizzando. Per Agostino il motivo del ‘Christus medicus’ è soprattutto simbolo della dottrina teologica della grazia: nello schema della natura e della grazia (la giustificazione come processo di guarigione della natura), il Cristo nella sua morte guarisce col suo sangue, è per il peccatore allo stesso tempo medicus e medicamentum (cf Sermo 302,3; pl 38, 1387). La ‘medicina’ non si può perciò separare dal medico, come una energia risanante che agisce per forza autonoma; nel farmaco, piuttosto, si comunica il medico stesso.

2. La prospettiva apologetica

Il motivo del Cristo medico non è stato, dunque, tematizzato per dibattere questioni etiche; è stato piuttosto utilizzato per interessi dogmatici o, più esattamente, catechetici: simbolizzare l’evento della redenzione, presentando il Cristo come il medico che per mezzo della grazia risana la natura corrotta. Gli aspetti pratici dell’attività terapeutica del medico nel motivo del Cristo medico sono accennati solo di sfuggita (l’iniziativa del medico o del malato, la prescrizione della medicina amara, l’efficacia del farmaco che guarisce le cause), in quanto offrono spunti per illustrare il processo della salvezza in senso teologico.

Oltre alle:implicazioni soteriologiche, il motivo ha anche altre finalità? In passato gli storici hanno molto discusso sul possibile intento apologetico dell’attribuzione del titolo di ‘Medicus’ a Cristo, per contrapporlo al dio greco della medicina, Esculapio. La tesi è stata difesa da v. Harnack e da altri storici, i quali ritenevano che la devozione popolare ad Esculapio avesse costituito una minaccia per il cristianesimo. Il culto asclepiadeo era concentrato in alcuni santuari; i più celebri tra i circa 2Ó0 santuari dell’ambito greco-ellenistico si trovavano a Epidauro, Kos, Pergamo, Roma. Il santuario di Epidauro, in particolare, è descritto come una Lourdes dell’antichità...

La contrapposizione polemica di Cristo medico a Esculapio non sembra, alla rilettura attuale del cristianesimo delle origini, così centrale come era stata fatta sembrare. L’ostilità degli apologisti cristiani contro Esculapio è (iella stessa natura di quella che ha indotto la chiesa antica ad avversare le, divinità greco-romane e la mitologia pagana. Esculapio non costituì un particolare contraltare all’immagine del Salvatore proposta dal cristianesimo. Oggi si tende anche a relativizzare la tesi che proprio la devozione a Esculapio avrebbe indotto a privilegiare il titolo di ‘Salvator’ (soter) attribuito a Cristo.

Tra i due culti esisteva una diversità fondamentale circa l’universalità della salvezza. A differenza di Esculapio, che sii accosta solo a qualcuno, il Cristo ‘Soter’ porta la salvezza a tutti.

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Questa concezione di natura religiosa non è stata priva di conseguenze per quanto riguarda il rapporto tra medico e malato. I cristiani non hanno certo inventato la medicina, che nel mondo classico aveva autonomamente sviluppato sia una grande tradizione scientifica, sia un nobile ‘ethos’; ma il cristianesimo ha trasferito in essa una esigenza di universalità, che affonda le radici nella dottrina teologica dell’universalità della salvezza. In forza di questa universalità, il medico cristiano si sente rigorosamente impegnato verso qualsiasi uomo sofferente. Notava l’imperatore Giuliano, nel IV sec.: «Ciò che fa forti [i cristiani] è la loro filantropia nei confronti degli estranei e dei poveri... È vergognoso per noi [pagani] che i galilei non esercitino la misericordia solo con quelli che condividono la loro fede, ma anche con quelli che venerano gli idoli».

