Sanità pubblica in una società multietnica

SANITÀ PUBBLICA IN UNA SOCIETÀ MULTIETNICA

a cura di Sandro Spinsanti

Esse Editrice, Roma 2001

pp. 35-51

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 CARITÀ O GIUSTIZIA?

MODELLI ETICI DI SANITÀ E MIGRAZIONE

Diritti e doveri nell’ambito dell’assistenza sanitaria

Diamo per scontato che i nostri comportamenti nei confronti degli immigrati siano vincolati dalle leggi. Queste hanno messo a fuoco i punti nodali delle garanzie da offrire a chi emigra nel nostro paese, con riferimento al diritto di soggiorno, al lavoro, all’assistenza sanitaria. Una serie di normative, culminate nella legge con cui il Senato il 19 febbraio 1998 ― “Disciplina dell’immigrazione sulla condizione dello straniero” ― ha concesso una piena cittadinanza sanitaria agli immigrati, ha scandito l’impegno nell’ambito delle politiche sanitarie (cfr. Marceca, 1998). Tuttavia siamo consapevoli che ciò a cui siamo tenuti per legge non esaurisce l’ambito dei nostri doveri. L’etica si colloca a monte dei nostri comportamenti e ispira le motivazioni a cui questi si ispirano. In questo senso l’alternativa “carità o giustizia”, che guida la nostra riflessione, apre scenari diversi sullo spirito con cui comportamenti analoghi potrebbero essere messi in atto.

Il primo passo nella riflessione consiste nel sottrarci alla seduzione di risposte semplici, ma che impoveriscono la complessità degli interrogativi soggiacenti. A cominciare dalla domanda se dobbiamo o no fornire l’assistenza sanitaria a cittadini di altri paesi immigrati in Italia. Potremmo essere tentati di dividere gli interlocutori in buoni o cattivi, a seconda che siano o no disposti a condividere le nostre risorse con chi non appartiene alla nostra società.

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Rispondere in senso positivo o negativo alla questione se è un nostro obbligo sociale fornire l’assistenza sanitaria, non dipende da bontà d’animo o da egoismo. O almeno, non solo.

Ci sono molte altre componenti in gioco, legate a risposte che diamo a interrogativi di tipo antropologico e sociale (quale uomo, quale modello di società vogliamo promuovere?). La risposta alla domanda è legata, in particolare, al grado di “arcaicità” del gruppo sociale. Il termine arcaico non intende in questo contesto essere valutativo, ma descrittivo. Nei gruppi arcaici alla domanda: “A chi dobbiamo destinare le nostre risorse?” si tende a rispondere partendo da una netta distinzione tra “noi” e “loro”. Più precisamente, l’arcaicità è universalmente proporzionale all’inclusività della categoria “noi”. Il criterio di inclusione o esclusione è precisamente il riconoscimento che qualcuno faccia parte della comunità.

Per vedere come funziona questo meccanismo selettivo, non è necessario ricorrere a gruppi sociali che vivono in condizioni estreme, dove una scelta inclusiva troppo ampia comprometterebbe la sopravvivenza stessa del gruppo. Anche nelle nostre società c’è chi pensa in questi termini, con riferimento alla macroallocazione delle risorse. Qualche anno fa un filosofo americano ha proposto una formula per sintetizzare i doveri morali che si impongono in quest’epoca di crisi planetaria. L’ha chiamata lifeboot ethics, “etica da scialuppa di salvataggio”. Giustificava con questa formula il suggerimento di ritirare gli aiuti ai paesi poveri: siccome non ci si può salvare tutti ― prendere tutti sulla scialuppa vorrebbe dire l’affondamento sicuro! ― che sopravvivano almeno quelli che hanno più chances...]

L’atteggiamento di esclusione è stato variamente contrastato nella lunga storia educativa dell’umanità. La spinta più forte ad ampliare la capacità di inclusione viene dai modelli comunitari prodotti dalle religioni. Solo per accennare al filone ebraico-cristiano, pensiamo all’insegnamento contenuto nel Deuteronomio: “Amate il forestiero perché siete stati forestieri in terra d’Egitto” (Deut. 10,18).

