Consenso informato tra comunicazione e informazione

Sandro Spinsanti

CONSENSO INFORMATO TRA COMUNICAZIONE E INFORMA-ZIONE

in Modelli d'intervento dello psicologo in ospedale, confronto di espe-rienze

Atti del Convegno di Camerino dell'Ordine Nazionale degli Psicologi ― Consiglio Regionale delle Marche

Camerino, 9 giugno 1997

pp. 39-49

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1. Comunicare senza informare

La scena di un vecchio film ci permette di visualizzare, grazie a una situazione tipica, in che modo si realizza una comunicazione senza informazione. Si tratta del film Vivere di Akira Kurosawa, del 1952, un classico della storia del cinema. Il protagonista, un umile capoufficio del catasto, va a farsi visitare da un medico per persistenti dolori allo stomaco. In sala di attesa ha un colloquio informale con un veterano degli ambulatori medici. Dapprima il paziente gli descrive esattamente i sintomi del cancro dello stomaco; poi passa a predire il comportamento del medico: se questi, guardando la radiografia, minimizza, nega risolutamente che si tratta di cancro, scherza e gli dice che può mangiare tutto quello che vuole, si può essere certi: la diagnosi di cancro è confermata! Al malato restano solo pochi mesi di vita. E proprio in questo modo indiretto il nostro capoufficio verrà a conoscere la sentenza che lo riguarda. Anche in assenza di una informazione veritiera, la comunicazione relativa al suo stato di salute è giunta fino a lui.

Il problema della comunicazione è diventato centrale nella medicina attuale. Questo fatto non depone a favore della comunicazione stessa. Quando, infatti, nei rapporti interpersonali la comunicazione si fa centrale, ci sentiamo legittimati a dedurne che siamo di fronte a un indice di relazione "malata". Lo conferma autorevolmente Paul Waztlawick, uno dei maggiori esperti della comunicazione umana: «Quanto più una relazione è spontanea e ‘sana’ tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni ‘malate’ sono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante» (Watzlawick, 1971). È quanto possiamo verificare empiricamente nelle relazioni amorose: le coppie in crisi, invece di fare l’amore, imbastiscono eterni discorsi per definire il loro rapporto... Quando la comunicazione è inceppata, ci si accorge di essa, in quanto diventa un sintomo dolorante.

Qualcosa di analogo succede oggi in medicina. Si parla molto di comunicazione perché abbiamo l’impressione che siano sempre più frequenti e dolorosi i nodi della comunicazione. In particolare, la comunicazione si ingorga quando si decide, per motivi di diversa natura ― per ragioni di

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tempo e di opportunità, o anche per motivi etici ― di saltare il momento dell’informazione, andando direttamente all’azione terapeutica. L’enfasi posta sul fare, piuttosto che sul parlare informativo, danneggia il processo della guarigione e si traduce in un saldo negativo sul piano della comunicazione.

Se la comunicazione non fluisce in modo sano, ristagna patologicamente. Poiché, in ogni caso, non si può non comunicare. Questo è il primo assioma stabilito da Watzlawick nella sua Pragmatica della comunicazione umana. La comunicazione, infatti, è un comportamento; e non esiste l’opposto del comportamento. Chi, per esempio, in una situazione di vicinanza fisica, si chiude nel mutismo, comunica che non vuol comunicare. Le parole e il silenzio, l’attività e l’inattività: tutto, nell’interazione, ha il valore di messaggio. La questione, quindi, diventa: che cosa comunica il comportamento del medico, quando rifiuta di informare il malato? (evidentemente quello che crea problemi è la comunicazione di una prognosi infausta: dare buone notizie è invece una delle opportunità più piacevoli che la vita ci riserva, dentro e fuori la medicina).

