Problemi di giustizia nella sanità

Sandro Spinsanti

PROBLEMI DI GIUSTIZIA NELLA SANITÀ

in La fede e i giorni

anno II, n. 6, settembre/dicembre 1986, pp. 14-20

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1. Sanità e giustizia sociale

Una sola giustizia per tutta la terra

A un sistema sanitario chiediamo che sia non solo funzionale ed efficiente, ma anche giusto. La prima è un’esigenza che poniamo in nome della razionalità politica, la seconda in forza dell’etica. Non saremmo disposti ad accettare un’organizzazione della sanità in cui alcuni cittadini avessero ― per ragioni di censo o di privilegio ― i servizi sanitari garantiti, mentre altri fossero esposti senza tutela agli imprevisti della sorte. La saggezza tradizionale riconosce che davanti alla malattia e alla morte tutti gli uomini sono uguali. Ma questa pretesa non risponderebbe affatto a verità, qualora alcuni potessero tutelarsi ricorrendo ai servizi della medicina, da quelli ordinari a quelli più sofisticati, mentre altri ne fossero esclusi in ragione della loro situazione economica o sociale. Troveremmo questa situazione contraria allo spirito democratico e ai principi di giustizia che devono reggere la convivenza civile.

Queste affermazioni di principio, se non vogliono essere puramente velleitarie, devono confrontarsi con la realtà socio-politica concreta. Il confronto comporta un duplice giudizio. L’etica giudica i fatti, misurandoli sul metro dei valori che essa tutela e promuove. Ma si può dire che, inversamente, anche i fatti giudicano l’etica. La sperequazione clamorosa dei livelli di salute e di disponibilità di risorse sanitarie giudica e condanna un’etica che non si opponesse a questa situazione. Un’etica del genere meriterebbe l’accusa senza appello di essere viziata dall’individualismo e di mettersi a servizio della buona coscienza illusoria: niente più che un espediente per sentirsi “morali” in luoghi immorali...

Il conflitto tra la distribuzione delle risorse sanitarie e le esigenze della giustizia è stridente se consideriamo l’insieme del pianeta. Sulla base del più recente “rapporto sulla situazione sanitaria nel mondo”, redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, possiamo affermare che la situazione patologica delle popolazioni dei paesi industrializzati e del Terzo mondo si presenta con tratti marcati non solo di differenza, ma di differenza ingiusta. Nei paesi sviluppati, che hanno raggiunto nell’ultimo quarto di secolo una speranza di vita che si situa tra i 70-80 anni per le donne e i 64-72 anni per gli uomini, i decessi prematuri sono dovuti in primo luogo a malattie cardio-circolatorie e secondariamente

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al cancro ― le tipiche malattie del benessere ―; segue in terzo luogo la mortalità dovuta a incidenti (il 10 per cento dei decessi). La situazione nei paesi non industrializzati presenta invece un quadro in cui le malattie infettive e parassitane predominano e la speranza di vita è molto ridotta. La mortalità infantile, ad esempio, nei paesi più poveri del mondo è venti volte più alta che in Occidente: “una situazione ― commenta l’O.M.S. ― non solo evitabile, ma anche imperdonabile, che riflette la mancanza di premura della comunità mondiale a colmare l’abisso che separa i paesi sviluppati da quelli non sviluppati sul piano sanitario”. La dizione eufemistica di “paesi in via di sviluppo” non può più essere usata senza ipocrisia, se teniamo presente che, mentre i paesi industrializzati consacrano alla sanità dal 5 al 6 per cento del loro bilancio, gli altri vi dedicano solo il 2-3 per cento delle loro scarse risorse. Lo scarto è dunque destinato ad accrescersi ulteriormente, e il sottosviluppo a cronicizzarsi. Alla situazione di “povertà assoluta” (monetizzata convenzionalmente in un reddito annuale inferiore ai 500 dollari), in cui versano attualmente un miliardo di essere umani, fa riscontro una miseria sanitaria assoluta. Ciò implica che l’ambizioso programma formulato dall’O.M.A. ― “Salute per tutti per l’anno 2000” ― non può essere realizzato senza un nuovo ordine sanitario internazionale.