Una prima conseguenza pratica: la deontologia medica classica, che escludeva gli inguaribili dal trattamento, non poteva più essere accettata dal punto di vista cristiano. Il medico del mondo classico si asteneva dal curare i malati per i quali non c’erano prospettive di guarigione, non per carenza di etica professionale, ma per un motivo fondamentalmente religioso. La medicina ippocratica, infatti, affidava come compito al medico quello di agire secondo la physis e il logos. Non forzare la natura era quindi espressione di una certa ‘pietas physiologica’. La sequela del Cristo conduceva invece ad anteporre la ‘philanthropia’ alla ‘physiophilia’, superando la concezione di una natura divinizzata. La cura dei malati più abbandonati e dei derelitti diventò perciò un segno caratteristico della caritas cristiana e della missione della chiesa. I primi ospedali, sorti nel IV sec., dopo la svolta costantiniana, sono un’espressione di quella cura dei malati senza discriminazione, con predilezione per coloro che la scienza medica abbandona, che deriva dall'insegnamento di Gesù.

3. Un nuovo atteggiamento verso il malato

Anche dietro il motivo teologico del ‘Christus medicus’ come simbolo della salvezza offerta a tutti gli uomini pulsa il ricordo storico della dedizione di Gesù ai malati. Esso ha influenzato la pratica sanitaria propria della chiesa antica. Ne è derivato anche un nuovo tipo di rapporto con il malato, che si discosta da quello in vigore nella medicina dell’antichità. Anche quando il modello etico derivato dall’ideale della filantropia avrà raggiunto la sua espressione più compiuta, nella medicina precristiana si nota una considerevole distanza e freddezza nel rapporto tra medico e paziente. La comunità cristiana, invece, non abbandona i malati, ma li fa piuttosto oggetto di un’attenzione particolare. Il modello del comportamento stesso di Gesù con i malati sta sullo sfondo di questa innovazione introdotta nell’atteggiamento verso colui che soffre.

Il motivo del ‘Christus medicus’, benché si sia sviluppato con preoccupazioni principalmente dottrinali, ha svolto anche il compito di fornire nuovi parametri di comportamento in ambito sanitario. In obliquo, ha connotato un modo nuovo di fare il medico, con una passione per l’uomo derivante da un orizzonte di salvezza universale. Un indice che il motivo non avesse solo valore simbolico in riferimento alla redenzione è costituito dal fatto che è stato usato con predilezione proprio dai padri che, come Agostino e Ambrogio, si sono preoccupati di più della cura dei malati. Il medico che si ispira al cristianesimo trova perciò nella sequela di Gesù un nuovo ‘ethos’. Poiché il Cristo nel motivo del ‘Christus medicus’ viene descritto come il ‘medico eccellente’, che si interessa solo del bene del paziente (Clemente Alessandrino, + 212), anche il medico cristiano deve concepire se stesso come strumento di Dio, con la ‘philanthropia’ divina come motivazione. Come afferma Gregorio di Nissa (+ 395) in una lettera al medico Eustasio, suo amico (Opera III, 1,1): «Per tutti voi, che esercitate la medicina, l’amore degli uomini è un’abitudine quotidiana. Mi sembra perciò che giudichino bene, senza esagerare, quelli che pongono la

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vostra scienza al di sopra di tutte nella vita». Indirettamente viene espressa una grande considerazione per il medico che agisce come il Cristo, dando alla ‘philanthropia’ lo stesso orizzonte della ‘soteria’. In questo senso anche il rapporto medico-paziente ha ricevuto una nuova dimensione dall’avvento del cristianesimo.

III - ESSERE MEDICO NELLA PROSPETTIVA MESSIANICA

1. La ‘prassi messianica’ della comunità delle origini

Il confronto fra l‘ethos’ del medico dell’antichità greco-romana e quello che si è venuto gradualmente formulando all’interno della comunità cristiana ci permette di individuare l’elemento che specifica l’etica medica ispirata alla sequela messianica. Il principio formale dell’etica delle primitive comunità cristiane è l’azione modellata su quella del Cristo storico [↗ Sequela ↗ imitazione]. In questa prospettiva il malato diventa un luogo privilegiato della prassi messianica e l’attività terapeutica acquista, secondo il significato etimologico originario di therapeuein, il valore di un ‘servizio’.