Una risposta alla domanda possiamo ricavarla dalla descrizione seguente, in cui l’oncologo francese Léon Schwarzenberg tratteggia la situazione che si crea quando l’ambiente che circonda il malato opta la congiura del silenzio:

«È raro che i malati ripongano assoluta fiducia nel loro medico. Molti di essi credono che in questa valle di lacrime non esista bugiardo più grosso e patentato del medico, e che del resto egli eserciti l’unica professione nella quale la menzogna è d’obbligo. Inutile dire che a volte costoro hanno ragione. Ma dubbi e sospetti possono travalicare il medico stesso. Ve n’è che sospettano un complotto tra i loro stessi familiari, da parte dei loro amici. E, ancora una volta, spesso hanno ragione. La moglie o il marito, a volte il figlio maggiore che svolge il ruolo di capofamiglia ha deciso che “non bisogna dirglielo. Non possiamo farlo. Significherebbe ammazzarlo”. E il medico dal canto suo non osa spingersi più in là e a sua volta si inchina alla volontà della famiglia. Purtroppo, però, accade che la maggior parte di noi medici si sia attori da quattro soldi, bugiardi da poco. Il malato avverte perfettamente che non tutti coloro che lo circondano sono sinceri con lui, lo legge loro in faccia, lo coglie dai b silenzi più ancora che dalle loro parole, lo capisce dai loro errori, dai lapsus, dagli impappinamenti, si sente al centro degli argomenti che non vengono mai abbordati. Tutti recitano male, mentono peggio. Il malato, questo lo sa; e il medico ha il sospetto che il malato sappia. Ed ecco così istituirsi quel rapporto convenzionale, di perfetta cortesia: il malato sa che il medico sa, ma non ne parla» (Schwartzenberg, Vianson-Ponté, 1975).

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In pratica, contesti comunicativi di questo genere trasmettono ― al di là della volontà di coloro che decidono, magari per motivazioni umanitarie molto nobili e generose, di sottrarre l’informazione al malato ― la “morte sociale” di questi. L’essere umano non è solo un organismo animato, ma è anche essenzialmente un membro della società. Quando viene reciso il legame vitale con la comunità, muore come essere umano. Questo tipo di morte non ricalca esattamente la morte fisica: può avvenire prima o dopo, rispetto alla cessazione della vita organica. Ci sono tribù in Africa che considerano morta una persona solo quando non si parla più di essa (Thomas, 1982): è un esempio estremo che illustra la divaricazione possibile, anche in altri contesti culturali, tra morte sociale e morte organica.

La morte sociale, inoltre, non è un avvenimento “puntuale”: si verifica a gradi. Attraversa vari stadi; come la malattia stessa, può essere leggera, grave, fatale, oppure reversibile. La progressione nella morte sociale è favorita dal fatto che la morte, nel modo in cui si verifica abitualmente, si prolunga nel tempo. Nel lungo periodo che la persona impiega a morire, si verifica gradualmente la sua morte sociale. L’ospedale è un osservatorio eccellente per rilevare in che modo si passa dal regno dei vivi a quello dei morti. Con il progredire della malattia, cessano le cure infermieristiche usuali, l’interesse medico si affievolisce fino a scomparire (a meno che non si tratti di un “caso interessante”, in un ospedale che abbia anche finalità didattica e di ricerca), i morenti sono separati dai familiari, talvolta ricevono già i trattamenti riservati alle salme...(cfr. Sudnow, 1970).

Nell’esperienza dei più la morte sociale comincia quando si cessa di essere considerati soggetti che possono prendere decisioni responsabili sul proprio destino. La preoccupazione di evitare alla persona che non può guarire lo shock di conoscere la propria situazione porta coloro che sanno ― i sanitari e i familiari ― a farsi carico della gestione della parte finale della vita del malato, sottraendogli le informazioni. In questo modo lo si è già condannato a morte come soggetto, ancor prima che la patologia fisica porti a compimento il suo assalto all’organismo.

Sia le parole che il silenzio hanno il loro lato tragico. Volendo evitare il dramma dell’informazione, si precipita in quello della mancanza di verità. Il silenzio, che può essere un salutare correttivo della retorica banalizzante delle parole e può talvolta offrire la solida consolazione derivante dalla muta solidarietà, in queste condizioni è solo un vuoto di parole. Comunica al malato inguaribile che non è più qualcuno con cui si possa comunicare. Gli comunica, cioè, che socialmente può già considerarsi morto.