Nella tradizione cristiana la spinta messianica si è tradotta in atteggiamenti universalistici. Un omaggio indiretto all’apertura della comunità cristiana è offerto dall’imperatore Giuliano, paladino di un ritorno al paganesimo, quando osserva che il cristianesimo esercita una forte attrazione proprio per l’abolizione dei confini tra “noi” e “loro”: “Ciò che fa forti [i cristiani] è la loro filantropia nei confronti degli estranei e dei poveri... È vergognoso per noi che i galilei non esercitino la misericordia solo con quelli che condividono la loro fede, ma anche con quelli che venerano gli idoli”.

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Non è solo la morale religiosa che spinge verso un allargamento dei confini del “noi”, ovvero della inclusività. Basti pensare al ruolo che ha tradizionalmente svolto l'ethos medico. Alla domanda: “Verso chi è obbligato il medico?”, è stata data una risposta universalistica, fondata sul bisogno: il medico è tenuto a prestare la sua opera professionale verso chiunque abbia la vita o l’integrità fisica minacciata da un evento morboso. La risposta medica alla malattia è trasversale alle divisioni etniche, culturali, ideologiche.

Concretamente, una prospettiva mirante a estendere i benefici dell’assistenza sanitaria a strati sempre più ampi della popolazione in nome non della carità ― o della filantropia ― ma della giustizia si è realizzata con l’affermarsi del welfare state. E stato necessario superare le resistenze avanzate del pensiero liberale. La pars destruens della posizione liberale consiste nella critica dell’assistenzialismo e alla beneficenza, quali meccanismi per la redistribuzione delle risorse. Il liberalismo tende a valorizzare l’individuo e le sue risorse, piuttosto che lo Stato; più che delle provvidenze pubbliche, si fida del mercato (questa è la pars construens del pensiero liberale).

Il liberalismo non è stato sconfitto dal prevalere dei modelli organizzativi sociali, come dimostra il forte vento neo-liberale che spira sui nostri sistemi, senza risparmiare la sanità. È importante tener presenti i valori del liberalismo riferito all’assistenza sanitaria. Un frutto della rivoluzione liberale è l’introduzione del concetto dei “diritti”. La prospettiva cambia radicalmente se concepiamo l’assistenza sanitaria come prodotto di intenzioni caritatevoli o come diritto rivendicabile.

Anche il rispetto delle individualità ― personali e culturali ― è un portato del liberalismo. Tuttavia bisogna riconoscere che il modello liberale non sa offrire una protezione sufficiente agli “ultimi della fila”. Argomenta in modo efficace Norberto Bobbio nella sua Lettera al volontariato: “Il mercato regola i rapporti di scambio tra chi soffre e chi domanda, tra chi dà e chi riceve. Ma per chi non ha nulla da offrire o da dare? Che cosa hanno da offrire o da dare i vecchi non autosufficienti, gli handicappati, i malati cronici, i malati di mente e, allargando i confini del nostro Paese, i poveri di tutto il mondo, coloro che costituiscono il pianeta dei naufraghi?”. E in questo vasto disegno di protezione da offrire ai fragili che si collocano le misure che estendono a tutti i cittadini i servizi sanitari, così come sono state formulate dal Servizio sanitario nazionale introdotto in Italia nel 1978 e riaffermato in tutti i successivi disegni di riordino.

Il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 introduce un ampliamento ulteriore, includendo gli immigrati tra le categorie fragili nei

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confronti delle quali il Paese nel suo insieme si proclama debitore di una particolare tutela. Al fondo di questa misura normativa possiamo intravedere una tematizzazione, almeno implicita, dell’esperienza della migrazione come categoria antropologica. Due prospettive di fondo si confrontano. La prospettiva dominante considera la sedentarietà come normale; la migrazione serve alla continuazione della sedentarietà in un altro luogo.

Una prospettiva opposta è quella che considera come normale per l’esistenza terrena la migrazione e come eccezionale la sedentarietà. In questa prospettiva vengono considerati come concetti superati e non più attuali quelli di radicamento in un ambiente spaziale e sociale, e soprattutto il concetto di patria. In epoca di tv satellitare non è più appropriato identificare l’appartenenza a una nazione o a una cultura come il luogo dove risiede una persona. La semplice presenza sul territorio di un certo paese viene considerata come condizione sufficiente per fondare pieni diritti di cittadinanza; la mancata integrazione viene vissuta come una “discriminazione” ingiustificabile.