Questo ideale etico si demarca da quello naturalistico, in misura analoga a quanto le virtù teologali si differenziano dall’intenzione filantropica. Il terapeuta cristiano tende ad adeguare la sua prassi a quella messianica di Gesù. Nella pratica degli occhi e degli orecchi (vedere la realtà e ascoltarne l’appello) si esprime la fede; nella pratica dei piedi (camminare dietro al Messia, dopo aver abbandonato barca e reti, famiglia, sicurezze) prende corpo la speranza; la pratica delle mani (fasciare le ferite e versarvi sopra l’olio, come il buon samaritano) equivale alla carità.

Che cosa, in concreto, implichi l’assunzione del modello messianico nei confronti dei malati, emerge dai tratti che conosciamo della comunità cristiana delle origini. In essa il malato è considerato un membro cui spetta un posto privilegiato all’interno della comunità. Gli occhi del credente vedono la sua vera realtà, al di là di ciò che gli occhi della carne riescono a scorgere. E anche là dove la visione degli occhi, sia pure illuminati dalla fede, fa difetto, le mani hanno accesso diretto alla realtà della salvezza. Secondo la formulazione di Mt 25, 37-40, nel malato c’è Gesù stesso («Signore, quando ti abbiamo visto malato o prigioniero, e ti abbiamo visitato?... In verità, ogni volta che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me»). La mano del credente, posta nella sequela messianica, si apre a condividere, secondo le esigenze radicali della comunità fraterna (cf At 2,44-47) e a «sostenere i deboli;e gli infermi» (cf 1Ts 5,14). È ancora la prassi della mano quella che vediamo nell’unzione con l’olio, che allevia il dolore e salva il malato (cf Gc 5,14-16) [↗ Unzione degli infermi]. La speranza si traduce in una pratica dell’assistenza ai malati atipica rispetto a quella della società, compresa la pratica d’Israele nell’AT. Guardando all’assistenza agli infermi messa in atto dalla comunità cristiana dei primi secoli, Origene (+ 255 ca.) poté scrivere, con tono di leggero trionfalismo apologetico: «Con i loro bei discorsi* Platone e gli altri saggi greci sono simili a quei medici che trattano solo lei classi elevate e disprezzano la gente del volgo; mentre i discepoli di Gesù si preoccupano che tutta la tavola riceva un alimento sano» (Contro Celsum, 7, 60).

L’attività terapeutica che si sviluppa sulle orme del Messia affonda le radici nelle virtù teologali e fiorisce in comportamenti di ampiezza universale, altruistici e disinteressati nella motivazione. La professionalità del medico che vi si ispira non ha bisogno di complicati codici deontologici, in previsione dei diversi casi che si possono presentare. Anche perché questa medicina; ricca di sentimenti di amore e di accoglienza, è stata tradizionalmente povera, fino ad epoca molto recente, di mezzi terapeutici veramente efficaci. L’ospedale, che raccoglie pellegrini e poveri, non è un luogo dove viene procurata la guarigione, ma piuttosto dove colui che non può guarire viene amorevolmente assistito, fino alla sua morte. Della città ospedaliera

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di Cesarea, fondata da Basilio (+ 379), Gregorio Nazianzeno (+ 390) scriveva: «La malattia vi era sopportata con pazienza; la disgrazia era considerata con gioia e veniva messa alla prova la compassione di fronte alla sofferenza altrui» (In laudem Basilii, 43).