Ma i pazienti inguaribili, avviati verso la morte, vogliono sapere della loro situazione? Questo interrogativo continua ad offrire lo spunto per innumerevoli dibattiti. L’abituale mancanza di informazioni al malato

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sulla prognosi infausta può essere letta in diversi modi. Qualcuno fa responsabile della “congiura del silenzio” i medici e i familiari: sono loro che non vogliono parlare, o per malinteso paternalismo, o per risparmiarsi il peso di dover sostenere emotivamente un paziente confrontato con una prospettiva tragica. Altri invece, attribuiscono la volontà di non sapere ai pazienti: siccome essi rifiutano la verità, i sanitari si adeguano allo loro volontà e li preservano dal trauma di un’informazione non desiderata. O forse i malati fanno finta di non sapere, perché i medici e i familiari non vogliono parlare... Dove sta il torto e la ragione in questo scenario cangiante?

La pragmatica della comunicazione umana ci ha insegnato a sbrogliare matasse di questo genere riferendoci alla “punteggiatura” delle sequenze di eventi (cfr. Watzlawick, 1971).Quando in un rapporto comunicativo si creano delle catene che tendono a prolungarsi all’infinito (l’esempio più tipico è quello di una coppia che litiga: lei brontola, lui si chiude in se stesso; lei brontola perché lui si chiude, lui si chiude perché lei brontola; allora lei brontola ancora di più, mentre lui risponde chiudendosi ancora di più: teoricamente, questa catena non ha fine...), ambedue i modi di punteggiare sono possibili e corretti. Non si tratta di dare ragione all'uno o all’altro, adottando la sua punteggiatura degli eventi, ma di trovare un modo di spezzare la catena.

Uno di questi modi sono le ricerche empiriche. Il tema del consenso informato ha stimolato una quantità di indagini, dalle quali risulta che la falsa attribuzione del desiderio di informazione è uno degli errori più comuni nella pratica clinica. Tra ciò che i pazienti desiderano conoscere e quello che i medici pensano che essi vogliono conoscere esistono discrepanze rilevanti.

In una ricerca americana, ad esempio, condotta da Waitzkin e Stoeckle, sono stati registrati 336 incontri tra medici e pazienti in diversi contesti clinici, compresa la pratica privata e gli ambulatori ospedalieri. Si è chiesto ai medici di indovinare il desiderio dei pazienti di essere informati e l’utilità dell’informazione per il paziente. Anche ai pazienti si è domandato di fornire l’autovalutazione. La maggioranza dei pazienti desiderava conoscere quasi tutto e pensava che l’informazione sarebbe stata loro utile. Ma nel 65 per cento degli incontri i medici sottovalutavano il desiderio di informazione e l’utilità clinica dell’informazione stessa (Waitzkin, Stoeckle, 1976).

La stessa ricerca fornisce un altro dato importante. I ricercatori chiesero anche ai medici quanto tempo pensavano di aver dedicato a informare. Confrontando questa percezione soggettiva con il tempo oggettivamente risultante dalla registrazione degli incontri, risultò che in media i medici stimavano il tempo dedicato all’informazione nove volte di più del reale!

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Ai risultati prosaici, ma istruttivi, di questo tipo di ricerche bisogna aggiungere l’esperienza di chi ha infranto la barriera del silenzio e si è messo, senza preconcetti, a parlare con i malati, anche quelli inguaribili e avviati verso la morte, sulla loro situazione. Fa ormai parte irrinunciabile del patrimonio di esperienza acquistata nell’accompagnamento dei morenti la convinzione che si muore meglio quando è possibile esprimere le proprie emozioni, comunicarle a qualcuno, condividere i propri stati d’animo. Da quando Elisabeth Kübler-Ross ha cominciato a disobbedire alla consegna del silenzio con i morenti, dominante negli ambienti ospedalieri, si è aperto un capitolo nuovo di conoscenze dell’animo umano e dei suoi bisogni nel momento in cui si avvicina alla soglia estrema della vita. Quanto sappiamo sugli stadi del morire, sull’organizzazione della speranza e sulle modalità simboliche della comunicazione fa parte ormai della medicina moderna, allo stesso modo della chimica dei neurotrasmettitori o delle reazione immunologiche (Kübler-Ross, 1984).

2. Informare senza comunicare

I fautori del modello “autonomista”, espressione tipica di una medicina che si è aperta alla modernità, si fanno spesso promotori di una informazione a oltranza del malato, senza considerare la ripercussione che certe notizie possono avere nel malato stesso. Più che una questione di sensibilità morale, si tratta spesso di una concezione superficiale della comunicazione stessa. Non si considera a sufficienza, infatti, che la comunicazione non è costituita solo dagli aspetti verbali.

