Etica ed economia nella «azienda» sanità

C. Iandolo - C. Hanau

Etica ed economia nella «azienda» sanità

Fondazione Smith Kline

FrancoAngeli, Milano 1992

pp. 11-41

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INTRODUZIONE

ECONOMIA E SANITA’ NEL DIBATTITO DELLA BIOETICA

1. L’impatto dei problemi economici sulla Sanità

Tra economia, politica e Sanità si stanno intrecciando delle relazioni conflittuali, che sfociano talvolta su scelte drammatiche. Invocando l’etica in una situazione così configurata, rischiamo di farle giocare un ruolo polemico e sgradevole: quello di chi si limita a denunciare le scelte che la società e i sanitari sono costretti a fare, sotto la pressione della stretta economica, richiamandosi ai valori fondamentali della convivenza sociale e agli inalienabili diritti umani.

Dall’etica ci aspettiamo, ovviamente, che sappia dire dei chiari “no” nei confronti di decisioni di politica sanitaria che appaiono in conflitto con ciò che riteniamo moralmente buono; ma non solo questo. Nella difficile situazione in cui ci troviamo, nella quale è sempre più arduo conciliare cura della salute ed economia, l’etica può e deve diventare una risorsa a cui attingere, e non solo un sistema di semafori a luce verde o rossa. È questo ampio spettro di compiti dell’etica ― da quello più negativo di controllo e di eventuale condanna di comportamenti a quello più elevato di animazione ideale ― che cercheremo di tener presente nelle riflessioni che seguiranno.

Per fissare con un esempio eloquente il tipo di problemi che le società a sviluppo economico avanzato sono costrette ad affrontare, possiamo riferirci a una decisione presa in ambito di programmazione

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sanitaria. Nella primavera del 1987 la Divisione di “Servizi per Adulti e Famiglie” della stato nord-americano dell’Oregon, incaricata di amministrare il programma statale “Medicaid”, si trovò costretta a decidere tra diverse opzioni. Per ragioni di tetto di bilancio, nei due anni seguenti “Medicaid” poteva o finanziare l’estensione delle cure mediche di base a 1500 persone che in precedenza non ne beneficiavano, oppure continuare a finanziare un programma di trapianto di organi (midollo, cuore, fegato e pancreas) per un progetto rivolto a 34 persone. La Divisione, obbligata a scegliere tra l’interruzione di un programma di trapianti per pochi e l’investimento in cure mediche di base per molti, optò perla seconda ipotesi. Le persone che avrebbero potuto beneficiare di un trapianto di organo venivano così private di una “chance”, che praticamente coincideva con un’opportunità di sopravvivenza.

Il caso dell’Oregon ― riportato dal New England Journal of Medicine 1 ― ha un valore esemplare che ci permette di rapportarlo anche a situazioni, come quella italiana, che presuppongono un’organizzazione sanitaria di altro tipo rispetto a quella americana. La decisione presuppone il riconoscimento che le risorse sono limitate: in una programmazione oculata non solo è necessario scegliere tra quanto si investe in Sanità e quanto va destinato ad altri settori ― educazione, giustizia, servizi sociali, difesa ecc. ―, ma nella Sanità stessa bisogna scegliere tra bisogni in conflitto. Non si può dare tutto a tutti. Per il futuro dobbiamo prevedere con sempre maggior frequenza situazioni di scelte drammatiche, come quella dell’Oregon: di fronte ai costi crescenti della Sanità, nessuno Stato, per quanto florida possa essere la sua economia, potrà sottrarsi a decisioni in merito a programmi da privilegiare, a danno di altri, pur di alto valore umanitario.

Le limitazioni del bilancio sono reali e devono essere applicate anche alla Sanità. Bisognerà anche decidere se e più auspicabile che il luogo della scelta sia quello pubblico e formale della discussione di un preventivo di bilancio, oppure se si preferisce che il razionamento delle risorse segua altri percorsi, magari clandestini, e la scelta tra i diversi

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bisogni sanitari venga fatta tacitamente, facendo prevalere interessi settoriali, grazie alle lobbies che hanno maggiore capacità di esercitare una pressione. Vogliamo un sistema che, nel distribuire le risorse limitate, consideri le caratteristiche del paziente, o preferiamo un sistema che adotti una specie di lotteria? Vogliamo adottare i canoni del mercato, o preferiamo estendere i criteri di scelta che già nell’etica medica sono utilizzati in caso di “triage”?

La decisione di portare il dibattito nel foro pubblico richiede come corollario che si stabilisca chi deve prendere parte attiva al processo deliberativo che porta a suddividere le risorse limitate: se solo i tecnici dell’economia sanitaria e della programmazione, o anche i rappresentanti di associazioni e gruppi di persone interessate; che parte vi devono svolgere i cittadini stessi, malati o potenziali malati, che sono in pratica i più diretti interlocutori di ogni politica di contenimento della spesa sanitaria e soprattutto: il ruolo che spetta ai medici e altri professionisti della Sanità in questo tipo di decisioni. Devono essere coinvolti, o è preferibile tenerli fuori del gioco, per garantire loro che possano continuare a svolgere la funzione insostituibile di difensori del malato, nel suo miglior interesse?

Un’altra lezione che possiamo derivare dalla deliberazione del lontano Oregon è l’esplicitazione del fatto che le scelte di economia sanitaria, tradotte nel concreto, significano opportunità di salute offerte ad alcuni cittadini e sottratte ad altri. Bisogna decidere chi favorire, e a spese di chi, ed eventualmente esplicitare con quali criteri viene fatta la scelta.

Le decisioni relative alle cosiddette “allocazioni delle risorse” sono di diverso tipo, e conseguentemente di diverso impatto emotivo. Quando si tratta di “micro-allocazioni” (per esempio: nel caso in cui più pazienti per la loro sopravvivenza abbiano bisogno di essere ammessi in una Unità di cure intensive, chi deve essere scelto, quando le strutture sono insufficienti per tutti? Analogamente: come procedere in presenza di un numero limitato di incubatrici per numerosi neonati a rischio?), l’emozione connessa con la scelta che compromette la vita di una determinata persona è spontanea e dirompente.

Soprattutto se non si è di fronte a un problema teorico, da

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discutere in una lezione di etica, ma si è coinvolti con malati verso i quali i sanitari sentono gli obblighi connessi con la loro professione, malati con i quali si è già per lo più stabilito un legame personale.

Meno evidente, ma non meno reale, è la drammaticità delle macro-allocazioni. È pur vero che la distanza dalle persone concrete offre una prospettiva che mette al sicuro dall’assalto delle emozioni. In quella posizione si possono prendere più facilmente decisioni difficili. E anche commettere crimini. Lo spiegava il diabolico Orson Welles nel film di Carlo Reed "Il terzo uomo" a colui che lo inquisiva sui suoi loschi traffici di penicillina avariata, con cui causava la morte di numerosi bambini: è solo questione di prospettiva e di adeguata distanza dall’oggetto. La scena si svolge su una ruota gigantesca che gira sul Prater di Vienna; vedendo gli esseri umani da quell’altezza, è più facile dare alla loro morte la stessa rilevanza morale che allo sterminio di un mucchio di formiche. Tanto più ― si potrebbe aggiungere ― se gli uomini li si vede dalla distanza astronomica fornita dalle tabelle delle statistiche....

Tuttavia anche le macro-allocazioni hanno a che fare con la vita e la morte di esseri umani, benché questa realtà sia più difficile da vedere. Analogamente, si può dire che il bisogno di una medicina acuta è più visibile al pubblico del bisogno di una medicina preventiva. Una persona, con nome e cognome, che sta morendo ora, è più visibile di una persona sana che morirà in futuro, se non si adottano le misure profilattiche adeguate.

La scarsità di risorse per la sanità a livello sociale, con i conflitti connessi, è diversa da quella che si incontra nelle micro-allocazioni. Non si tratta della inadeguata presenza di qualche bene, rispetto al bisogno e alla domanda. Questa è la situazione che sì crea quando, ad esempio, c’è un solo organo da trapiantare, mentre due pazienti sono in lista d’attesa. Se il sig. Rossi riceve l'organo, non lo riceverà il sig. Neri; per quanto drammatica sia la scelta, ciò non riguarda la sig.ra Bianchi, che è in trattamento in un altro reparto dell’ospedale per un carcinoma. Ma se ci spostiamo a un livello di considerazione globale della distribuzione di risorse nella società, troviamo che l’interferenza tra questi due processi terapeutici e reale, anche senza essere direttamente visibile.