Alle due prospettive corrispondono posizioni politiche contrapposte, che si concretizzano in due diverse politiche sanitarie. Da questo punto di vista il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 prende posizione esplicitamente per la seconda. Per quanto riguarda la tutela degli stranieri immigrati, per il triennio propone il raggiungimento dei seguenti obiettivi:

“L’accesso all’assistenza sanitaria deve essere garantito a tutti gli immigrati, secondo la normativa vigente, in tutto il territorio nazionale.

Secondo quanto previsto dall’Obiettivo II del Psn, la copertura vaccinale garantita alla popolazione italiana deve essere estesa alla popolazione immigrata”.

Etica e sanità in una società pluralistica e multiculturale

Il rapporto tra etica, sanità e pluralismo di valori, nel concerto delle molte culture che vivono l’una accanto all’altra nella nostra società, può sembrare, a una prima approssimazione, un problema artificiale. O quanto meno enfatizzato per dar materia di discussione agli intellettuali, più che un ambito della pratica medica che ponga dei reali interrogativi a chi la medicina la esercita come professione e a chi ne usufruisce come paziente. Il fatto è che l’etica medica non si è mai sentita messa seriamente in discussione dal pluralismo dei valori e dalla molteplicità delle culture. Una società pluralista e multiculturale sembra piuttosto destinata a mettere ancor più in risalto la forza dell’etica medica nella sua capacità di uniformare i comportamenti.

La permanenza dell’etica medica, inalterata nel tempo, costituisce un fenomeno unico nella storia della nostra civiltà. Se pensiamo ai cambiamenti

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avvenuti nella civiltà occidentale, dall’epoca greco-romana a oggi, in 25 secoli di storia, non riusciamo a identificare nessun sistema di pensiero, nessuna istituzione civile o religiosa che abbia resistito alla prova del tempo, senza adattarsi e trasformarsi. La medicina stessa, così come la esercitiamo oggi, non è sicuramente la medicina di Ippocrate o di Galeno, e neppure quella di Pasteur; per non parlare dei cambiamenti a cui sono soggetti i sistemi sanitari. In Italia nello spazio temporale di neppure vent’anni anni abbiamo fatto la riforma sanitaria, con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, e la riforma della riforma (e abbiamo avviato la riforma ter...!). Eppure in questo scenario di cambiamento, di continua modellazione del pensiero e della pratica, qualcosa ha resistito alla prova del tempo: l’etica medica.

L’etica medica ha trovato un consenso stabile nelle società, malgrado tutte le trasformazioni avvenute in superficie e in profondità. Quando ci riferiamo ai valori che ci permettono di discriminare tra buona e cattiva medicina, sembra che possiamo appoggiarci su modelli transtemporali. Non è infrequente che anche ai nostri giorni vengano convocati convegni sotto l’egida dell’etica ippocratica. I punti interrogativi ― del tipo: è ancora attuale il giuramento di Ippocrate? ― hanno per lo più un valore retorico: la convinzione diffusa è che quel modello di buona medicina sfida il tempo. Un po’ come il modello del buon samaritano in ambito religioso: in ogni tempo e in ogni cultura l’etica medica si gioca intorno agli stessi valori.

Per quanto numerose siano le sollecitazioni della realtà di oggi riguardo al progresso biomedico, l’etica medica, intesa come consenso condiviso nella società sui valori ai quali deve ispirarsi una buona medicina, continua a proporsi come un modello stabile. In epoca di “pensiero debole”, l’etica medica vale invece come esempio emblematico di pensiero quanto mai forte.

La società post-moderna si dichiara ideologicamente attrezzata per far convivere la diversità di valori, di comportamenti, di morali; la tolleranza è l’acquisizione più permanente della rivoluzione liberale che ha inaugurato l’epoca moderna. Ma nella medicina vale un altro registro. Essa fa fronte alla diversità dei mondi morali di appartenenza presupponendo implicitamente che quando si tratta della cura della malattia e della promozione della salute esista un’unica etica, e che questa etica valga per tutti. Qualunque siano le opzioni individuali riguardo alla sessualità, alla politica e alla vita privata, in medicina vale una specie di semper et ubique.