Il linguaggio ha sicuramente un’importanza unica per la specie umana, che da esso viene caratterizzata. Ma non è l’unico canale attraverso cui comunichiamo. Nella comunicazione umana si hanno due fondamentali possibilità di far riferimento a dei contenuti informativi: o rappresentandoli con un’immagine (come quando si disegna), oppure dando loro un nome. Tecnicamente si parla di comunicazione analogica nel primo caso, e di comunicazione numerica nel secondo. Comunicazione analogica è praticamente ogni comunicazione non verbale. Include le posizioni del corpo, i gesti, l’espressione del volto, le inflessioni della voce, la sequenza, il ritmo e la cadenza delle parole stesse, come pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un’interazione.

Il linguaggio numerico ha un’importanza particolare per gli esseri umani, perché serve a scambiare informazioni sugli oggetti e perché ha la funzione di trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. C’è però tutto un settore in cui facciamo affidamento quasi esclusivamente sulla comunicazione analogica, spesso discostandoci assai poco dall'eredità che ci hanno

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trasmesso i nostri antenati mammiferi. Quando ci avviciniamo ai segmenti estremi della vita ― la nascita e la morte ― scopriamo con sorpresa quanto abbiamo ancora in comune con gli animali.

Le vocalizzazioni, i movimenti di intenzione e i segni di umore degli animali sono comunicazione analogica, mediante la quale definiscono la natura delle loro relazioni, in mancanza della capacità di fare asserzioni denotative sugli oggetti. Ciò che gli animali capiscono non è certo il significato delle parole, ma la ricchezza della comunicazione analogica che accompagna il discorso. Ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico cede il primato alla comunicazione analogica. È un fenomeno che non si verifica solo tra gli animali, ma in molte circostanze della vita umana, come quando si corteggia o si combatte. E anche quando si reca soccorso. Per questo la comunicazione analogica, che è molto più ricca dell’informazione verbale, è centrale nel rapporto medico paziente.

Lo stato di malattia, specie quando è grave ed è percepito come una minaccia alla vita, provoca una regressione che ci fa diventare, come i bambini e come gli animali, sommamente recettivi alla comunicazione analogica che accompagna il discorso. E anche se le parole si organizzano abilmente per sostenere delle menzogne ― comprese quelle “pietose” e a fin di bene ― i comportamenti tradiscono la verità. Perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell’analogico. Sembra un paradosso: le intenzioni più sublimi che possiamo attribuire agli esseri umani ― la solidarietà, l’amore, il prendersi cura ― passano attraverso il canale povero dei gesti e della comunicazione non verbale. Gli atti di cura corporea e il contatto fisico sono destinati a portare un peso metafisico che sembra quasi sproporzionato. Attraverso gli umili gesti della “carne comune” (Maurice Merleau-Ponty) si esprime il mistero della reciprocità delle coscienze.

Questa percezione più acuta delle esigenze connesse con la comunicazione nell’ambito delle cure sanitarie, che eccede di molto i contenuti informativi che si possono trasmettere con le parole, ci permette di affrontare in modo più differenziato la questione inevitabile: bisogna comunicare o tacere una diagnosi infausta? La questione è diventata un luogo classico di dibattito in cui possiamo assistere allo scontro tra modelli di comportamento che aspirano ugualmente a realizzare un valore morale, ma nella pratica si scoprono come inconciliabili.

Di fatto, il confronto assomiglia di più a un dialogo tra sordi, in quanto si confrontano certezze profonde non disposte a farsi rimettere in discussione dagli argomenti contrari. Chi è convinto che una prognosi che si affaccia sulla morte non vada condivisa con il malato ― tutt’al più con i suoi familiari ― motiva questo comportamento con alti motivi ideali. È per

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risparmiare al malato un evento emotivamente catastrofico che si deve fare ogni sforzo per tenere lontano dal suo sguardo l’orrore della morte certa. Ma anche chi difende la posizione contraria, orientata a informare il malato della propria situazione, si giustifica con motivi ideali, che ruotano attorno al rispetto del malato e tendono a prevenire un altro tipo di sofferenze psicologiche: quelle che si aggrumano attorno al sistema di menzogne necessario per mantenere il malato nell’ignoranza della sua situazione.