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È la situazione per la quale Haavi Morrein ha coniato il termine “scarsità fiscale” 2.

In regime di scarsità fiscale, la decisione di usare un antiblastico costoso riguarda non solo altri pazienti che potrebbero aver bisogno di quel farmaco, ma tutti i pazienti nella loro globalità, costretti ad attingere al fondo limitalo delle risorse disponibili per la Sanità. Un milione speso per un paziente che ne ha bisogno, è un milione non più disponibile per qualcun altro. Poiché ogni decisione sanitaria ha un impatto economico identificabile, deve essere sottoposta a un esame che non riguarda solo l’indicazione clinica, ma anche altri parametri di valutazione. Bisognerà così considerare anche se la decisione è saggia dal punto di vista economico e se rispetta un criterio di giustizia relativamente ad altri bisogni in conflitto.

In questo orizzonte appare tutta la rilevanza morale della decisione se privilegiare i trattamenti d’avanguardia per pochi o l’accesso di un più gran numero di persone alle cure di base, come nel caso dell’Oregon.

Se accettiamo il concetto di scarsità fiscale, la necessità di scelte tra interessi in conflitto si ripercuote, al di là delle grandi decisioni di programmazione, anche sui più banali dettagli dell’assistenza clinica quotidiana. Di ogni radiografia, di ogni test di laboratorio bisognerà considerare l’impatto economico in un sistema di risorse limitate; anche queste singole decisioni cliniche, quindi, andrebbero valutate confrontandole con le esigenze della giustizia, che costituisce lo scheletro etico del sistema sanitario.

Il contenimento dei costi non pone solo un problema circoscritto della pratica medica nelle società ad alto sviluppo, ma è destinato a far esplodere un equilibrio precario tra grandi sistemi, quali sono appunto la Sanità, l’economia e l’etica. “La medicina, la morale e il denaro ― ha affermato Albert Jonsen introducendo un volume dedicato al costo della salute ― sono vissuti per secoli in una coabitazione imbarazzante.

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Nella istituzione sociale della cura dei malati ognuno ha bisogno dell’altro, eppure ognuno è a disagio nell’ammettere la presenza dell’altro. La morale, in particolare, è in imbarazzo, quando le si chiede di spiegare perché il denaro e la medicina non sono nemici” 3.

Un’analisi storica dettagliata potrebbe ricostruire le diverse strategie messe in atto per alleviare le tensioni tra pratica medica ed economia. I medici più generosi, ad esempio, erano soliti farsi pagare dai pazienti ricchi, ma dedicavano parte del tempo e delle cure gratuitamente ai poveri; le amministrazioni statali provvedevano in vari modi alla cura degli indigenti; il sistema delle mutue e delle assicurazioni distribuiva su più numerose unità il peso economico della malattia per gli individui. Questi accomodamenti del passato non resistono più agli accresciuti disagi della coabitazione odierna tra medicina, denaro ed etica. “La medicina e la cura della salute ― per riprendere ancora la formulazione del problema fatta da A. Jonsen ― sono ora esplicite imprese finanziarie. L’etica della medicina subisce al giorno d’oggi chiaramente la pressione di diverse costrizioni economiche. I medici, gli economisti e i filosofi devono imparare a capirsi meglio gli uni gli altri, e a sostituire la coabitazione imbarazzante con qualcosa che si avvicini a una chiarezza contrattuale”.

In realtà, la nuova situazione ha prodotto, come prima reazione, la tendenza delle professioni sanitarie a dissociarsi dai problemi che l’economia sanitaria pone al bilancio dello Stato e a non lasciarsi rimettere in discussione. Per una specie di riflesso condizionato, i medici si sono messi in posizione di difesa, in nome dei valori che tradizionalmente sottendono la pratica della medicina.

Preoccupata di difendere i canoni fondamentali del comportamento professionale, la medicina ha trovato un’alleata nell’etica, determinata anch’essa a lasciare il denaro fuori della porta. Si è venuto a creare così uno spontaneo consenso sul fatto che i medici devono tenersi lontani dagli aspetti economici della Sanità, perché l’introduzione di questo punto di vista nel comportamento quotidiano costituirebbe

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la più grave minaccia all’etica medica tradizionale.

Questa gravita essenzialmente attorno al principio di beneficità. In parole semplici, ciò significa che, nel rapporto individuale medico-paziente, il sanitario orienta la sua azione tenendo in considerazione esclusivamente il maggior beneficio del paziente che ha in cura. Il principio di beneficità richiede che il medico faccia tutto il possibile per il paziente, senza tener conto dei costi. Secondo il punto di vista tradizionale, è un’eresia affermare che il medico possa suggerire o eseguire un’azione che sia qualcosa di meno di quanto, nelle concrete circostanze, è considerato “il meglio” per il singolo malato. I medici rivendicano l’autorità morale di essere esentati dalla considerazione dei costi nella loro azione rivolta alla cura della salute.

La preoccupazione per gli aspetti economici è riservata ad altri, amministratori e politici. Decidere sulla distribuzione delle risorse e compito della società, non del medico. È la società che, attraverso gli organi istituzionali e i meccanismi appropriati, deve stabilire quanto investire nei vari servizi: cura delle malattie acute, prevenzione e ricerca; trattamento delle malattie comuni o di quelle rare; priorità agli anziani o ai giovani; dedicare risorse a coloro che sono socialmente produttivi o a coloro che non lo sono. Se i medici si occupassero di queste decisioni, snaturerebbero il carattere della loro professione.

Un secondo pilastro della moralità medica tradizionale è il riferimento alla sacralità della vita e il rispetto assoluto di essa. Negare o sottrarre un trattamento terapeutico, anche se marginalmente benefico, sulla base della considerazione dei costi della cura o anche di una valutazione razionale del rapporto costi-benefici, è considerato una violazione del principio assoluto della sacralità della vita che deve ispirare l’azione del medico. Vita umana e denaro sono due grandezze non equiparabili, che l’etica medica rifiuta di mettere su due piatti della stessa bilancia.

Oltre a questi motivi di opposizione in linea di principio a ogni progetto che voglia fare dei medici uno strumento attivo di una politica sanitaria rivolta al contenimento della spesa, ne possiamo individuare altri di profilo meno elevato, che non attingono argomentazioni dagli orientamenti più consolidati dell’etica medica. Sono quelli che derivano

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dall’autocomprensione della medicina quale professione liberale 4. Anche in una società come la nostra, che ha ampiamente socializzato le cure della salute, i medici continuano a opporre una profonda resistenza a una integrazione della società, quale terzo pagante, nel rapporto tra medico e paziente. “Ogni volta che tratto un malato ― soleva dire un illustre clinico dell’inizio del nostro secolo, medico personale del cancelliere Bismarck ― io sono solo con lui su un’isola deserta". Idealmente, i medici amano rappresentarsi su quell'isola, anche se marcano il cartellino dell’ospedale e ricevono lo stipendio dalla USL.

I riflessi condizionati che spiegano la resistenza dei medici e dell'etica elaborata dalla loro professione a lasciarci coinvolgere nella preoccupazione di ridurre i costi della sanità sono comprensibili e ampiamente condivisibili. Tuttavia questo atteggiamento di disimpegno rischia di rivelarsi estremamente controproducente, dal punto di vista della stessa etica medica. Le decisioni sulle inevitabili restrizioni del bilancio saranno prese in assenza degli interlocutori qualificati e parli in causa, quali sono appunto i rappresentanti delle professioni sanitarie e della riflessione etica. Magari da puri “tecnici” dell’economia sanitaria, che rischiano di introdurre surrettiziamente dei valori nelle loro scelte, senza averne consapevolezza: ma valori puramente economici, a danno dei valori umani che l’etica professionale vuol tutelare (non a caso in inglese l’economia politica è chiamata, con amara ma azzeccata ironia, “the dismal Science”, dove “dismal” equivale a “lugubre”, “deprimente”....).

Rifiutando un positivo ripensamento della triade medicina- denaro-etica, si perde un’opportunità unica di accedere a nuove prospettive che riguardano l’esercizio della professione medica, la concezione della salute, il ruolo della giustizia nella convivenza sociale. È soprattutto questo orizzonte positivo di crescita nella consapevolezza e di elaborazione di migliori risposte alla complessa situazione che stimola l’etica, in un serrato dialogo con la riflessione prodotta da

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coloro che esercitano le professioni sanitarie, a confrontarsi con la sfida che i problemi economici pongono oggi alla Sanità.