Non molto di più si può dire degli ospedali medievali, la cui funzione era quella di permettere ai malati di fare una morte cristiana. In quelle istituzioni si praticava un’etica della morte, più che un’etica della malattia (a differenza di ciò che avveniva nella medicina per ricchi e altolocati: la minuziosa deontologia scolastica, sopra menzionata, valeva per il medico che si occupava delle classi privilegiate, in senso sociale ed economico). Che questa prospettiva non sia oggi del tutto anacronistica lo dimostrano iniziative come quella di Madre Teresa di Calcutta, rivolte a raccogliere i morenti dalla strada e permettere loro una morte umana. È una riemergenza, ad alta densità simbolica, dell’etica della sequela messianica, che ha dato frutti così luminosi in ogni epoca della storia della chiesa: dagli ospedali dell’antichità e del medioevo alle diverse istituzioni create per assistere ↗ handicappati fisici e mentali, considerati dalla società come casi-limite che non rientrano nello standard di coloro che fruiscono dell’assistenza medica (come i vari ‘cottolenghi’, cronicari ecc.). L’estensione di questa attività di assistenza ai malati di Aids dei nostri giorni non è che un’ulteriore illustrazione della mobile frontiera della medicina messianica.

2. Compiti attuali per la ‘medicina messianica’

La prassi che ha ricevuto il nome di ‘accompagnamento dei morenti’ è diventata un argomento di grande attualità anche nel mondo occidentale sviluppato. Anzi, soprattutto in questa parte del mondo. Un infausto concorso di diversi fattori culturali ha spinto i morenti ai margini estremi della nostra società, facendone i più poveri tra i poveri. La ‘tabuizzazione’ della morte, infatti, stringe intorno al morente una cortina di reticenze, di dissimulazione o di menzogne, che produce come risultato finale la solitudine più totale di colui che affronta la morte. La scienza medica, d’altro lato, è tutta sbilanciata sul fronte della lotta contro la malattia e del prolungamento della vita. Persegue questo obiettivo anche quando l’azione terapeutica si manifesta ; come insensata e controproducente: ― più che prolungare la vita, infatti, prolunga l’agonia e impedisce che la fase finale della vita si concluda nella dignità che spetta a un essere umano. Il ‘furor sanandi’ che porta il medico a impiegare tutto l’arsenale terapeutico di cui dispone, senza domandarsi se ciò sia ragionevole e se faccia effettivamente il bene del malato, ha creato una situazione diffusa di morte sempre più disumana. L’impegno medico, per quanto lodevole nelle sue intenzioni, è disastroso nei risultati: non aggiunge, infatti, vita alla vita, ma solo sofferenze a un morire dilatato nel tempo.

Non è per caso che proprio negli ambienti segnati da una sensibilità cristiana verso gli ultimi sia sorta di recente una nuova attenzione verso i morenti. L’etica messianica mostra di voler raccogliere la sfida che viene dalla nostra cultura tanatofobica, identificando il nuovo bisogno di presenza e rispondendo all’appello muto dei morenti del nostro tempo. Recenti documenti ufficiali di Conferenze episcopali hanno mobilitato la coscienza dei cristiani su questo problema. Iniziative concrete, come quella degli hospices, sono state intraprese nel nome della carità cristiana. Prototipo di questa istituzione è il St. Christopher’s Hospice di Londra. L’intento dell'hospice è quello di fornire congiuntamente l’assistenza medica più adeguata insieme a quella affettivo-relazionale. Ciò implica in primo luogo la scelta dell’ambiente più adatto per concludere la vita. In contrasto con la tendenza a medicalizzare tutti i fatti della vita biologica, dal nascere al morire, con il corollario costituito dall’ospedalizzazione, coloro che si dedicano a umanizzare il morire tendono a riportare l’evento del decesso nel suo luogo naturale: la casa. Quando non

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è possibile trasportare l’ospedale in casa, fornendo domiciliarmente le cure necessarie, la struttura dell'hospice costituisce un valido compromesso. Si tratta, infatti, di una realtà intermedia tra l’ospedale e l’albergo, nella quale viene prestata attenzione al comfort da fornire al morente e ai suoi familiari nella stessa misura con cui ci si preoccupa della terapia, in particolare di quella rivolta a lenire il dolore [↗ Eutanasia].