Questa etica medica, che ha attraversato i tempi inalterata, sopravvivendo alle grandi rivoluzioni che ha conosciuto la medicina, si può circoscrivere all’interno di alcuni paletti ben definiti. Il più chiaro è quello che, nel linguaggio

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dei filosofi, è stato descritto come “il principio di beneficità”. In termini colloquiali, si può dire che nella medicina è considerato in accordo con l’etica ciò che è fatto per il bene del paziente. La medicina è un’impresa tutta orientata ad arrecare benefici al paziente; finché la medicina può giustificare ciò che fa ― qualunque cosa sia: dalla mano sulla fronte all’interferone, dal placebo al trapianto di organi, dall’aspirina alla manipolazione genetica ― come un beneficio arrecato alla salute del paziente, tutto è eticamente giustificabile.

Nella nostra tradizione non si registra quasi nessuna voce stonata che, cantando fuori dal coro, metta in discussione che la medicina sia per natura sua un’impresa etica, in quanto rivolta al bene delle persone. Il “quasi” restrittivo si riferisce alle critiche alla medicina nate per lo più in ambito letterario. Più precisamente, teatrale.

Se vogliamo sorvolare sul classico Molière, e le sue celebri frecciate contro i medici, non possiamo dimenticare, più vicino a noi cronologicamente, l’irriverente George Bernard Shaw. Alla critica delle intenzioni dei medici ha dedicato una pièce, rappresentata per la prima volta nel 1903, a Londra: Il dilemma del dottore. Il suo acume polemico non è rivolto contro la medicina in se stessa, bensì contro la presunzione della medicina di riuscire a combinare l’interesse del medico e l’interesse del paziente.

Dubitando quasi che la commedia in se stessa fosse sufficiente a esplicitare il suo assunto, Bernard Shaw ha corredato la pièce di uno scritto polemico di commento, dove leggiamo tra l’altro: “Che una nazione di uomini sani di mente, avendo constatato che la produzione di pane viene stimolata dai profitti conseguiti dai fornai, consenta ai chirurghi di trarre un profitto analogo dal taglio delle mie gambe, è un fatto di per se sufficiente a farci perdere ogni fiducia nel consorzio civile. Eppure è proprio questo quello che noi abbiamo autorizzato” (Shaw, 1984).

La sofisticazione di Bernard Shaw nel Dilemma del dottore è di non mettere direttamente in questione l’interesse economico ― vale a dire: più il medico fa medicina, più taglia gambe, più prescrive farmaci, e più guadagna ― ma di introdurre sulla scena un interesse non economico: nel caso specifico, l’interesse del dottore è quello di sposarsi una possibile vedova, che avrebbe molte buone probabilità di diventare tale se non fosse lui a curare il marito tisico della signora, ma affidasse il malato a un collega di cui conosce l’incompetenza. Il sasso contro le intenzioni “benefiche” che animerebbero i medici era lanciato

Un paio di decenni dopo un altro uomo di teatro, Jules Romains, ha messo in scena nel 1923: Il dottor Knock o il trionfo della medicina. Con il tempo, questa pièce si è affermata come una delle più radicali rimesse in discussione

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dalla medicina. Tutto è contenuto in “in nuce” nel titolo della tesi di laurea attribuita al dott. Knock: “Sui pretesi stati di salute”. Il sano è un malato che si ignora. La medicina equivale a un progetto di medicalizzazione intensiva della società (Romains, 1989).

Nell’opera di Jules Romains ci sono già tutte le premesse per quella critica di tipo sociologico che verrà sviluppata negli anni Settanta del nostro secolo da studiosi come Ivan Illich (1976), Jacques Attali (1979), McKeown. Una delle illusioni più pericolose ― per riassumere la tesi centrale di Ivan Illich ― è che per avere migliore salute bisogna accrescere la quantità delle cure mediche; la medicalizzazione intensiva porta, invece, all’espropriazione della salute. Ma, a parte queste voci dissonanti, che sono state subito emarginate, nessuno ha rimesso in discussione la convinzione generale che la medicina sia un’impresa rivolta al bene dell’uomo e quello che la medicina fa, purché porti un beneficio a paziente, sia eticamente giustificato.

A questo primo pilastro dell’etica medica tradizionale corrisponde, in maniera simmetrica, la seconda convinzione: che nell’etica medica quello che si domanda al paziente è di affidarsi e di fidarsi del medico, il quale prende le decisioni, in scienza e coscienza, per il bene del paziente. “Il malato comincia a guarire ― affermava il celebre clinico spagnolo Gregorio Maranon ― quando obbedisce al medico”. La medicina è considerata una struttura essenzialmente etica, in quanto si basa su una fiducia. Il malato confida nella correttezza del medico e nella sua disponibilità a lasciarsi guidare in modo prioritario dalla volontà di fare il bene del paziente.