Per definire questo nuovo orizzonte il neologismo “bioetica” si rivela quanto mai opportuno. Sia nei suoi contenuti che nel suo metodo, la bioetica si differenzia dalla tradizionale etica medica. Per l’approccio dei problemi connessi con le scelte relative al prezzo della salute abbiamo bisogno dell’apporto di diverse discipline e pratiche professionali (e, conseguentemente, anche di diverse etiche professionali), nonché di un confronto che si ispira più all’etica civile (intesa a esprimere quel consenso sui valori e sui mezzi pratici per promuoverli che si crea nella società pluralistica e secolare) che all’etica dipendente da sistemi dottrinali. A servizio di queste esigenze si è costituita, appunto, la bioetica.

Per cogliere la rilevanza che la dimensione economica della Sanità ha perla bioetica, può essere utile uno sguardo alla presenza della problematica in questione nella Encyclopedia of Bioethics 5. L’opera, pubblicata negli Stati Uniti nel 1978, accompagna le origini stesse della bioetica in quanto disciplina. Ancor più, si può dire che ha contribuito in modo determinante a costituire il nuovo campo disciplinare, quando il termine stesso “bioetica” circolava solo da pochi anni, e per di più con una semantica piuttosto incerta. Nell’Enciclopedia non è ancora presente quanto sarebbe poi emerso nel dibattito degli anni ’80; tuttavia è già pienamente esplicitato l’interesse della bioetica per questo ordine di problemi e sono contenute “‘in nuce” le linee direttrici che la riflessione bioetica avrebbe poi sviluppato nel decennio seguente.

La voce “Razionamento del trattamento medico” (che assume come equivalenti il concetto economico di “razionamento” e quello più comune alla letteratura etica e medica di “allocazione”) identifica un compito importante perla bioetica: esplicitare, anche nei confronti del pubblico, i criteri utilizzati dai medici nell’assegnazione delle scarse

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risorse. L’accesso alla dialisi e il trapianto renale erano considerati all’epoca come paradigmi per tutte le altre risorse limitate. Il ruolo individuato per l’etica non è tanto quello di identificare il sistema più perfetto, quanto quello di identificare i criteri ingiusti o ingiustificati, che spesso vengono utilizzati dai medici inconsapevolmente. La scelta tra diversi bisogni sociali e quella relativa alla preferenza da dare alla medicina preventiva o a quella curativa cominciano appena a emergere all’orizzonte dei problemi teorici. Anche l’articolo sulla “Giustizia” affronta il tema dell’allocazione delle risorse mediche scarse. Come parametro di riferimento vengono utilizzate le esigenze che derivano dalla giustizia distributiva (come devono essere distribuite le risorse mediche tra i cittadini di uno stato democratico? Problemi di questo genere devono essere regolati da procedure di libero mercato, da un calcolo utilitaristico, oppure da un diretto riferimento a un principio di giustizi a, che proclama un uguale diritto per ogni persona alla cura della salute, indipendentemente dal reddito, dalla posizione geografica o dai servizi resi alla società?). Gli esempi sono tratti dai conflitti presi in considerazione dalla più classica etica medica nelle situazioni che prevedono un “triage” (come la scelta di quali feriti trattare e quali no, da parte di un medico che si trovi a operare in un affollato ospedale da campo; oltre, naturalmente, le più moderne situazioni del trapianto di organi e del criterio con cui formare liste di attesa per trattamenti salva-vita). Non manca nel disegno dell’Enciclopedia neppure un abbozzo di una prospettiva assolutamente innovativa per l’etica: quella degli obblighi nei confronti delle future generazioni e del loro benessere, che pongono dei vincoli al nostro uso delle risorse, all’impatto dello sviluppo sull’ambiente e alla crescita demografica incontrollata (si vedano le voci “Etica ambientale” e “Obblighi verso le generazioni future”).

Quello che la bioetica ha intravisto fin dal suo momento costitutivo, si è sviluppato come uno dei temi di maggiore carica innovativa e di più intenso pathos del dibattito sociale nel periodo susseguente alla pubblicazione della Enciclopedia di Bioetica. Le sue indicazioni ci accompagneranno nell’esplorazione dei nuovi orizzonti che si stanno aprendo su una diversa pratica della medicina, su una concezione della

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salute più fondata in senso antropologico e su una visione più ampia dei nostri doveri di giustizia.

2. La revisione del ruolo medico

Il problema del contenimento dei costi della sanità, lungi dall’essere un argomento marginale della medicina, da lasciare agli specialisti dell’economia, è centrale nella pratica medica dei nostri giorni ed è destinato a indurre dei profondi cambiamenti in essa. I medici esprimono il timore che da questa trasformazione la loro professione possa uscire profondamente danneggiata, per la perdita di quei valori che tradizionalmente reggono i loro rapporti con i pazienti.

Sono preoccupazioni serie, che vanno considerate attentamente: il rapporto fiduciale in medicina non è un “optional”, a cui possiamo rinunciare a cuor leggero. Il diritto-dovere del medico di fare ciò che è in suo potere per il migliore interesse del malato che ha in cura è un punto acquisito sul quale non si può transigere. Ciò concesso, è necessario considerare da una prospettiva più ampia e comprensiva i cambiamenti che la pratica della medicina deve affrontare.

La pressione dell’economia è destinata a darci una medicina più consapevole del costo della salute; ma non meno importante è ciò che avviene in profondità, dove si stanno modificando i legami tra la professione medica e la società, nonché il rapporto convenzionale tra medico e paziente. Solo la considerazione dell’insieme di tutti questi elementi, che agiscono in modo contestuale, ci dà la piena misura del processo di trasformazione che la medicina sta attraversando.

Il mandato accordato dalla società alla professione medica sta cambiando. Per dirlo con una metafora, il medico non è più considerato come “capitano della nave” 6. Fino a una ventina d’anni fa, l’immagine corrispondeva fedelmente alla realtà. Il medico era visto come responsabile in prima persona di ciò che succedeva nell'ambito della

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terapia, allo stesso modo di un capitano sulla sua nave. A questa suprema responsabilità corrispondeva una delega di autorità: il medico non doveva rispondere a nessuno della pratica della sua arte. Chiamare il medico a rendere conto del processo che lo conduce a una diagnosi e delle sue scelte terapeutiche era un’evenienza del tutto eccezionale. Tutt’ora nella nostra società ― diversamente da quanto avviene in quella americana ― la citazione di un medico davanti a un tribunale penale o civile con un’imputazione di malpractice e una procedura non troppo frequente.

Molti fattori concomitanti stanno però portando al cambiamento di questo paradigma. Sicuramente none estraneo allo spodestamento del medico dal ruolo di capitano lo sviluppo di nuove professioni sanitarie, che hanno progressivamente rimesso in discussione la centralità della funzione medica. Ma probabilmente non e esagerato affermare che niente incide in modo tanto profondo ed efficace nel rapporto tra i medici e la società quanto le regolazioni economiche dell'esercizio della professione sanitaria.

Nella nostra esperienza nazionale il cambiamento e avvenuto attraverso l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, col rischio, tante volte denunciato, di far assumere al medico l’atteggiamento burocratizzato del funzionario pubblico, permettendogli al tempo stesso la fuga nell’attività privata per la gratificazione economica. Basti qui un accenno, dal momento che questi problemi relativi alla situazione italiana saranno ampiamente trattati nel corso del volume.

Può essere invece interessante fare qualche considerazione su come le modifiche al sistema retributivo dei medici, legate al contenimento dei costi, stiano cambiando il rapporto tra medici e società, e la pratica stessa della medicina, nella società americana. Ancora una volta, non per omologare esperienze essenzialmente diverse, ma per individuare delle costanti comportamentali generalizzabili in forza del loro valore esemplare.

Per capire lo sviluppo, va premessa un’annotazione generale relativa all’incidenza dei costi economici sulla cura della salute. Durante tutto lo sviluppo della medicina che va dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’70, i costi economici erano marginali nell'attenzione

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professionale dei medici ed estranei alle loro preoccupazioni morali. Quando, negli anni ’80, la rapida crescita delle spese sanitarie ha portato al diffondersi di misure di contenimento del costo della salute, i medici si sono trovali a giocare un ruolo centrale nelle allocazioni delle risorse: un ruolo per il quale non solo non erano preparali, ma che sentivano come antitetico rispetto agli obiettivi della loro professione.