Il soggetto di questo tipo di ‘medicina messianica’ è meno il medico in prima persona, quanto la comunità nelle sue diverse articolazioni. L’intervento della realtà comunitaria è decisivo per tutte quelle cure nelle quali il sintomo non è una disfunzione passeggera che va rimossa, ma piuttosto l’indice di un malessere profondo. Si pensi, come esemplificazione, ai fenomeni di alcolismo e alle tossicodipendenze [↗ Droga]. La medicina concepita come intervento professionistico settoriale fallisce regolarmente con questo tipo di mali, anche se dotata di mezzi terapeutici efficaci, mentre hanno successo le cure ‘povere’, ma ad alta concentrazione affettiva (gruppi di Alcolisti Anonimi, comunità terapeutiche...). Il ‘Christus medicus’ che emerge in queste situazioni come archetipo del guaritore è la personalità corporativa, che può essere accostata a quello che, da s. Paolo in poi, è chiamato ‘corpo mistico’. Essa ha nella concreta comunità dei credenti il suo segno sacramentale e il suo strumento privilegiato di azione.

3. Medicina sacerdotale, profetica, messianica

La prospettiva messianica sembra mortificare l’opera propriamente terapeutica del medico; in realtà, invece, la dilata. L’atteggiamento verso la malattia e la guarigione che si è chiamato ‘messianico’ si differenzia da due altre prospettive di natura religiosa, ampiamente rappresentate nel mondo biblico e presenti anche al di fuori di esso: quella sacerdotale e quella profetica. Dal punto di vista della religiosità sacerdotale la malattia è un’impurità; il malato va, di conseguenza, segregato dalla comunità, in particolare da quella cultuale (cf Lv cc. 12 e 13). La prospettiva profetica adotta, invece, il linguaggio del ‘dono-debito’ (o peccato): la malattia è considerata come la manifestazione corporea del peccato del cuore, come castigo di una trasgressione etica, come segno di un cammino fuori dell’alleanza (cf Dt 28,15-22). Nella considerazione sacerdotale la risposta alla malattia è la purificazione, mentre in quella profetica è la conversione. I rischi dei due atteggiamenti si manifestano nelle rispettive estremizzazioni: il legalismo per l’una, il moralismo per l’altra.

Al tempo di Gesù i due linguaggi sulla malattia coesistevano. Gesù differenzia il suo atteggiamento messianico tanto dal legalismo (cf Mc 7,1-16) quanto dalla ricerca di una colpa personale dietro ogni manifestazione patologica (il conflitto con l’estremizzazione della prospettiva profetica riveste nell’episodio del cieco nato i toni della polemica teologica: cf Gv 9,1-3). Nella prospettiva messianica l’infermità va relazionata all’azione di Dio: in particolare a quella che si manifesta attraverso il suo Messia. Il Vangelo che egli annuncia con il ministero della parola e con quello della mano, con l’annuncio del perdono e con i gesti della compassione, è una forza che fa vigere. La salute che egli concede non è semplicemente un’assenza di sintomi morbosi, ma un riflesso, sul piano della persona totale, della soterìa, cioè della vita nella sua massima espressione: dal piano somatico a quello spirituale.

La terapia messianica elimina i sintomi e guarisce gli affetti, apre all’azione di Dio e reintegra i rapporti comunitari.: Il medico cristiano, che si situa nella ↗ sequela del Messia, promuove consapevolmente un’azione risanante totale, che supera quella che la scienza! e la società riconoscono come specifica della sua professione.

IV ― ESSERE MEDICO NELLA CULTURA DELLA COMPLESSITÀ

1. Pluralismo sociale ed etico

Nella nostra società non esiste più un consenso unanime su un modello di uomo da promuovere e sui valori

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irrinunciabili, in quanto costitutivi dello specifico umano. La situazione è particolarmente acuta nell’ambito della malattia e della salute: le opinioni su ciò che è bene o male ―e ancor più su ciò che rispetta o offende la dignità dell’uomo ― divergono in modo inconciliabile.