L’incomprensione tra i partigiani delle due posizioni può raggiungere punte paradossali. Coloro che optano per la comunicazione della diagnosi si sentono accusati di “crudeltà” nei confronti del malato; chi sceglie la menzogna pietosa, in nome della compassione, si trova sospettato di essere solo un piccolo egoista, che vuol risparmiarsi le situazioni più ingrate, con lo sforzo di comunicazione che comportano. I tentativi di guadagnare l’altro alla propria posizione per lo più naufragano clamorosamente. Ciò non dipende dalla debolezza delle argomentazioni, ma dal fatto che gli atteggiamenti di fondo si nutrono di motivi che non sono solo razionali.

Alcuni di questi elementi sono stati messi in luce da uno studio pilota sui comportamenti e sugli atteggiamenti culturali dei medici circa la diagnosi e la prognosi di cancro. La ricerca è stata condotta da un’antropologa americana, Deborah Gordon, su un campione di medici toscani. Il merito della ricercatrice è stato quello di non limitarsi a contare quanti sono per il “dire” e quanti sono per il “tacere”. Ha studiato invece come questi orientamenti sono collegati, in profondità, con le convinzioni che riguardano la vita, la morte e la sofferenza; con il modo di gestire le “cattive notizie”, anche in contesti diversi da quello della salute; con i modelli fondamentali di educazione (orientata a promuovere l’autonomia personale oppure consolidare la dipendenza dai genitori e dalla famiglia); con le modalità che vengono utilizzate preferenzialmente per aiutare qualcuno in difficoltà. Ne risulta che anche in una regione relativamente omogenea, come la Toscana, i medici si orientano secondo due modelli profondamente diversi.

Trattandosi di uno studio antropologico, potremmo dire che formano due tribù. Per quella orientata in senso tradizionale, le decisioni relative a cure e trattamenti sono responsabilità del medico (e della famiglia), che scelgono ciò che “è meglio” per il paziente. Di fronte alla morte, l’obiettivo prioritario diventa la difesa del fragile dalla cattiva notizia, tenendolo all’oscuro. Per l’altra tribù, invece, l’informazione riguardo alla diagnosi, alla prognosi e al trattamento appartiene al paziente: è un suo diritto, perché deve conoscere e capire per poter decidere. L’ideale a cui tende è quello di rendere il paziente giudice di ciò che è meglio per lui.

Sono tribù molto compatte. I convincimenti di fondo ― riguardo alla

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vita e alla morte, agli eventi critici e al modo più appropriato per farvi fronte, al compito dei sanitari e al ruolo della famiglia ― sono condivisi da tutti e fortemente contrapposti a quelli dell’altro raggruppamento. Se dalla forma arcaica di lotta tra tribù si vuol passare a una forma più proficua di convivenza sociale, è necessario anzitutto convincersi che la posizione contraria non è solo errore o malafede. Ognuna ha valori importanti da difendere. In una società dove nessuno sembra più disposto ad ascoltare le ragioni dell’altro, la questione della comunicazione della diagnosi al paziente può diventare una palestra di dialogo, nel senso che era caro a Socrate. Quel dialogo che ci fa scoprire quanta ignoranza c’è dietro il nostro sapere, e quanto abbiamo bisogno di mettere insieme frammenti di verità per costruire la saggezza.

3. Come utilizzare il consenso scritto

Sembra che qualcuno in America abbia avuto l’idea di mettere in circolazione dei formulari rivolti a ottenere dal possibile partner un incontro sessuale una dichiarazione esplicita firmata di consenso al rapporto. Perché ― ironizza l'autore della trovata ― un rapporto sessuale è un fatto pericoloso: dalla piacevolezza del talamo vi potreste trovare in tribunale, accusati di stupro! Basti pensare ai processi che hanno avuto per mesi l’onore delle cronache (dal giovane Kennedy al pugile Tyson) per rendersi conto dell’entità del pericolo. Meglio, dunque, tutelarsi raccogliendo le prove inequivocabili della volontà non ambigua del partner!