Prima si sentivano liberi di offrire tutti gli interventi sanitari che potevano portare un beneficio al paziente, sapendo che il paziente stesso o una terza parte (il "terzo pagante") avrebbe coperto i costi. Il problema morale sorgeva eventualmente solo nei confronti di quei cittadini in cattive condizioni economiche che, non coperti da assicurazione o da altre forme di tutela sociale, non potevano accedere alle cure sanitarie di cui avevano bisogno (ed eventualmente in presenza di nuove tecnologie ― come la dialisi renale ― necessariamente inferiori di numero rispetto alle richieste, e quindi causa di situazioni conflittuali relative alla micro-allocazione delle risorse). Ma, in generale, si può affermare che il medico era estraneo ai problemi dell’economia sanitaria.

L’abile mossa della politica sanitaria americana degli anni ’80 e stata quella di introdurre i medici nelle conseguenze economiche delle loro decisioni di spesa. Le misure utilizzate per rendere i medici responsabili in senso economico hanno obbedito alle logiche sia del bastone che della carota, col ricorso cioè sia a controlli fiscali che a incentivi economici.

Le manovre di controllo dell’operato del medico, prevalenti negli Stati Uniti nel corso degli anni ’70, hanno cercato di contenere i costi imponendo limitazioni sulla disponibilità di risorse e impartendo direttive sul loro uso. Si è avuta così una restrizione diretta di opzioni mediche (per esempio, il terzo pagante può escludere la copertura di certi servizi o interventi, come il trapianto cardiaco), oppure la richiesta di autorizzazioni preventive (l’ospedale può domandare ai medici di sottomettere a un’approvazione amministrativa il ricorso a terapie particolarmente costose).

Qualunque sia la sua efficacia dal punto di vista economico, questa via si è dimostrata praticabile solo in misura mollo limitata. La

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sua debolezza consiste nel fatto che le autorità economiche sono chiamate a emettere giudizi essenzialmente medici. È facile rendersi conto che, compromettendo la libertà del medico, si minaccia al cuore l’esercizio della medicina e non si può più garantirne l’alto livello di qualità.

Un’altra strategia, molto più efficace, adottata dalla sanità pubblica americana è stata quella di provocare il passaggio dal pagamento retrospettivo, corrisposto a medici e ospedali per le loro prestazioni sanitarie, a un finanziamento prospettico. Il pagamento è cioè correlato alla malattia, valutata secondo una media di trattamento e di spesa standardizzati. Il sistema di “Perspective Financing” noto come DRG (“Diagnosis Related Groups”, introdotto a livello federale per il programma Medicare nell’ottobre 1983) è la più conosciuta tra queste misure. L’ospedale che adotta il DRG viene rimborsato secondo la natura della malattia trattata. Ogni paziente viene collocato in una categoria tra le 468 previste, a seconda della diagnosi principale, diagnosi secondarie, complicazioni, età, sesso e altri fattori. La formula per calcolare il rimborso comprende anche la natura e l’ubicazione dell’ospedale.

L’incentivo economico è molto chiaro; se il costo della cura è minore del rimborso, l’ospedale può intascare il profitto; se la cura è più costosa, l’ospedale ci rimette la differenza. Mentre, quindi, nel sistema di pagamento retrospettivo l'interesse dell’istituzione sanitaria è di fare il più possibile, in quelli a pagamento prospettico i rapporti si invertono: l’incentivo economico induce a offrire al paziente il meno possibile.

Si tratta del primo piano su vasta scala capace di modificare sostanzialmente il comportamento sia dei medici che degli ospedali. Esso non ha conseguenze solo nello stimolare l’inventiva finanziaria degli amministratori della sanità, ma influisce anche sul modo in cui vengono fomite le cure mediche.

È un cambiamento che comporta notevoli conseguenze sul piano del rapporto medico-paziente e dell’etica relativa. Questa pressione sui medici per renderli responsabili del contenimento delle spese sanitarie ― le loro decisioni circa quali pazienti ammettere in ospedale e per quanto tempo, quali prodotti e servizi offrire e a chi, determinano

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in modo decisivo la spesa ― modifica la fisionomia degli obblighi del medico nei confronti dei pazienti. Il nuovo ruolo che gli viene attribuito non e più quello di avvocato del paziente; il sanitario viene piuttosto assimilato alla “terza parte”, quella pagante, mossa da motivazioni che non sono unicamente quelle di provvedere il massimo benessere possibile per il singolo paziente.

Le nostre società ad alto sviluppo economico dalla seconda guerra mondiale in poi hanno mirato a offrire a tutti i cittadini la più alta qualità di cure mediche, senza riguardo al costo. Considerare come unico titolo all’assistenza il bisogno, indipendentemente da altri parametri, compresa la capacità di spesa, è stato un obiettivo di alto valore civile e morale. Ora queste stesse società si vedono costrette dalla spirale dei costi a restrizioni nell’uso di risorse mediche ordinarie; è un cambiamento grave, ma comprensibile e ancora tollerabile. Ciò che invece costituisce una fonte di grave perplessità e il coinvolgimento diretto dei medici in questa strategia economica, in quanto il loro ruolo tradizionale nei confronti della società e dei malati ne risulta modificato.

A questo punto può subentrare anche un insidioso conflitto di interessi personali del medico. Nel sistema di pagamento diretto, la tradizionale etica professionale del medico che lo porta a servire gli interessi del paziente si armonizza con il proprio interesse. Se il paziente riceve tutti gli interventi sanitari di cui la medicina e capace, compresi quelli che promettono benefici solo secondari, tutt’e due ne ricavano un vantaggio. Si possono giustificare anche interventi futili, purché portino un beneficio di qualsiasi genere. Riserve morali serie possono sorgere solo quando i medici, infrangendo il principio “primum non nocere”, raccomandassero interventi che si rivelano completamente inutili o addirittura dannosi.

Ma quando il medico è incentivato a restringere il più possibile le prescrizioni, lo scenario cambia. Per nuocere al paziente, è sufficiente che il medico utilizzi il silenzio e gli sottragga informazioni. Se, per considerazioni di ordine economico, non menziona interventi o cure possibili, il paziente non può neppure prendere in considerazione l’eventualità di ascoltare il parere di un altro medico. Astenendosi

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dall’informare il paziente sui trattamenti terapeutici che sarebbero possibili per lui, ma appaiono sconsigliabili dal punto di vista del contenimento della spesa sanitaria, il medico infrange l’alleanza terapeutica con il paziente. A meno che non si immagini una comunicazione brutale di questo genere: “Un trapianto cardiaco sarebbe indicato nel suo caso, ma purtroppo la società non se lo può permettere!”... 7.

L’introduzione di un nuovo sistema di retribuzione per medici e ospedali, attuato nella sanità pubblica americana, ci permette di intravvedere, in termini estremistici e allarmanti, il possibile scollamento tra gli interessi delle istituzioni sanitarie e dei professionisti della sanità, e quelli dei malati. Ma per comprendere tutta la portata dei cambiamenti in atto nella pratica della medicina dobbiamo fare un passo ulteriore e considerare un’altra discrepanza, ancor più preoccupante: quella tra i valori del paziente e le potenzialità di intervento della medicina più avanzata.

La coincidenza tra gli obiettivi soggettivi dei pazienti e le capacità della medicina si è realizzata in modo armonioso nella storia recente durante lo sviluppo che la sanità ha conosciuto negli anni ’40 e ’50. Le malattie paradigmatiche di quel periodo erano le affezioni infettive. Se i pazienti avevano, per esempio, la polmonite ed esisteva un farmaco efficace come la penicillina per curare la malattia fatale del paziente, l’azione medica si trovava circoscritta entro tre parametri ben definiti: la conoscenza clinica del medico, la volontà del paziente di ricevere il trattamento e l’intervento medico appropriato (che si può dire, relativamente parlando, di basso costo e di alta efficacia).