La terza dimensione condivisa nella nostra società è considerare il prendersi cura di qualcuno come un’impresa sociale; più in particolare, come un problema familiare. Quando scattano le emergenze della salute noi non rileviamo la tendenza a risolverle in modo individualistico; queste situazioni scatenano piuttosto la solidarietà, provocano la mobilitazione del complesso familiare. Nella nostra tradizione noi non ci rapportiamo con il medico come un individuo ― con un suo mondo morale che è unico e irripetibile ― con un altro individuo, ma come gruppo familiare. Ci sono dei medici che non riescono a parlare con il proprio paziente nell’ambulatorio, perché il paziente ― anche adulto ― è sempre accompagnato dalla mamma, la signora dal marito, il marito dalla moglie (e magari anche dalla propria mamma...!). Come interlocutore del medico si pone sempre il gruppo familiare. Le decisioni mediche, anche nella loro dimensione etica, si scontrano con l’ethos, i valori condivisi dalla famiglia.

Questo profilo dell’etica medica ha praticamente attraversato tutti i cambiamenti, producendo un consenso fondamentale sul fatto che il medico e

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il paziente, il paziente e la sua famiglia, praticamente fossero dei mondi interpersonali, che condividevano gli stessi valori circa la salute, anche quando divergevano su altri valori sociali o etici. Era diffusa la convinzione che si possa agevolmente identificare una omogeneità sostanziale intorno a ciò che è buono, auspicabile e giusto, quando si tratta di riparale o difendere la salute. Per quanto parcellizzati e divergenti possano essere gli universi morali, così che possiamo arrivare a considerarci in molti ambiti estranei gli uni con gli altri, ciò non vale quando consideriamo la salute. Nella salute non siamo stranieri morali; facciamo parte di una stessa comunità tenuta insieme da uno stesso cemento, che è l’etica medica.

In un contesto di questo genere al pluralismo morale vero e proprio viene attribuito un ruolo marginale nella società, quasi di folclore. Basti pensare che cosa succede quando di fronte a un medico in un ospedale arriva un vero “straniero morale”. Nella nostra società non riesco a trovare un esempio più chiaro per questo ruolo che il testimone di Geova, in quanto ha un universo di riferimento ― convinzioni religiose e valori morali ― che non è condiviso dalla maggior parte della società. Qualcuno ha detto che l’incubo di ogni medico è di incontrare, un giorno o l’altro, un testimone di Geova che rifiuta una trasfusione sanguigna, quando sia medicalmente indicata o addirittura assolutamente necessaria. Il campionario delle strategie messe in atto dai medici per sfuggire al confronto destabilizzante con un sistema di riferimento etico che contrasta con l’etica medica consolidata si estende dalle più grossolane ― strappare di nascosto il foglietto che proibisce la trasfusione trovato nel portafoglio del malato adulto ― alle più raffinate ― far abbassare la glicemia fino a che sopravvenga uno stato di non lucidità, per sentirsi poi giustificati a procedere in stato di necessità ―.

L’obiezione di coscienza che viene da uno straniero morale, il quale dichiara: “Piuttosto che farmi trasfondere il sangue io preferisco la morte; piuttosto il martirio che l’abiura”, non è presa sul serio dal mondo medico, forte del consenso sociale che circonda l’etica medica dell’Occidente. I pochi casi in altri ambiti della medicina che finora hanno attirato l’attenzione ― per esempio, la protesta di un iman per un espianto di organi a un giovane musulmano deceduto, in contrasto con le indicazioni etiche della sua religione ― non hanno messo seriamente in discussione la struttura monolitica dell’etica medica.

In fondo, non sentiamo che la presenza di persone con un altro universo di valori, un’altra religione, un modo diverso di concepire la vita e di legittimare l’intervento medico, minacci la solida etica medica, che ha attraversato 25 secoli di storia culturale, quale espressione di un consenso

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di tutti nella nostra società su ciò che è appropriato fare al malato e su quello che il malato vuole per sé.