Può sembrare una provocazione accostare i goliardici formulari per il consenso al rapporto sessuale alle procedure per ottenere il consenso informato nel contesto sanitario. Il parallelo stabilito tra lo scherzo di un buontempone e una delle pratiche a cui sembra arridere più successo nell’ambito delle nuove regole che stanno ridisegnando i rapporti tra sanitari e cittadini non vuol essere irriverente. Un effetto di “straniamento” si produce nell’uno come nell’altro caso, per il fatto che si applicano nell’ambito dell’intimità le procedure che valgono tra estranei. Non ci sorprende che una transazione commerciale o l’atto di compravendita di un immobile debbano obbedire a precise procedure amministrative: in questi casi tutti ci consideriamo degli estranei, anche all'interno di una stessa famiglia. Una parola di promessa può avere un significato morale e creare obblighi profondi, ma non ha alcuna rilevanza giuridica. L’atto di un notaio è una garanzia per tutti, proprio perché ci tratta come estranei.

Ci troviamo invece completamente spiazzati quando le regole che valgono tra estranei vengono trasposte all’ambito dell’intimità. È impossibile fissare in un formulario da sottoscrivere la complessità di un rapporto amoroso: il consenso scritto appare come una caricatura del consenso, che

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si ottiene nel rapporto vissuto. Chi argomenta contro le procedure giudiziarie per stabilire se ci sia stato o no il consenso a un rapporto sessuale attinge all’esperienza vissuta, dove l'assenso ci si presenta nella sua fondamentale ambiguità (conosciamo anche dei “no” che volgono per un “sì” o per un “forse”...). Soprattutto sappiamo che la comunicazione non verbale svolge una funzione interpretativa determinante: i “sì” o i “no” sono detti più dagli occhi o dal tono muscolare che dalle parole. Dobbiamo dire la stessa cosa del consenso scritto a un atto medico?

In parte sì. Quello che si realizza tra il medico e il paziente che gli si affida va ricondotto al paradigma dell’intimità piuttosto che a quello dell’estraneità. Il consenso prende forma in un contesto imbevuto di emozioni molto forti: speranza, paura, fiducia, diffidenza, angoscia. Spesso si tratta di decisioni di vita o di morte; sempre, comunque, di scelte che coinvolgono il benessere e la qualità della vita.

Il consenso inoltre è un processo che si modifica nel tempo. Il malato può cambiare idea, sulla base di ulteriori informazioni che è riuscito ad assimilare o del vissuto della malattia: il rifiuto di ieri può diventare una richiesta di oggi, o viceversa. C’è ancora una ulteriore analogia con il consenso amoroso: quello che si realizza tra medico e paziente passa anche attraverso la comunicazione non verbale, i silenzi, gli atteggiamenti. Che cosa diventa tutto ciò, ricondotto entro il quadro rigido di un formulario di consenso da espletare come una procedura amministrativa?

Se il parallelo tra l’assenso a un atto amoroso e il consenso a un atto medico può sembrare troppo leggero, possiamo fare un rimando di ineccepibile spessore filosofico. In una pagina delle sue Ricerche filosofiche Ludwig Wittgenstein mette in evidenza la necessità di utilizzare l’esperienza vissuta come chiave interpretativa di un comportamento, come può essere l’esperienza di venir guidati:

«Pensiamo all’esperienza vissuta del venir guidati! Chiediamoci: In che cosa consiste quest’esperienza, quando per esempio, veniamo guidati per una strada? ― Immagina questi casi:

Sei in un campo sportivo, magari con gli occhi bendati, e qualcuno ti conduce per mano, ora a sinistra ora a destra; tu devi sempre essere in attesa degli strattoni della sua mano e devi anche stare attento a non inciampare a uno strattone inaspettato. Oppure: qualcuno ti conduce per mano, con forza, dove non vuoi. O anche: il tuo compagno di ballo ti guida nella danza; tu ti rendi quanto più possibile recettivo per poter indovinare la sua intenzione a seguire anche la più lieve pressione.

Oppure: qualcuno ti conduce a fare una passeggiata; camminando conversate, e dove va lui vai anche tu. O ancora: state camminando per un viottolo di campagna e lasci che ti guidi.

Tutte queste situazioni sono simili l'una all’altra; ma che cosa è comune

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a tutte le esperienze vissute?» (Wittgentein, 1974, p.94s).