Il fatto delle scandalose disuguaglianze a livello mondiale incombe sulla bioetica, in quanto sistema rivolto a risolvere i problemi posti dal progresso bio-medico secondo criteri di giustizia. La discussione etica di tali problemi resterà un lusso intellettuale e avrà un carattere mistificatorio finché ci saranno persone che muoiono per mancanza di cibo e di cure elementari, finché 20 milioni di individui resteranno colpiti da cecità da tracoma per mancanza di igiene rudimentale o di antibiotici, finché nella stagione delle piogge milioni di individui continueranno a diguazzare nel focolaio di infezioni creato dai loro propri escrementi.

Finché questa situazione, frutto di un ordine economico mondiale ingiusto, non sarà modificata, anche il sistema etico di distribuzione delle risorse sanitarie più soddisfacente potrà essere legittimamente sospettato di essere nient’altro che un alibi ideologico.

La comunità civile e l’assistenza sanitaria

I problemi della giustizia non sono meno drammatici anche se limitiamo la nostra considerazione a un ambito geo-politico più ristretto, come può essere il nostro paese. La difficoltà in questo caso deriva dai cambiamenti intervenuti nel modo di considerare la salute che hanno reso il problema della distribuzione delle risorse mediche secondo giustizia infinitamente più complesso. In particolare, il perno di tali problemi sta nel mutato ruolo dello Stato riguardo alla sanità. Nelle società primitive si lasciava morire di fame i vecchi o li si induceva a sopprimersi volontariamente per non essere più di peso. Già l’antichità, intuendo che i bisognosi costituivano un pericolo pubblico, istituì delle forme di

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assistenza, non basate sul principio del merito (come le istituzioni create per i vecchi legionari romani), bensì su quello della necessità: così il “panis popularis” nella Roma del basso impero. Il cristianesimo introdusse l’ideale della carità e sviluppò le forme di assistenza, come gli ospedali, che con molte trasformazioni sopravvivono al giorno d’oggi. Con l’Illuminismo l’assistenza fu secolarizzata e demandata allo Stato. Secondo la logica del contratto sociale di Rousseau, la società, a profitto della quale l’individuo ha alienato una parte della sua libertà, deve in cambio farlo beneficiare di un’organizzazione senza difetti. Lo stato di bisogno equivale a una violazione del contratto sociale, e la società deve riparare questa mancanza al suo obbligo contrattuale. Le istituzioni di previdenza sociale, che in epoca di liberalismo erano limitate alla classe operaia, hanno cominciato di recente a estendersi fino a coprire con il loro ombrello tutti i cittadini. L’idea generale è che ogni individuo, in quanto tale, ha diritto a una garanzia da parte dello Stato per quanto riguarda le esigenze fondamentali della salute. Da questo spirito è nato in Italia nel 1978 il Servizio Sanitario Nazionale, alla luce del duplice ideale di promozione della persona e di tutela del bene essenziale della salute.

La bancarotta del generoso progetto di uno Stato che garantisce a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria non è dovuta solo a disfunzioni contingenti. Parallelamente all’attribuzione allo Stato di compiti assistenziali sempre maggiori, la concezione stessa di salute si è allargata, fino a comprendere uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto l’assenza di infermità” (definizione proposta dall’O.M.S. nel 1946). La medicina stessa si vede proposto un compito nuovo, che supera enormemente in ampiezza quello tradizionale di cercare di allontanare la morte. Essa deve infatti, promuovendo la salute, procurare un “completo benessere”.

Il confine tra bisogni e desideri si fa esiguo, fino quasi a dissolversi. Per fare qualche esempio: se per una donna, afflitta da sterilità, “il completo benessere” psicofisico richiede soggettivamente una gravidanza e la generazione di un figlio proprio, perché non dovrebbe la comunità, attraverso il servizio sanitario, concederle la costosa pratica della fecondazione artificiale? Lo stesso discorso vale anche per il transessuale, autorizzato oggi anche dalla legge a dichiarare la propria appartenenza a un sesso psicologico discordamente con quello biologico, il quale volesse eliminare la discrepanza mediante un’operazione chirurgica. L’esemplicazione potrebbe continuare con la chirurgia estetica, la cura delle calvizie, la scelta prenatale del sesso del proprio figlio...

