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Ken Wilber
Grazia e grinta
La malattia mortale come situazione di crescita
Cittadella Editrice, Assisi 1991
pp. 7-11
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LA RICERCA ININTERROTTA DEL PASSAGGIO A SUD-OVEST
PRESENTAZIONE
Il lettore che prende in mano questo libro ha bisogno di poche conoscenze previe per affrontare la lettura in modo proficuo. Se gli è capitato di imbattersi in qualche libro di Ken Wilber 1, sa che ha a che fare con un esponente, tra i più carismatici, di quella corrente contemporanea di pensiero nota con il nome di «psicologia transpersonale», che si propone lo studio della coscienza umana in tutta la portata del suo ampio spettro, dagli stati inconsci a quelli di suprema illuminazione e unione mistica. Ma perfino queste informazioni sommarie non sono, di per sé, strettamente necessarie. Anche il lettore più disinformato acquisterà, man mano che si addentra nel libro, una diretta conoscenza del percorso compiuto da Ken Wilber nello studio della dimensione transpersonale dell'uomo. E soprattutto si renderà conto, più di chiunque si accosti alla disciplina mosso da interessi meramente teorici, di quali risposte concrete il transpersonale è capace di offrire ai bisogni umani.
Rimandando l'incontro con la psicologia transpersonale all'esposizione che ne farà lo stesso Ken Wilber, può essere più utile in via introduttiva focalizzare l'attenzione del lettore proprio su quei nodi dell'esistenza umana sui quali il libro eserciterà l'impatto più fecondo. Al lettore che, dopo il primo capitolo, esitasse nel proseguire la lettura, perché teme di trovarsi impantanato in una melensa love story ― un rischio che incombe anche quando i protagonisti sono persone di alto profilo intellettuale ed emotivo ― un fraterno consiglio:
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vada avanti con fiducia; approderà presto a una terra a lui nota, a interrogativi profondi e coinvolgenti, a problemi tra i più universali che si pongono agli esseri umani. Perché il baricentro del libro è nient'altro che la risposta all'interrogativo: Come affrontare in modo giusto la prova suprema, cioè il confronto con la morte?
La meditatio mortis ha avuto un posto d'eccezione nella spiritualità del passato. Non era prerogativa degli uomini di religione: anche i poeti se ne occupavano. Massimamente quando la mente degli artisti era in sintonia con i temi religiosi che costituivano la cultura del tempo. Come per il poeta inglese del XVII secolo John Donne, nel suo Inno a Dio, il mio Dio, nella mia infermità. Morire significa, nel suo orizzonte di fede, diventare musica di Dio; meditare sulla morte equivale ad accordare il suo strumento («e ciò che allora dovrò fare penso prima dell'ora»):
Mentre i miei medici,
per loro amore,
sono diventati cosmografi
ed io loro mappa,
stesa su questo letto
perché da loro sia mostrato
come io scopra qui il mio passaggio a Sud-Ovest
per fretum febris,
per questi stretti morire io giubilo,
che in tali stretti vedo il mio Occidente 2.
La via della «buona morte» è per il poeta un viaggio avventuroso, come la travagliata ricerca del passaggio a Sud-Ovest per raggiungere l'Oriente viaggiando verso l'Occidente, che tanto affaticò i navigatori fino a Magellano. L'immagine di un varco da scoprire tra i ghiacciai della Terra del Fuoco si attaglia perfettamente alla ricerca di una buona morte. Alcuni secoli sono passati da allora. Tutte le coordinate sono cambiate: le rappresentazioni che ci facciamo della morte e dell'aldilà, i modi di organizzare l'intervento medico per affrontare la malattia, le risposte sociali alle minacce che incombono sulla vita. Ma la ricerca del «passaggio a Sud-Ovest» è rimasta purtuttavia un valore prioritario nella vita degli uomini più consapevoli.