Senza nessuna forzatura, possiamo applicare questa descrizione fenomenologica così differenziata all’essere guidati da un medico verso una decisione terapeutica. Inevitabilmente ci domandiamo: come può un formulario scritto rispecchiare la differenza sostanziale che esiste tra il venir guidati attraverso strattoni e il lasciarsi portare insieme dal ritorno delle danza?

Con tutte queste riserve sulla possibile deriva burocratica di un uso generalizzato dei formulari per raccogliere il consenso informato, dobbiamo tuttavia riconoscere che è giunta l’epoca in cui la medicina deve trovare linguaggio e gesti per coniugare la pratica terapeutica con il nuovo clima culturale che attribuisce grande valore all’autodeterminazione dell’individuo. In un articolo dedicato a “Gli sviluppi del diritto alla salute in Italia” (L’Arco di Giano, n. 4, 1994, pp. 53-73) Amedeo Santosuosso ricostruisce il percorso che ha portato all’inizio degli anni Novanta all’esplicito e pieno riconoscimento del diritto alla salute come regola interna del rapporto medico-paziente e come cardine del processo decisionale. Benché sia diventata evidente ― a suo dire ― la distanza «tra la vecchia rivendicazione dei medici di procurare ‘il bene’ del paziente (anche senza la sua volontà) e il riconoscimento che il paziente è arbitro della valutazione della qualità della propria vita e che il medico non può sostituire la propria concezione della qualità della vita a quella del paziente» (p. 71), è possibile pensare a una evoluzione, piuttosto che alla sostituzione di un modello con un altro, previa una dolorosa lacerazione.

La questione, in definitiva, diventa quella dell’uso che si vorrà fare del consenso informato. Non è auspicabile che l’adozione di questa procedura sia svuotata della sua sostanza etica e ridotta a un espletamento formale.

Al consenso informato, quale momento cruciale del rapporto che si instaura tra il professionista sanitario e il malato, non possiamo più sottrarci. E non perché ci siamo messi in testa di scimmiottare l’America: il consenso informato ci è richiesto dalla nuova cultura che sta unificando l’Europa. Ma se vogliamo che l’unifichi per il meglio, non dovremmo dimenticare quella formulazione dell’etica orientata al “prendersi cura” reciproco, come struttura primordiale dell’esistenza umana. Ci possiamo realizzare come essere liberi e autonomi perché l’etica delle cure reciproche fa sì che qualcuno si prenda cura di noi, mentre noi ci occupiamo, in una circolarità delle cure, di coloro che hanno bisogno di noi. Nella salute e nella malattia. Ma soprattutto nella malattia.

Per la pratica della medicina dell’epoca moderna ― quella che ha interiorizzato il principio del rispetto delle decisioni che nascono dall’autonomia dell’individuo, ma nello stesso tempo non abbandona il valore tradizionale costituito dal legame di una particolare alleanza che si stabilisce

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tra chi offre le cure e chi le riceve ― il consenso informato è uno strumento. Senza mitizzarlo, è opportuno trattarlo in quanto tale, continuando a domandarci a quale modello di medicina vogliamo farlo servire. E soprattutto bisognerà convincerci che sull’uso del consenso informato abbiamo ancora tanto da imparare. Una medicina preoccupata della dimensione umanistica e interpersonale (così come, a livello normativo, ci viene richiesto anche dal riordino del Sistema sanitario nazionale: D.L. 517/1993, art. 14: “partecipazione e tutela dei diritti dei cittadini”) dovrà farne un tema privilegiato di ricerca.

BIBLIOGRAFIA

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Santosuosso A., Gli sviluppi del diritto alla salute in Italia, in L’arco di Giano, n. 4, 1994, pp. 53-73.

Schwartzenberg L., Viansson-Ponté P., Cambiamo la morte, Mondadori, Milano 1975.

Sudnow D., Dying in a public hospital, in Brim O.G., Freeman O.E. (a cura di), The dying patient, New York 1970.

Thomas L.-V., La mort africaine, Payot, Paris 1982.

Waitzkin H., Stoeckle J., Information control and micropolitics of health care: Summary of ongoing research project, in Social Science and Medicine, 10, 1976, pp. 263-276.

Watzlawick P., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971.