Lo scenario dei nostri anni vede invece come predominanti le malattie cardiovascolari, il cancro, le affezioni degenerative e croniche. Rispetto a queste malattie, tutte i parametri sopra citati sono rimessi in discussione e la precaria armonia raggiunta nella generazione precedente è compromessa. Non esiste un consenso sugli interventi medici

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migliori. Non è più evidente che il paziente voglia ricevere ogni trattamento possibile, e forse neppure il trattamento standard, in quanto il suo punto di vista soggettivo, i suoi valori e le sue preferenze potrebbero essere in stridente contrasto con quanto gli viene proposto dalla prassi medica. E, infine, l’equazione tra costi ed efficacia dei trattamenti è sbilanciata a favore dei primi.

In pratica, perciò, la decisione clinica diventa molto più complessa, dovendo tenere in considerazione tutti questi elementi. Se nel trattamento di un caso di cancro bisogna procedere con un intervento chirurgico, o irradiarne, o con l’esposizione del paziente a una chemioterapia tossica, oppure è preferibile rinunciare a qualsiasi intervento perché il beneficio del paziente è irrilevante rispetto ai costi umani o economici; quale trattamento, o astensione dal trattamento, sia più consono alle scelte di vita del paziente e favorisca maggiormente la sua autorealizzazione esistenziale sotto il segno dell’autonomia; tutte queste considerazioni, necessarie per fare oggi della “buona medicina”, sviluppano un clima di incertezza che non concede sicurezze a priori. Il ricorso all’evidenza scientifica e tecnica non basta; la clinica di oggi richiede un coinvolgimento profondo nelle aspettative personali e nei valori soggettivi che le sostengono.

Queste riflessioni relative al mutamento in corso nella pratica medica non costituiscono un diversivo rispetto ai problemi concreti di bilancio della sanità e di contenimento delle spese; ci offrono piuttosto lo sfondo che permette di intuire risposte che eccedono la dimensione economica. Lungi dal poter risolvere la situazione ricorrendo a un libro di cucina che ci dia delle ricette semplici di economia sanitaria, dobbiamo cominciare con l’ammettere la nostra inadeguatezza nello stabilire il valore medico degli interventi propri della medicina dei nostri giorni, considerando le molte variabili della condizione umana a cui la medicina si applica.

L’analisi più completa della situazione ci invia in due direzioni apparentemente opposte: un maggior ricorso alla tecnologia informatica e una rivalorizzazione del dialogo tra terapeuta e paziente. Circa l’efficacia delle misure diagnostiche e terapeutiche contenute nell’immenso arsenale della medicina moderna, il computer ci permetterà di

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fare il passo dalla conoscenza aneddotica, basata sull’esperienza personale, a una conoscenza scientifica effettivamente generalizzabile sull’efficacia del trattamento; nell’altro versante, la parola renderà possibile un diverso stile comunicativo, rispetto al “mondo del silenzio” 8 che predomina ora nella relazione terapeutica.

Computer e ascolto del paziente; potenziamento della tecnologia per abbattere i costosissimi sprechi dovuti a conoscenze mediche ancora troppo imprecise, e tempo riservato al dialogo. Queste esigenze bizzarramente divergenti si incontrano nella pratica di una medicina rinnovata sulla base della centralità del paziente e sulla sua condivisione della responsabilità, non più riservata in modo esclusivo al “capitano della nave”.

La legittima preoccupazione di contenere i costi, pur essendo un problema nuovo e potenzialmente capace, come abbiamo visto, di trasformare la pratica della medicina, non è ancora il “cambiamento di paradigma” di cui la medicina dei nostri giorni ha bisogno. La grande innovazione e piuttosto la partecipazione del paziente nel processo decisionale del medico (procedura estranea, di per sé, all’ethos della medicina di stampo paternalista), da ottenere mediante l’esercizio di una reale comunicazione.

Un filo diretto sembra quindi legare le strategie di riduzione del costo della salute e l’esigenza che tra medici e pazienti circoli la parola, si instauri un vera comunicazione. La pur nobile concezione tradizionale, secondo cui l’alto profilo umanitario della medicina consiste in servizi resi disinteressatamente e “silenziosamente” al paziente, deve cedere la priorità alla convinzione, non meno tradizionale, del valore del dialogo tra gli esseri umani per giungere a una composizione soddisfacente di interessi divergenti. Anche quando a dialogare siano una persona malata e coloro che si prendono cura della sua salute.

Questa prospettiva ci permette di affermare che “il più” ― nel senso di interventismo terapeutico, di innovazione tecnologica e di investimento economico ― non coincide sempre con “il meglio”. Anzi,

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i problemi bioetici più acuti dei nostri giorni sembrano provenire più dall’eccesso che dalla carenza (si vedano le situazioni etichettate come “accanimento terapeutico” e le richieste di limiti all’interventismo medico in nome della volontà soggettiva di conservare la dignità umana anche nella fase terminale della vita).

Se “il più” non equivale, quindi, al meglio, “il meno" non corrisponde necessariamente al peggio (in sanità come in altri ambiti: anche nell’estetica, secondo il principio stabilito dall’architettura funzionale, “il meno contiene il più“...). Molti pazienti riceveranno benefici se la pressione esercitata dal contenimento dei costi limiterà gli interventi non necessari, ridurrà i danni iatrogeni ―cioè provocati dalla medicina stessa ―e punterà più sulla qualità della cura, che equivale spesso a un prezzo minore. Paradossalmente, le richieste più vive di rinnovamento della pratica medica attuale in termini umanistici ― dalla medicina palliativa alle cure domiciliari ―sono relativamente a minor costo e a più alta gratificazione del malato. L’attenzione alla qualità delle cure, correlata all’interesse per la qualità della vita, si rivela pagante non solo in termini umanitari, ma anche economici.

“La professione medica ― secondo H. Morrein ― ha messo molto impegno nel cercare quali nuove cose i medici dovevano fare ai propri pazienti. Ora chiediamo solo che comincino a cercare, con lo stesso impegno, quali cose non hanno bisogno di fare” 9. Il medico non ha bisogno di promettere al paziente di fare “qualsiasi cosa”, per promettere di fare il suo meglio. Purché la scelta del “giusto mezzo”, tra il troppo e il troppo poco, sia il risultato di una ricerca comune. L’individuazione di quel “meno” che contiene anche “il più”, e coincide quindi con “il meglio”, si può ottenere solo mediante una migliore transazione con il paziente, entro il paradigma fondamentale di una medicina del dialogo.

A queste condizioni, possiamo affermare che una medicina più consapevole dei costi può andare, in ultima analisi, a beneficio del paziente. Le sfide morali al contenimento della spesa sanitaria si

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rivelano convergenti rispetto alle spinte economiche. E probabilmente più decisive nel conseguimento dei risultati.

3. Bisogni e desideri di salute, tra economia ed etica

La resistenza ai cambiamenti che, sotto la spinta dei problemi economici che travagliano la Sanità nelle società post-industriali, stanno avvenendo nella pratica della medicina, tende a cercare un autorevole alleato nell’etica medica, i cui ideali richiedono dal sanitario un impegno senza compromessi a vantaggio della salute del paziente. In qualsiasi direzione vadano le trasformazioni in corso nella Sanità, questo valore è un punto fermo che va preservato. Tuttavia questa concezione non delinea in modo esauriente le esigenze morali della professione medica e deve essere completata. Il suo punto debole è che, accanto al valore normativo della salute per il rapporto medico- paziente, non riconosce l’esistenza di valori in conflitto che spesso figurano nelle decisioni mediche; e soprattutto non è in grado di valutare quando la stessa ricerca della salute diventa un disvalore per l’individuo e per la società.

A fronte di una richiesta crescente di consumo di prodotti correlati con la salute, la limitatezza delle risorse costringe a riconoscere che neppure la più ricca delle società è in grado di rispondere alla domanda, nella misura dei desideri. È necessario non solo elaborare procedure per filtrare la domanda con criteri di equità, ma intervenire sulla domanda stessa.

Bisognerà dunque distinguere tra bisogni autentici di salute e desideri soggettivi, assicurando una risposta sociale ai primi e lasciando i secondi al gioco del libero mercato che si regola secondo la domanda e l’offerta? Non si tratta di una domanda retorica relativa a ipotetiche misure programmatorie di economia sanitaria. Essa implica piuttosto una delicata problematica filosofica, che ci limitiamo ad accennare. L’affermazione che esista una realtà qualificabile come “bisogni umani di base” divide coloro che si orientano in senso libertario dagli altri. I libertari ritengono che non si possa praticare una distinzione tra bisogni

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e desideri, e conseguentemente rifiutano una politica che intenda provvedere a supposti bisogni sanitari di base della popolazione. Altri invece difendono come intuitiva la differenza ― poniamo ― tra il trattamento di un’infezione o l’effettuazione di una vaccinazione, e un intervento di chirurgia estetica. Non si tratta solo di maggiore o minore fiducia nel valore regolativo delle leggi del mercato per la convivenza umana, ma di divergenti concezioni antropologiche.