Un caso emblematico è quello delle nuove possibilità procreative, grazie al ricorso a tecnologie bio-mediche. Su fecondazione extra corporea, donazione di gameti, madri surrogate, scelta del sesso del figlio, le valutazioni etiche sono le più disparate. L’unico ‘magistero’ che sembra si sia disposti ad ascoltare, nella cultura della tecnologia avanzata, è quello che si presenta con l’autorità della scienza. Anche le istituzioni più radicate nella tradizione hanno difficoltà a far trapassare i valori umanistici nella coscienza di coloro che aderiscono ad esse. La chiesa cattolica, ad es., in tutto l’ambito della riproduzione, della difesa e del rispetto della vita ha impegnato fortemente la propria autorità morale per promuovere presso i fedeli una prassi in armonia con la concezione personalistica cristiana. E tuttavia le indagini sociologiche rilevano che, per quanto attiene ai metodi contraccettivi, all’aborto e al ricorso alle svariate possibilità della ‘procreatica’ in caso di sterilità [↗ Procreazione responsabile; ↗ Interruzione della gravidanza; ↗ Procreazione artificiale], anche i cattolici tendono purtroppo a orientarsi secondo quanto è proposto con l’avallo della scienza medica, piuttosto che in conformità con le indicazioni dottrinali del magistero ecclesiastico.

Nell’ambito dei nuovi poteri che l’uomo ha acquisito sulla vita e sulla morte, la questione centrale è quella di sapere se una tecnica assicura un progresso per la persona e per la comunità umana, o se, al contrario, comporta un regresso o veicola un rischio di disumanizzazione. Secondo un documento dell’episcopato francese ( Vita e morte su richiesta, 1984), per arrivare a discernere ciò che, nell’ambito di tutto ciò che è fattibile tecnicamente, è compatibile con le esigenze morali, bisogna superare l’ostacolo costituito da una duplice logica corrente: quella del sentimento e quella della tecnica. Ambedue tendono a porre la soggettività al di sopra di ogni norma etica; anzi, la bontà morale nell’azione viene correntemente commisurata sulla sua rispondenza al desiderio: è bene ciò che porta al soddisfacimento di ciò che è sentito soggettivamente come desiderabile. Non si, accetta un principio regolatore del desiderio, come se questo non avesse altra regola che se stesso. La logica tecnica, d’altra parte, induce a perseguire ogni fine realizzabile, spingendo il progetto di dominio della natura fino alla completa disposizione del proprio corpo. In fondo a questo progetto si delinea la figura mitica dell’autopòiesis, cioè l’autocreazione dell’uomo.

La situazione attuale di complessità e di pluralismo di orientamenti etici espone il medico a un confronto con richieste che esigono, più che in passato, il discernimento che si fonda sulla virtù della ↗ prudenza. Anche l’etica greca richiedeva dal medico la phrònesis, ovvero, secondo la definizione di Aristotele, «la capacità di distinguere rettamente ciò che è buono» nelle cose che riguardano il singolo. Il compito etico del medico era tuttavia facilitato dal fatto che la physis (natura) costituiva la base dell’etica, la norma della moralità essendo data dall’applicazione del logos (ragione) alla conoscenza dell’ordine della physis. In altre parole: nell’etica a orientamento ↗ ‘deontologico’ è buono ciò che segue l’ordine della natura, è cattivo ciò che altera questo ordine. L’assunzione della medicina ‘fisiologica’: dell’antichità da parte del cristianesimo medievale ha rafforzato questa concezione naturalista: l’uomo deve adattarsi all’ordine della natura, che in ultima analisi è un ordine divino, in quanto Dio è il creatore della natura e delle sue leggi: ciò facendo egli realizza la ‘giustizia’ e la ‘virtù’.