La vicenda personale di Ken Wilber e di sua moglie Treya
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riconduce questo interrogativo astratto a quell'orizzonte concreto costituito dalle decisioni angoscianti che devono essere prese in presenza di una malattia potenzialmente mortale. Non a torto, il cancro è stato promosso a simbolo di questa malattia carica di dilemmi terapeutici ed etici 3. Quando viene diagnosticata un'aggressione tumorale all'organismo, prende avvio una situazione che si sviluppa sotto il segno dell'incertezza. Purtroppo sono ancora una piccola minoranza le patologie per le quali la medicina può prevedere un rimedio che si imponga sugli altri, considerato ottimale dal punto di vista dell'indicazione terapeutica, dell'efficacia dei risultati, dall'assenza di danni inferti alla qualità della vita del malato. Nella stragrande maggioranza dei casi non abbiamo che strategie terapeutiche molteplici ― non solo considerando le tante medicine «alternative», ma anche all'interno della medicina ufficialmente accettata come sinonimo di conoscenza scientifica ―, previsioni incerte sulla loro capacità di dar scacco alla malattia, valutazioni delicatissime del bilancio tra benefici ipotetici e danni certi. Non a caso Treya, con quella felice appropriatezza nel descrivere il vissuto di malattia che il lettore imparerà ad amare, presenta l'incertezza tra l'affrontare o no una chemioterapia come una raffinata versione moderna della tortura medievale.
La perigliosa ricerca del passaggio a Sud-Ovest è confluita, sul finire del XX secolo, nella questione tanto dibattuta della partecipazione del malato alle decisioni che lo riguardano. Sappiamo che riguardo alla comunicazione al paziente di una prognosi infausta si sono formate due posizioni antitetiche, che riposano su certezze profonde non disposte a farsi rimettere in discussione dagli argomenti contrari. Chi è convinto che una prognosi che si affaccia sulla morte non vada condivisa con il malato ― tutt'al più con i suoi familiari ― motiva questo comportamento con alte ragioni ideali. È per risparmiare al malato un evento emotivamente catastrofico che si deve fare ogni sforzo per tenere lontano dal suo sguardo l'orrore della morte certa. Ma anche chi difende la posizione contraria, orientata a informare il malato della propria situazione, si giustifica con motivi ideali, che ruotano attorno al rispetto del malato e tendono a prevenire un altro tipo di sofferenze psicologiche: quelle che si aggrumano attorno al sistema
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di menzogne necessario per mantenere il malato nell'ignoranza della sua situazione.
I partigiani dell'uno e dell'altro modello formano come due tribù compatte. Per quella orientata in senso tradizionale, le decisioni relative a cure e trattamenti sono responsabilità del medico (e della famiglia), che scelgono ciò che «è meglio» per il paziente. Di fronte alla morte, l'obiettivo prioritario diventa la difesa del fragile dalla cattiva notizia, tenendolo all'oscuro. Per l'altra tribù, invece, l'informazione riguardo alla diagnosi, alla prognosi e al trattamento appartiene al paziente; è un suo diritto, perché deve conoscere e capire per poter decidere. L'ideale a cui tende è quello di rendere il paziente giudice di ciò che è meglio per lui.
È probabile che più di un lettore italiano, ripercorrendo le tappe della lotta quinquennale di Treya e Ken Wilber con il cancro, avverta un senso di estraneità nei confronti dei modelli di comunicazione usuali tra medici, pazienti e familiari nella cultura americana. Soprattutto se i suoi convincimenti di fondo ― riguardo alla vita e alla morte, agli eventi critici e al modo più appropriato di farvi fronte, al compito dei sanitari e al ruolo della famiglia ― sono quelli della tribù che opta per evitare a ogni costo il confronto diretto del malato con la possibilità della propria morte. Ma, superato lo spaesamento, potrà valutare i benefici che quel modo di affrontare la malattia è in grado di arrecare.