Il timore di cadere in forme ingiustificabili di paternalismo ha finora, per lo più, fatto ritenere come una via impraticabile la distinzione tra bisogni e desideri di salute. Le misure amministrative che, per contenere i costi della sanità, fanno cadere inesorabilmente la scure su alcune prestazioni (per es., sottraendo dalla copertura del SSN alcuni importanti interventi odontoiatrici), non osano cercare una giustificazione ideologica nella distinzione tra bisogni e desideri. Eppure proprio in questo nodo problematico va individuata un’indicazione importante per la riduzione della spesa sanitaria.

Il rifiuto della scorciatoia costituita dalle misure burocratiche e paternalistiche non vuol dire impossibilità di agire. Ci soccorre la prospettiva che abbiamo già visto come caratteristica dell’etica medica: l’orientamento al valore della salute. Orbene, una sanità, sensibile ai problemi economici trova un valido aiuto in una medicina che, per promuovere la salute, accetta di diventare un veicolo di educazione alla salute. Un’autentica educazione alla salute, che accetti anche il compito certamente non demagogico di correggere gli aspetti antropologicamente più squilibrati della domanda di salute prevalente nella nostra società, si può rivelare come la strategia vincente per il contenimento dei costi della sanità.

Perché un compito educativo abbia una possibilità di successo, non può prescindere dalla domanda, la regola vale anche nel caso dell’educazione alla salute. Se partiamo dalla domanda di salute quale può essere documentata dagli strumenti abituali di rilevamento di opinione, possiamo ricondurre le concezioni della salute sulle quali si articola la domanda stessa a tre modelli fondamentali.

Il primo intende la salute come norma di efficienza. Sganciate dai vissuti soggettivi, salute e malattia appaiono come comportamenti socialmente

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standardizzati. Al malato sono permessi comportamenti “devianti” rispetto alla norma (a cominciare dall’essere dispensato dal lavoro e da altre prestazioni corrispondenti al proprio status e ruolo sociale). Lo stato di salute si caratterizza come buona corrispondenza ai dati “oggettivi” delle aspettative sociali. La domanda di salute adeguata a questo modello è quella relativa alla eliminazione di sintomi sgradevoli o debilitanti, intesi come evento incidentale nella vita del soggetto. Il malato chiede al medico, in pratica, che lo aiuti a recuperare la norma di efficienza antecedente all’evento morboso.

Un secondo modello concepisce la salute come un’esperienza di equilibrio psicofisico. La malattia si presenta come l’alterazione di quell’equilibrio che connota, in modo silenzioso e permanente, l’esperienza quotidiana dello stato di salute. I sintomi, in quanto parlano alla soggettività del malato, svolgono un ruolo di indicatori dello squilibrio. Non sono semplicemente un incidente da mettere tra parentesi e da sopprimere, bensì un’occasione per individuare lo squilibrio stesso e fornirgli una risposta creativa. I sintomi vanno decodificati (non solo scientificamente spiegati, ma compresi!), collocandoli in rapporto con la salute del paziente intesa nel senso di un progetto esistenziale.

La malattia in questo quadro concettuale non ha un significato univoco; non è neppure necessariamente un male: può convogliare infatti un desiderio regressivo, la ricerca di “vantaggi” secondari, o può essere una soluzione di compromesso. La domanda di salute come migliore equilibrio psico-fisico richiede un lavoro di saggia interpretazione e di paziente accompagnamento del soggetto nella ricerca di equilibri più avanzati. Forse nessun autore contemporaneo e riuscito a esprimere questa concezione della salute in modo più convincente di Oliver Sacks. Nei suoi libri (particolarmente "Risvegli" e "L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello") riesce a combinare un’attenta considerazione per il dato psicologico della malattia con un’ampia prospettiva antropologica che colloca salute e malattia nel vissuto del malato.

Un terzo modello di salute è quello che si può essenzialmente ricondurre allo stile di vita. L’accento principale qui cade non sulla dimensione sociale, né su quella psicologico-esistenziale del soggetto,

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bensì su quella socio-ambientale. La malattia diventa allora espressione di una cattiva interazione tra individuo e ambiente. La risposta a tale squilibrio richiede, per poter adeguare l’implicita domanda di salute, che il soggetto acquisisca una migliore competenza conoscitiva e maggiore autonomia nelle sue scelte.

Negativamente, ciò implica un distanziamento polemico dalla “medicalizzazione” della salute, di cui Ivan Illich è diventato il critico più rappresentativo; positivamente, questa concezione della salute promuove una migliore interazione con l’ambiente fisico e sociale e la valorizzazione di tutti i fattori non medici della salute (lavoro, alimentazione, igiene di vita).

Se confrontiamo gli orientamenti della domanda di salute in Italia sul finire degli anni ’80 con questi tre modelli di concezione della salute 10, notiamo che le richieste tendono a costituire un quadro omogeneo, allineato su una concezione antropologica sempre più sensibile agli elementi esistenziali e ambientali. Si delinea una crisi della concezione della salute che considera unicamente l’aspetto organico di essa e la riduce a norma di efficacia sociale; emerge sempre più nettamente, invece, la ricerca della salute intesa come benessere psicofisico e come equilibrio ambientale, prodotto da una migliore qualità di vita.

Più precisamente, nell’area della salute si va distinguendo un nucleo “hard”, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di cronicità, e un vasto insieme sistemico a dimensione somato-psichico-ambientale. Nei confronti del primo aspetto permangono gli atteggiamenti più tradizionali (il corpo inteso come un insieme di “pezzi di ricambio”; l’apparato sanitario come struttura a cui affidarsi per la riparazione del’organismo-macchina, privilegiando il paradigma malattia/medicina/servizi sanitari); altrimenti prevale la nuova domanda di salute, con la richiesta di promozione del benessere psico-fisico, di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma

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dell’offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi.

Per le domande di salute che si concentrano intorno al primo polo, quello più medicalizzato, è più facile giustificare il termine “bisogni” sanitari; per quelle che gravitano intorno all’altro polo, più personalizzato ma anche più sensibile alle seduzioni del mercato e di abili promozioni del consumo, sembra più appropriato parlare di “desideri”. Un progressivo spostamento dal primo polo al secondo sembra un tratto caratteristico e inequivocabile di modernità.

Una educazione alla salute che tenga conto di come si va strutturando la domanda nella nostra società si proporrà, come obiettivo strategico, di favorire un confronto tra desideri e bisogni di salute. I desideri devono misurarsi sui bisogni, e i bisogni devono accedere al livello del desiderio. Questo interscambio ha la funzione di una regolazione reciproca.

Il processo di educazione alla salute, da cui ci aspettiamo una risposta positiva ai bilanci in rosso della sanità, attinge le sue risorse dalle dimensioni della realtà antropologica più spesso dimenticate dalla medicina scientifica e altamente tecnicizzata: il corpo come realtà vissuta; la dimensione relazionale dell’esistenza, in particolare quella che si realizza nella famiglia; il riferimento ai valori etici dell’individuo. Il corpo, la famiglia e l’etica si rivelano precisamente come tre preziose risorse di un’educazione alla salute che voglia dare una risposta anche ai concretissimi problemi dell’economia.

Correlare la salute al rapporto con il corpo vuol dire anzitutto, per via negativa, prendere le distanze da una concezione di educazione alla salute che si fonda su un sapere di esperti e sull’iniziazione dei profani a conoscenze specialistiche (magari utilizzando la molla della paura, come in certe campagne “terroristiche” di dissuasione dal fumo...). La salute va cercata, piuttosto, sul versante della conoscenza diretta, esperienziale, del proprio corpo. Inoltre essa non e il prodotto di un investimento socio-culturale specifico: la salute non la si “ordina”, come un bene di consumo tra gli altri. Qui si rivelano i limiti più gravi della concezione implicita nella medicina moderna la quale opera con una “lista di controllo” dei sintomi possibili e presume di produrre la salute escludendo questi. La salute è piuttosto il risultato di un “lavoro”

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sul corpo che comincia dalla persona stessa, dalla sua esperienza positiva della corporeità, dall’apprendimento che provoca un sentire, ripetere, imitare determinati comportamenti rivolti alla salute e al benessere.