La moltiplicazione dei bisogni, al ruolo dei quali tendono ad essere promossi anche i desideri, fa divaricare inevitabilmente la forbice tra la domanda e le possibilità di rispondervi. Per quanto si accrescano gli investimenti per la sanità, i bisogni non potranno mai essere soddisfatti: essi tendono infatti ad essere teoreticamente infiniti. Di qui la necessità di assumere delle decisioni di distribuire le risorse sanitarie limitate secondo criteri che corrispondano sia alla razionalità-programmazione, sia alla giustizia.

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Utilità e giustizia: due esigenze da conciliare

La ricerca di una base etica per la distribuzione delle risorse è una preoccupazione tanto del pensiero filosofico, quanto di quello religioso. Per quanto riguarda il primo, la riflessione contemporanea ha assunto due orientamenti: quello di tipo utilitaristico e quello che si riferisce alla giustizia distributiva. Secondo il principio dell’utilità, un sistema sanitario è giusto se procura il bene per il maggior numero di persone, ovvero se migliora la salute dell’intera società. Ciò vorrebbe dire, in concreto, che il sistema sanitario in questione permette alla maggioranza di raggiungere il più alto livello possibile di sopravvivenza infantile, il maggior numero di anni di speranza di vita, il maggior numero di giorni senza ospedalizzazione. Ma se un sistema ― si può obiettare ― per migliorare la salute della maggior parte della società, trascurasse minoranze quali gli anziani o gli handicappati, potrebbe ancora essere giusto? Il problema etico che sorge dall’indirizzo utilitaristico è proprio il trattamento riservato a coloro che non possono essere inclusi nel “grande numero”.

In sintonia con l’orientamento utilitaristico, si ricorre anche, come criterio per distribuire le risorse, all’analisi costi-benefici. La difficoltà in questo caso consiste nel fatto che la sanità implica giudizi di valore non riconducibili alla metodologia scientifica ed economica. Secondo un’ottica utilitaristica, per esempio, in certi casi, non curare un individuo sarebbe la scelta più giusta rispetto al bene comune: così, per esempio, quando nasce un bambino gravemente handicappato, il quale per il resto della vita assorbirà una parte consistente delle risorse sanitarie. Ma la vita di una persona non è un bene omologabile ad altri beni, né può essere sottoposto a un’analisi quantitativa. Inoltre in una società i beni non sono solo di ordine economico, ma anche simbolico, etico e spirituale. Quando si fa, per esempio, uno sforzo eroico per salvare la vita di un bambino, la società trae da questo gesto un vantaggio simbolico, che per la convivenza civile può essere molto più importante di qualsiasi profitto economico. Crescono infatti la filantropia e la pietà, viene incrementato il senso di appartenenza alla comunità, nasce la fiducia, si stimola contagiosamente il desiderio di altruismo e di abnegazione: tutti valori che non sono riconducibili a un’analisi in termini esclusivi di costi e benefici, considerati in senso monetario.

L’altra via percorsa dall’etica filosofica è quella di creare il criterio per la distribuzione delle risorse limitate nella giustizia sociale. Sul principio in se stesso non è difficile ottenere il consenso. Le difficoltà sorgono quando si passa a stabilire dei criteri operativi. Alcuni pensatori si orientano secondo criteri più meritocratici (del genere: “a ognuno secondo il suo contributo sociale”); altri ritengono che, per giustizia distributiva, lo Stato deve fornire ai cittadini solo un minimo decente di assistenza sanitaria in maniera uguale, lasciando che chi ha i mezzi possa, a proprie spese, procurarsi dei servizi più individualizzati o cure mediche di più alto livello; altri ancora esigono, sempre in nome della giustizia distributiva, che siano tenute presenti le differenze rilevanti tra le persone,

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affinché si possa dire che sono trattate in maniera uguale. La malattia o l’handicap sono alcune di tali differenze rilevanti da considerare. La discussione filosofica non è comunque ancora così avanzata da poter offrire indicazioni operative in campo di politica sanitaria.