L’orientamento alla lex naturalis, partecipazione della lex aeterna (cf s. Tommaso, S. Th. I-II q. 91, a. 2), non offre più un criterio di discernimento

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per l’uomo della nostra epoca. Caratteristica della tecnica contemporanea, a differenza di quella greca e medievale, è di produrre «artificialmente degli esseri naturali» (Zubiri). Non produce più soltanto degli ‘arte-fatti’, contrapposti alle realtà naturali, ma interviene in zone sempre più ampie dell’essere vivente, producendo le stesse cose della natura e dotate della stessa attività naturale. L’‘artificialità’ non è più, in sé, un criterio negativo di valutazione morale.

2. L’ ↗ OBIEZIONE DI COSCIENZA

Il medico si trova oggi sempre più spesso sollecitato a interventi che non si situano entro il quadro dell’opera ‘terapeutica’ in senso formale. Si pensi alla richiesta di un figlio ‘a ogni costo’, mediante il ricorso a uno dei numerosi artifici che rendono possibile p attualmente generare un figlio, qualunque sia l’impedimento naturale: interventi che non possono essere qualificati come ‘terapia della sterilità’ in senso stretto, a meno che la sofferenza a causa della sterilità non venga considerata, in quanto tale, una ‘malattia’ da cui la coppia domanda di essere liberata. La decisione di avere un figlio con l’aiuto della tecnologia biomedica può provenire da una donna nubile, o da una coppia omosessuale; può rispondere al desiderio di evitare un rischio fondato di trasmissione di malattia genetica, ma anche a quello di avere un figlio con determinate caratteristiche (si veda il ricorso a inseminazione artificiale con gameti di premi Nobel...). Altre situazioni possono essere ancor più problematiche. La richiesta di cambiamento di sesso è una di queste. Il transessuale [↗ Omosessualità e transessualità], che vive il proprio corpo come ‘sbagliato’ rispetto all’identità sessuale che ha acquisito, può domandare al medico di uniformare la propria realtà somatica a quella ‘giusta’, vale a dire al sesso che ha scelto nel corso del processo di acquisizione dell’identità sessuale. Anche alcuni interventi di chirurgia plastica cadono nella terra di confine tra la medicina come impresa terapeutica e la medicina come possibilità di servizi a vantaggio del desiderio soggettivo.

Ancor prima che l’esplosione della ‘medicina del desiderio’ esponesse il medico a un confronto così radicale con una richiesta che può esprimere valori in conflitto con quelli ai quali aderisce, la professione medica ha elaborato dei criteri per filtrare le richieste che le vengono rivolte. Uno di questi è la deontologia professionale. Questa stessa funzione ha svolto il richiamo costante all’‘ethos’ ippocratico, contenente l’impegno formale del medico a non offrire la sua opera per l’↗ interruzione volontaria della gravidanza; e per l’↗ eutanasia attiva. L’elaborazione di norme deontologiche, allei quali tutti i professionisti si attengono in nome della ‘dignità’ e del corretto esercizio della professione, è una possibilità poco utilizzata nell’ambito medico, mentre potrebbe offrire ai medici un aiuto di non poco conto per discernere ciò che si concilia con lo spirito che anima la professione medica e ciò che invece la contraddice in modo insanabile.

La deontologia corrente si limita, negativamente, a menzionare la possibilità che il medico si opponga sollevando l’obiezione di coscienza, nel caso in qui gli vengano richieste prestazioni professionali in contraddizione con lai sua visione etica. Si ha obiezione di coscienza, in senso giuridico, quando il cittadino rifiuta di adempiere un compito, demandatogli dalla legittima autorità, perché tale compito contrasta con i suoi principi morali. L’obiezione di coscienza, espressione di una concezione sociale liberal-democratica, è riconosciuta in Italia dalla Corte Costituzionale (cf Cost. it. artt. 2, 19, 21) e costituisce un modo corretto di risolvere il contrasto tra la coscienza individuale e la sensibilità sociale, di cui la norma giuridica è espressione.