Il corpo gioca un ruolo molto importante nella canalizzazione del “desiderio” di salute. Nell’esplosione dell’attenzione al corpo caratteristica della nostra società, che accompagna la tendenza a privilegiare il modello di salute dove predomina l’esperienza di benessere psicofisico e di equilibrio ambientale, l’accento si sposta conseguentemente dalla morbilità al desiderio, inteso come adeguamento del corpo agli obiettivi della persona, anche in senso estetico ed edonistico. I momenti di morbilità sono respinti nel campo della medicina professionale (è il motivo per cui la malattia e la morte sono bandite dal visibile quotidiano e ghettizzate nelle istituzioni sanitarie). Il modellamento del corpo sul desiderio diventa invece l’elemento trainante della ricerca della salute.

Il ventaglio degli interventi in questione si estende dai trattamenti anti-stress ed estetici delle “beauty farms”, al ricorso alla chirurgia estetica per rimediare agli inestetismi, alla regolazione della fecondità oltre, e talvolta contro, i limiti della natura (fecondazione in vitro, programmazione del sesso del nascituro, modifiche dell’eredità genetica). Una delle preoccupazioni crescenti delle società che, come la nostra, hanno identificato nella risposta socializzata alla domanda di salute un obiettivo di civiltà, oltre che di giustizia, riguarda l’estensione di tale disponibilità a rispondere alle richieste: deve comprendere anche, per esempio, tutte le domande di interventi sanitari futili, ma ritenuti soggettivamente auspicabili?

Il rifiuto, in linea di principio, di una costrizione eteronoma e moralistica del desiderio ci inclina piuttosto a valorizzare la capacità di regolazione del desiderio insita nella qualità degli scambi interpersonali e nel riferimento al consenso sociale sui valori normativi che si attua attraverso il dibattito bioetico. Qui troviamo, appunto, come risorsa la centralità delle relazioni familiari, in quanto la famiglia e un sistema naturale di regolazione del desiderio.

Il ruolo tradizionalmente svolto dalla famiglia nei confronti della salute dei suoi membri e entrato in crisi per l’azione congiunta di due

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diversi movimenti, non privi di reciproche influenze: quello della emancipazione femminile dai compiti esclusivamente intradomestici e quello della medicalizzazione di tutte le vicende biologiche, dalla nascita alla morte, con conseguente subentro dell’istituzione sanitaria negli ambiti prima riservati alla cura non professionale.

In conseguenza di queste trasformazioni sociali e culturali, il potenziale della famiglia per la salute rischia di essere sottovalutato. Peraltro, là dove ci si scontra con l'inadeguatezza delle istituzioni a far fronte a determinate situazioni (come lungodegenti cronici, gestione della fase terminale della malattia), la famiglia viene invece richiamata in causa, ma con un sovraccarico di aspettative e di compiti che la schiacci ano. Il meccanismo di cui si servono il più sovente i sanitari per coinvolgerla nelle responsabilità di assistenza agli infermi è un grossolano o raffinato, secondo i casi, processo di colpevolizzazione.

L’evoluzione delle strutture familiari costringe a modificare le linee di politica sanitaria condotta dallo Stato. Le trasformazioni demografiche in atto nella nostra società ― abbassamento del tasso delle nascite, aumento dei divorzi e delle famiglie mononucleari, allungamento delle speranze di vita e invecchiamento progressivo della popolazione 11 ― richiedono un investimento diverso della risorsa costituita dalla famiglia. Agli inizi della politica sociale dello Stato a beneficio della famiglia e della salute l’obiettivo identificato era quello di migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle donne e dei bambini (protezione della madre lavoratrice, proibizione di assumere i bambini). Oggi l’obiettivo più urgente è quello di promuovere nuove reti di solidarietà e di aiuto mutuo ― ivi compresa una nuova ripartizione dei compiti tra uomo e donna all’interno della famiglia ―, se si vuole impedire che il peso di prendersi cura della salute dei propri membri più deboli faccia affondare la famiglia come una nave troppo carica.

In seguito a considerazioni sia umanistiche, sia di economia sanitaria, si toma oggi a riconsiderare la dimensione familiare all'interno

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di un sistema di cure della salute. La richiesta di inserire l’individuo malato in un gruppo sociale e familiare riconosce alla famiglia un ruolo in quanto agente di salute e un potenziale positivo di risoluzione dei problemi. Non possiamo più continuare con programmi sanitari centrati esclusivamente su istituzioni sociali che forniscono servizi. Bisogna ormai applicare un approccio che parta dal lavoro di salute svolto dalla famiglia: lo riconosca e lo valorizzi, ed eventualmente lo integri mediante i servizi necessari.

Questi programmi dovrebbero essere elaborati in comune con le famiglie e concretizzarsi in una modifica dell’aiuto professionale, specialmente nei punti seguenti: riconoscimento del sapere e della competenza quotidiana acquisiti nel vissuto delle famiglie; accettazione di gruppi di aiuto come unità proprie; necessità che i professionisti sociali e della salute abbiano una competenza e un’esperienza che permetta loro di comunicare con la famiglia.

Va menzionato, infine, che la prospettiva della famiglia nella problematica della salute serve di correttivo all’ambivalenza dei diritti sociali legati alla persona. La famiglia garantisce che sia preso in considerazione l’interesse legittimo dei singoli membri, senza con ciò accelerare il processo negativo di tendenza all’individualismo, che spesso sfocia nell’isolamento e nella solitudine delle persone nei momenti in cui è più necessario stringere i legami sociali 12.

Una terza risorsa, infine, per una regolazione del desiderio nell’ambito dell’educazione alla salute è il riferimento alle esigenze etiche. Intendiamo con ciò essenzialmente l’orientamento ad assumere le decisioni che riguardano la cura della salute nell’orizzonte della responsabilità. La responsabilità ha due versanti: quello delle cause e quello delle conseguenze. Seguendo il primo, l’etica ci invita a restituire alla comprensione dei fatti patologici tutto il loro spessore antropologico. Proprio perche fatti umani, sono rivestiti di un senso che va cercato nella catena immanente delle cause.

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L’interrogazione multiforme del dato morboso, secondo tutte le dimensioni dell’esistenza umana, lo sottrae all’ambito della “insensatezza” ― come appare nella concezione della medicina scientifica, che spoglia il dato fisiologico da ogni altra componente antropologica ― per riportarlo nel pieno registro dell’umano. Su questa interrogazione si innesta l’etica. Questa può cambiare il nostro rapporto con la malattia, purché si prefigga il compito non di incrementare oscuri sensi di colpa, sempre connessi con gli eventi morbosi, bensì di far crescere la libertà essenziale dell’uomo, che prende forma nell’assunzione della responsabilità. La malattia e la salute allora, sottratte all’interpretazione metafisica, entrano nell’ambito delle scelte che costituiscono il regno dell’umano.

La responsabilità ha anche una faccia che guarda verso il futuro. Qui troviamo come rilevanti i valori etici a cui il singolo si riferisce nella strutturazione del suo progetto di “buona vita”. L’ascolto di essi da parte del sanitario, in un vero processo comunicativo, è una parte essenziale, come abbiamo visto sopra, di ciò che immaginiamo come medicina rinnovata in senso umanistico.

Appartiene a questo colloquio la ricerca comune di ciò che può essere fatto in base alle potenzialità attuali della medicina, ma anche di ciò che può e deve essere omesso. Un maggior accordo con i valori e le aspettative soggettive può rivelarsi un inaspettato alleato in un programma di medicina più economica. In altre parole, se l’educazione alla salute si estende fino a rendere le persone agenti consapevoli e responsabili degli scenari medici ― in particolare di quelli che accompagnano la fase terminale della malattia ― le opzioni più probabili saranno quelle che vanno non nel senso di una dispendiosa tecnologia, ma di un ricorso più contenuto ad essa, entro l’ambito però di una medicina più ricca di rapporti umani.