Sulla esigenza di fondo di pensare i problemi sanitari alla luce della giustizia concorda anche la riflessione religiosa. La giustizia sociale costituisce un argomento centrale nel magistero e nella predicazione della Chiesa cattolica, almeno da quando si è evidenziata la “questione sociale”, nella seconda metà del XIX sec. Il Vaticano II nella costituzione Gaudium et Spes ha ricordato la centralità del “bene comune” ― definito come “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” ― come fonte di diritti e doveri che riguardano l’intero genere umano (G.5., 26).

Neppure l’ideale etico-religioso della promozione del bene comune fornisce regole comportamentali per risolvere i dilemmi che si presentano nella distribuzione delle risorse mediche limitate. Se ne può tuttavia ricavare indicazioni tutt’altro che irrilevanti. In tal senso va considerato il parere autorevole del card. Carlo M. Martini, secondo il quale “uno dei maggiori incrementi della salute deriva dalla lotta contro la povertà, dalla migliore igiene di vita, da una migliore distribuzione delle ricchezze e, in ultima analisi, da una giustizia sociale che promuove il bene comune”. La politica sanitaria più giusta, sia a livello nazionale che a dimensione planetaria, è quella che include lo spazio per migliorare le condizioni delle persone in più grave necessità e per lottare contro le abitudini nocive della nostra società.

2. La giusta distribuzione delle risorse sanitarie

Criteri per la scelta

Il medico, più o meno consapevole dei presupposti di etica sociale che stanno a monte del suo operato, si trova sempre più frequentemente confrontato con dilemmi connessi con la scarsità delle risorse e la necessità di operare delle scelte. Tali dilemmi raggiungono il massimo dell’intensità drammatica nell’ambito delle “lifesaving therapies”. “Chi deve vivere, quando tutti non possono vivere?”: questo, in termini crudi, il dilemma che devono affrontare sempre più frequentemente i sanitari. Il caso più discusso, fin dalla fine degli anni ’60, è stato quello del rene artificiale, disponibile in misura sempre inferiore al numero delle persone che ne hanno drammaticamente bisogno. La distribuzione di organi artificiali o naturali (trapianti) a pazienti che altrimenti morirebbero resta la situazione emblematica di un problema di più ampia portata che può essere ricondotto all’interrogativo: chi deve ricevere assistenza medica in quelle circostanze in cui non ci sono risorse sufficienti per tutti? È opinione del filosofo

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etico Fletcher che il compito numero uno dell’etica medica oggi sia quello di sviluppare criteri per la selezione. L’etica può contribuire in maniera decisiva a identificare i sintomi giusti e quelli ingiusti, e ad elaborare modelli di scelta orientativi, dando una giustificazione razionale delle scelte.

Riguardo ai criteri per la selezione, la discussione etica ha distinto con chiarezza due serie di criteri: quelli di esclusione e quelli di selezione finale. Quando le risorse mediche insufficienti richiedono una selezione tra diversi pazienti, vanno in un primo tempo esclusi coloro per i quali la terapia, da un punto di vista medico, avrebbe poche o nulle probabilità di successo. Una risorsa medica limitata va distribuita solo a quei pazienti che hanno ragionevoli probabilità di trarne beneficio. L’“accettabilità medica” è un criterio sostanzialmente oggettivo, che suscita di per sè poche controversie. Talvolta però questo criterio di esclusione implica anche dei fattori psicosociali, meno oggettivi e controllabili di quelli strettamente clinici. Alcuni medici, per esempio, ritengono che la “cooperatività” sia un atteggiamento assolutamente indispensabile in dialisi: il paziente che non coopera condanna al fallimento questa terapia, che esige costanza e disciplina. Anche per il trapianto di reni i fattori psicosociali sono importanti. È appurato, infatti, che il suicidio tra le persone sottoposte a questo tipo di terapie renali è cento volte maggiore che nel resto della popolazione.

Molto più controverse sono le regole per la selezione finale tra pazienti che non siano stati esclusi per qualcuno dei motivi precedenti: alcuni dei criteri specifici proposti si sovrappongono a quelli del primo stadio. Saranno preferiti coloro per i quali, dal punto di vista medico, si intravede una relativa probabilità di successo. Ma per la selezione si ricorre per lo più a fattori sociali, che niente hanno a che vedere con l’aspetto strettamente sanitario. Tale è, ad esempio, il ruolo familiare del malato: numero ed età delle persone che da lui dipendono. Oppure la sua utilità misurata sui potenziali contributi che darà alla società, una volta ristabilito. Un altro fattore sociale considerato sono i servizi passati resi alla società (un politico o un filantropo sono con questo criterio anteposti a un barbone). Sono legittimi tali confronti tra persone in situazioni di vita o di morte?