Il caso più frequente di obiezione di coscienza in ambito sanitario è quello della partecipazione a una interruzione volontaria della gravidanza. La possibilità è prevista dalla legge n. 194 del 22 marzo 1978, che ha introdotto in Italia la possibilità dell’aborto legale. L’art. 9 della legge indica nel «personale sanitario ed esercente

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le attività ausiliarie» coloro che possono legittimamente esprimere il dissenso, pur restando cittadini integrati nella struttura statuale. L’esonero riguarda esclusivamente le attività specificamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, non le altre attività sanitarie che eventualmente precedono o seguono l’intervento. La possibilità legale e deontologica di sollevare obiezioni di coscienza nei confronti dell’aborto è stata ampiamente utilizzata in Italia dai medici, sia in nome delle proprie credenze religiose, sia in nome delle convinzioni etiche secolari.

La recente Guida europea di etica medica, proposta dalla Conferenza degli Ordini dei medici della Comunità Europea (gennaio 1987), prevede: «È conforme all’etica che il medico, in ragione delle proprie convinzioni, rifiuti di intervenire nel processo di riproduzione o nel caso di interruzione della gravidanza o di aborto, invitando gli interessati a ricorrere al parere di altri medici» (art. 18). È importante notare l’allargamento della tradizionale obiezione all’aborto anche ad altri casi indicati genericamente come «intervento nel processo di riproduzione». Ciò si applica ad alcuni metodi contraccettivi, come l’uso della spirale intrauterina. La modalità di azione dei dispositivi intrauterini non è del tutto chiara dal punto di vista fisiologico; la spiegazione più probabile è che impediscano l’impianto dell’ovulo fecondato nell’utero. Equivalgono quindi, in pratica, a un aborto precocissimo. Molti medici, che sono contrari per principio all’aborto, estendono il loro rifiuto a prestare l’opera professionale anche a questo procedimento contraccettivo.

L’indicazione della Guida europea può estendersi anche a numerose situazioni della ‘procreatica’, ovvero della procreazione medicalmente assistita. Senza erigersi a giudice della coscienza altrui, il medico può tuttavia sottrarsi, in nome della deontologia che accetta nel momento in cui entra nella professione, a richieste che ritiene dissonanti con la finalità terapeutica della sua professione.

3. Il consenso attraverso il dialogo

Il regime di complessità in cui il medico deve prendere le sue decisioni etiche lo obbliga a uscire dalla condizione di isolamento e a riscoprire una dimensione della coscienza che è essenziale in una concezione persona- lista: la ‘reciprocità’ (M. Nédoncelle). In termini operativi, ciò richiede il dialogo. Questo non si impone solo per ragioni esterne ed opportunistiche, come può essere la considerazione del pluralismo ideologico nella nostra società; la dialogicità è, ben di più, l’espressione originaria del pensiero etico. Condizione essenziale per il dialogo è la fiducia tra gli interlocutori e la ricerca comune di «crescere verso la verità», del tutto compatibile con la convinzione di essere depositari della verità della rivelazione divina.

Uno strumento ricco di promesse per una prassi di etica dialogica in ambito sanitario sono i Comitati di etica. Questi organismi sono già da tempo sperimentati nei paesi anglosassoni; su di essi si sta appuntando l’attenzione anche in Italia. Anche etimologicamente la parola ‘comitati’ evoca la serie di esperienze umane correlale all’essere con gli altri: ‘comitari’, ‘comes’, ‘communitas’. È fondamentalmente l’esperienza del camminare insieme, del condividere, dell’essere comunità, della coesistenza che si sviluppa in pro-esistenza. L’etica medica del nostro tempo deve assumere questa dimensione, per essere in grado di far fronte alle nuove richieste con le quali si trova confrontata.

[↗ Bioetica; ↗ Salute, malattia, morte]

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