4. Giustizia e solidarietà

Le considerazioni finora svolte hanno affrontato il problema della riduzione dei costi della sanità dall’angolatura che è più propria

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dell’etica della medicina: la preoccupazione di procurare il bene del paziente. Abbiamo visto che una rigorosa applicazione dei principi della beneficità dell’azione medica e del rispetto dell’autonomia del paziente può efficacemente contribuire a contenere i costi: una medicina di alta qualità umana e relativamente meno dispendiosa di una sanità che non si preoccupi di questo aspetto e punti esclusivamente sulla dimensione tecnologica e sulla regolazione amministrativa della ripartizione delle risorse. Anche la strategia di educazione alla salute, rivolta allo stesso scopo, è sostanzialmente contenuta entro i principi tradizionali dell’etica medica.

Ma per quanto si voglia estendere la portata dell’etica medica, questa sembra inadeguata ad affrontare nella sua interezza la questione morale della scarsità delle risorse destinate alla sanità. I costi crescenti si accompagnano a una decrescente equità: per trovare una risposta soddisfacente a questa situazione, i principi cardine dell’etica medica, fondamentalmente sensibile alla dimensione individuale e interpersonale dell’esistenza, devono integrare dei principi più orientati in senso sociale. L’etica del bene del paziente e dell’orientamento alla salute si deve confrontare con le questioni che nascono dalla giustizia e dalla solidarietà. In questa direzione, appunto, il dibattito bioetico ha avuto in questi ultimi anni sviluppi molto promettenti.

La bioetica ha trovato naturale integrare nel proprio orizzonte quella che possiamo chiamare la “bioeconomia”. Il razionamento dei beni sanitari, di per sé, non è nuovo: è comune a ogni sistema che ha più domande di servizi di quante ne possa soddisfare. Si può anche arrivare a sostenere che l’attenzione ai costi fa parte intrinsecamente della pratica della medicina, e non è solo una conseguenza accidentale delle circostanze attuali. Ora più che mai, tuttavia, anche il pubblico è diventato consapevole che dobbiamo affrontare le questioni economiche connesse con la sanità. Fino a una decina d’anni fa, ogni progresso biomedico era accolto a braccia aperte e salutato incondizionatamente; ora invece non suona più come una stonatura se, contestualmente all’annuncio di una nuova tecnica di trapianto di organi, ci domandiamo se ce la possiamo permettere.

Questa sensibilizzazione alla dimensione economica della sanità

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ci autorizza a porre esplicitamente in termini di giustizia la questione della distribuzione delle risorse sanitarie. Il tema è stato il banco di prova della più recente filosofia morale, che soprattutto nell’ambito linguistico anglosassone ha conosciuto una nuova giovinezza. Le teorizzazioni filosofiche della giustizia, come quelle di John Rawls e Robert Nozick, si sono dimostrate particolarmente adatte a un confronto con la questione della distribuzione secondo equità delle risorse sanitarie. I bioetici si sono inseriti nel dibattito, prospettando soluzioni diverse: alcune più inclini a prospettive liberistiche (H.T. Engelhardt), altre più orientate in senso equalitario (R.M. Veatch).

Non è possibile dar conto in questa sede della varietà e della complessità del dibattito filosofico relativo alla giustizia in sanità. Ci limitiamo a raccogliere una sola voce, quella di Larry Churchill 13. In un libro dedicato al razionamento delle cure sanitarie in America, non risparmia critiche alle diverse tradizioni etiche che si sono confrontate con il tema della natura e della possibilità della giustizia nella distribuzione delle risorse. Il dibattito sulla sanità è stato impoverito, a suo avviso, dalla riluttanza a muoversi verso un sistema più giusto, a causa del peso che esercita sulla tradizione nazionale americana l’individualismo etico.

Qualunque sia l’orientamento filosofico, tutte le teorie danno l’impressione di poggiare su una “antropologia atomistica”, in cui i concetti fondamentali e le immagini della giustizia sono derivate da una concezione della persona come indipendente e solitaria, solo tangenzialmente correlata ad altri. Soprattutto nelle questioni della giustizia applicata all’accesso di tutti alle cure sanitarie, sembrano realizzarsi i tristi presentimenti di Alexis de Tocqueville nei confronti della “democrazia commerciale”, che isola l’individuo dai concittadini della generazione presente e da quelle future, e “minaccia alla fine di confinarlo interamente nella solitudine del proprio cuore”.

Le teorie filosofiche della giustizia centrate sull’egocentrismo

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morale e carenti di un’appropriata comprensione della socialità come tratto costitutivo della natura umana non sono adeguate a rispondere alle sfide che la scarsità di risorse per la sanità sta ponendo alla nostra società, con la crisi del welfare state. In particolare, la transizione dagli anni ’80 agli anni ’90 ha radicalizzato i problemi della giustizia, costringendoci a ripensarli in chiave di equità generazionale. La nuova situazione ci induce a riscrivere il vocabolario fondamentale della filosofia morale, dando un significato più comunitario e meno individualistico a termini come “diritti”, “libertà”, “autonomia”.

La scarsità di risorse per la sanità non è che un capitolo di una più generale carenza di lavoro, beni, servizi, giunta a una drammatica evidenza. I problemi di ripartizione delle spese sociali ― a chi dare: ai giovani o agli anziani? ― si inseriscono nella presa di coscienza di una ingiustizia congenita nella nostra società. Cominciamo a renderci conto che le generazioni adulte degli anni ’80 hanno vissuto al di sopra delle possibilità che una "società giusta" avrebbe dovuto loro riservare, in considerazione delle generazioni seguenti 14. Le contraddizioni della nostra società, che vive nell’abbondanza del presente senza preoccuparsi del futuro comune, ci obbligano a rimescolare le carte generazionali.

Non possiamo continuare a consumare ciò che, secondo un metro di equità, deve essere destinato a chi viene dopo. Da questo punto di vista, la solidarietà abbinata alla giustizia è destinata a cambiare il volto della futura sanità, correggendo l’inflazione di ricchezza di mezzi di cui sta godendo l’attuale generazione. Dovremo imparare a iscrivere tra i nostri programmi di salute anche la rinuncia e il contenimento dei desideri entro certi limiti, in nome di una giustizia che ci chiede di non imporre pesi sproporzionati agli altri.

Note

1 The New England Journal of Medicine, 21 luglio 1988, pp. 171-173.

2 E. Haavi Morrein, "Cost containment: Issues of moral conflict and justice for physicians", in Theorethical Medicine, 6 (1985), 257-279.

3 Albert R. Jonsen, Introduzione a George J. Agich e Charles E. Begley (edd.) The Price of Health, D. Reidei Publ. Comp., Dordrecht 1986.

4 Sul concetto di professioni liberali e sulla dinamica sociale che presuppongono, vedi Willem Tousjin (a cura di), Sociologia delle professioni, ed. Il Mulino, Bologna 1979.

5 Warren Reich (Ed.), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978. Le voci attinenti alla problematica in questione sono: "Rationing of medical treatment", pp. 1414-1419; "Justice", pp. 802-811; "Future generations, Obligations to", pp. 507-512; "Environmental Ethics", pp. 379-399.

6 Cfr. Nancy King, Larry R. Churcill, Alan W. CrossThe Physician as captain of the ship: A critical reappraisal, Reidel Publ. Comp., Dordrecht 1988.

7 Un'analisi accurata delle ripercussioni del DRG sul rapporto tra medico e paziente è stata fatta da E. Haavi Morrein, "TheMD and the DRG", in Hastings Center Report, giugno 1985, pp. 30-38. Si veda anche: Robert M. Veatch, "DRGs and the ethical reallocation of resources", in Hastings Center Report, giugno 1986, pp. 32-40.

8 Cfr. Jay KatzThe silent World of doctor and patient, The Free Press, New York 1984.

9 E.H. Morrein, cit. n. 7.

10 Ci riferiamo soprattutto alla più recente ricerca curata dal CENSIS: La domanda di salute in Italia. Comportamenti e valori dei pazienti degli anni '80, ed. F. Angeli, Milano 1989.

11 Per le trasformazioni della famiglia nel nostro Paese, cfr. Pierpaolo Donati (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989.

12 Cfr. Aa. Vv., Nascere, amare, morire. Etica della vita e famiglia, oggi, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989.

13 Larry R. ChurchillRationing Health Care in America: Perceptions and principles of justice, Notre Dame, Ind., Univ. of Notre Dame Press.

14 Cfr. Pierpaolo Donati, "Equità generazionale: un nuovo confronto sulla qualità familiare", in Aa. Vv., Secondo rapporto sulla famiglia in Italia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991.