Non si tratta di far violenza alla persona malata, buttandole in faccia una verità traumatizzante (neppure se le intenzioni fossero quelle di evitare a qualcuno di venir meno alla sua condizione umana, secondo i propositi espressi con piglio aggressivo dal poeta Saint-John Perse: «Se un uomo accanto a te lascia cadere il suo viso di vivente, gli si tenga con forza la faccia contro il vento»). Forse l'espressione stessa «dire la verità» va evitata, perché rischia di deformare il senso stesso di questa situazione. Essa fa pensare, infatti, a un possesso unilaterale di un sapere vero e certo da parte di qualcuno ― il professionista sanitario ―, il quale potrebbe a sua discrezione trasmetterla o tenerla per sé. Niente di più fuorviante. Si tratta invece di una condivisione d'informazioni, fatta con tatto e misura, nonché nel rispetto dei tempi psicologici della persona, che permette al malato di partecipare al sapere predittivo ― per definizione incerto ― di cui dispone la
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medicina 4. Tutte e solo quelle informazioni che lo mettono in grado di mantenere il ruolo di protagonista nei confronti della malattia che lo porterà alla morte, così come è stato protagonista della sua vita fino all'affacciarsi della malattia mortale.
Ancora una volta, il lettore potrà verificare come un problema teorico diventa vitale e incisivo nelle tracce lasciate dal diario di Treya e nel racconto di Ken Wilber. Non si tratta più solo del comportamento «giusto» nella transazione che intercorre tra chi offre e chi riceve le cure mediche, secondo le regole che la bioetica contemporanea va riscrivendo. Quello che è in gioco è il comportamento saggio, rispetto alle esigenze di una saggezza che trascende i tempi e le culture. Nella riflessione lucida e insieme appassionata che Ken Wilber intreccia al racconto della sua vicenda biografica il giusto modo di morire appare come parte integrante della philosophia perennis. Mobilita l'uomo nella sua interezza e attinge alle scienze umane nella loro complessa articolazione: filosofia e religione, psicologia ed etica, psicoterapia e pratiche di meditazione. A questa condizione non solo la morte può essere assunta nella coscienza, ma diventa essa stessa l'occasione per la suprema dilatazione della coscienza. Allora la morte brutta, disumana, angosciante ― la «piccola» morte ― che sembra diventata la prerogativa dell'uomo tecnologico, può ancora essere la «grande morte», la morte personale ― o piuttosto, ci corregge Ken Wilber, transpersonale ― che Rainer Maria Rilke auspicava, sotto forma di laica preghiera, per l'uomo del nostro secolo 5:
Signore, dà a ciascuno la sua morte,
la morte che da quella vita viene,
in cui ebbe amore, anima, angoscia.
Perché noi siamo solo guscio e foglia.
La grande morte che ciascuno ha in sé,
è il frutto intorno a cui tutto si svolge.
Note
1 Alcuni libri di Ken Wilber sono disponibili anche in traduzione italiana: Oltre i confini, ed. Cittadella, 19953; Lo spettro della coscienza, ed. Crisalide, 1993; Ken Wilber, Jack Engler e Daniel Brown, Le trasformazioni della coscienza. Psicologia transpersonale e sviluppo umano, ed. Astrolabio, 1989.
2 John Donne, Poesie amorose, poesie teologiche, tr. di Cristina Campo, Einaudi, 1971.
3 Cfr. Susan Sontag, La malattia come metafora, tr. it. Einaudi, 1981.
4 Possiamo cogliere come un segno di una maggiore ponderatezza in questo ambito cruciale del rapporto medico-paziente il fatto che l'autorevole Encyclopedia of Bioethics nel passaggio dalla prima edizione (1978) alla seconda (1995) ha sostituito la voce «Truth telling» (e Dire la verità») con «Information disclosure» («Comunicazione delle informazioni»).
5 Rainer Maria Rilke, Il libro d'ore (a cura di P. De Nicola), Morcelliana, 1950.