L’orientamento ai criteri sociali è strenuamente difeso da chi in etica si ispira ai principi dell’utilitarismo. Nella forma estrema, l’argomento utilitarista può essere così formulato: le istituzioni mediche sono fiduciarie della società e devono rendere conto ad essa del loro operato. Nello scegliere di salvare una vita piuttosto che un’altra, bisogna garantire gli interessi della società, considerando i futuri servizi che saranno resi al paziente. La società, infatti, investe una risorsa scarsa in una persona piuttosto che in un’altra, e ha diritto di aspettarsi di recuperare il suo investimento. Il criterio utilitarista è fortemente avversato da altre impostazioni etiche, sia demologiche (la bontà morale dell’azione non deriva dalla felicità che produce o dal dolore che evita, bensì dal dovere a cui

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si obbedisce), sia personalistiche (l’etica cristiana in primo luogo, con la sua affermazione del valore incomparabile di ogni individuo, creato da Dio e salvato da Cristo).

Il primo venuto”: razionalità del criterio casuale

In assenza della possibilità di stabilire una gerarchia tra le persone da salvare prioritariamente, molti ripiegano sul criterio della scelta casuale, come è quella di dare la precedenza ai primi iscritti nelle liste di attesa (in America il criterio suona come “first come, fiorst treated”). Malgrado l’apparenza dell’arbitrio, questo approccio ― sostengono i suoi fautori ― tutela meglio di altri alcuni valori fondamentali della società. Come la dignità personale, violata ogni volta che si istituiscono confronti tra il valore relativo degli individui. Oppure il valore del rapporto di fiducia tra il paziente e il medico, che viene invece irrimediabilmente compromesso quando il paziente si sente sottoposto a giudizi comparativi e trattato come un mezzo per un fine sociale. Anche dal punto di vista psicologico i candidati a terapie che salvano la vita e le loro famiglie possono sopportare meglio il rifiuto se questo è basato sul caso, piuttosto che su giudizi di natura sociale. Un argomento particolarmente incisivo a favore della regola del caso è stato avanzato dal teologo evangelico Ramsey: nel distribuire le risorse mediche tra persone ugualmente bisognose ― egli sostiene ― l’estensione della cura non discriminatoria di Dio negli affari umani richiede una selezione a caso e proibisce giudizi, che presumano di essere “divini”, se un essere umano sia più meritevole di un altro. La selezione casuale, insomma, assomiglierebbe di più al comportamento di Dio, che “fa sorgere il sole e fa cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti (cfr. Mt. 5,45) e sui buoni e sui cattivi”...

L’aspetto razionale di questo criterio è che assicura fin dall’inizio che ci saranno uguali opportunità di sopravvivenza, senza alcun favoritismo (quello che si paventa sono soprattutto i giudizi di valore surrettizzi: la priorità stabile in base a una pratica equiparazione tra valore sociale e rispettabilità sociale). Solo la scelta casuale evita un giudizio di valore, secondo cui alcuni esseri umani sono più degni di essere salvati di altri. Tuttavia, per quanto stringenti possano essere le argomentazioni a favore di criteri casuali di scelta, sarà difficile sottrarsi a una valutazione di ordine sociale se si dovesse scegliere, poniamo, tra uno scienziato che è una persona di alto valore morale e padre di cinque bambini, e un assassino che ha compiuto una strage...

Nessun sistema di distribuzione di risorse mediche scarse può realizzare tutti i valori di una società. Ma è auspicabile che chi si trova nella situazione ingrata di dover fare delle scelte che comportano seri effetti sociali sia in grado di giustificare a se stesso e all’opinione pubblica i criteri ai quali si ispira; e possa confrontarli con altri criteri. L’etica più umana è proprio quella che nasce dal crogiolo del confronto, in spirito di dialogo.