Ma è arrivata la stagione della bioetica e ha rimesso in discussione questo punto di riferimento (Spinsanti, 1999). Dobbiamo riconoscere che l’Italia non ha svolto un ruolo attivo in quel cambiamento di rapporti tra sanitari e pazienti che si può ricondurre alla bioetica. Da noi è avvenuto piuttosto che molte istanze normative del passato si sono semplicemente riciclate come bioetica, limitandosi a cambiare etichetta. La bioetica, intesa come fondamentale rimessa in discussione in seno alla società di ciò che è giusto, doveroso o appropriato nella cura della salute, ha bisogno di un contesto appropriato, che è quello del pluralismo culturale e del riconoscimento del diritto alla diversità. Non è per caso che la bioetica sia cresciuta nell’humus della società americana.

Uno studioso di bioetica molto noto, Tristam Engelhardt, ha fatto una descrizione molto vivida dei paradossi a cui si trova di fronte un americano: “Noi ― dice sostanzialmente Engelhardt ― dobbiamo trovare un’etica comune che valga per il mormone di Salt Lake City come per l’omosessuale militante e gay di Los Angeles, per il cattolico fondamentalista come per il battista ancora più fondamentalista del profondo Sud; per il filippino che aderisce ancora, sostanzialmente, alla lingua e ai valori morali della sua comunità come per l’intellettuale più liberal e ateo che si possa immaginare”. La bioetica americana è nata con l’intento di trovare una composizione che permetta la convivenza tra valori e stili di vita così diversi, che si traducono in scelte attinenti alla medicina e alla sanità (Engelhardt, 1999).

L’interpretazione è valida, ma non chiarisce ancora lo spirito che anima la bioetica come movimento culturale. L’America è l’unico paese che ha avuto il coraggio di mettere nella propria costituzione, quella che ha sancito la sua indipendenza nel 1776, che ogni essere umano nasce con alcuni fondamentali diritti che gli sono stati dati da Dio, che nessuno Stato può rimettere in discussione o conculcare; oltre al diritto alla vita e alla libertà, ha proclamato anche un terzo diritto, quanto mai inquietante, che nessuna altra costituzione ha mai ripreso: il diritto a cercare la felicità (the pursuit of happiness).

Questo diritto corrisponde fondamentalmente al diritto di fare per la propria vita le scelte che ognuno ritiene più consone ai propri valori e al modello di vita ideale. Nessuno Stato può dire qual è la buona vita per me; nessuna politica, nessuna legge, nessuna preoccupazione di tutela può entrare nell’ambito in cui io dò forma alla mia vita morale. Questo terzo diritto non è diventato rilevante per l’etica medica finché non è sbocciata la stagione in cui quello che la medicina può fare diventa veramente una possibilità di modificare la buona vita o la

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ricerca della felicità, così come ognuno soggettivamente riesce a modellarla. Finché, in altre parole, la medicina è stata fondamentalmente un’impresa, benefica sì, ma sostanzialmente impotente a modificare il corso naturale della vita con l’offerta alle persone delle alternative vere circa la durata e la qualità della vita, non è entrata in rotta di collisione con il diritto alla felicità. Lo diventa nel momento in cui la medicina può farlo; e oggi la medicina può pesantemente interferire con il progetto esistenziale del malato.

La nostra medicina ha acquistato una potenza reale che era impensabile in passato. Con gli interventi che alcuni definiscono di “accanimento terapeutico” e altri semplicemente di volontà determinata di prolungare o di rendere possibile la vita in condizioni limite (pensiamo, per tutte, alla possibilità di conservare per un tempo indefinito persone in coma vegetativo permanente), si configura una situazione nuova, in cui quello che la medicina è in grado di fare può non essere in consonanza con il diritto di ciascuno di cercare la felicità o la buona vita così come desidera.

Ciò fa sì che la differenza non è più soltanto tra il mormone, l’ebreo, il cattolico e l’ateo: la diversificazione passa trasversalmente dentro ogni famiglia, dentro ogni comunità di appartenenza. Nella stessa famiglia, io e il mio fratello gemello possiamo avere idee completamente diverse su ciò che è appropriato o non è appropriato per una cura della salute in armonia con il nostro desiderio di vita felice.

Questo è il luogo originario della bioetica. Essa nasce da una medicina che incontra il successo, ma allo stesso tempo deve fare i conti con il lato oscuro del successo. Conosce la disperazione di non avere più dei punti di riferimento impersonali e oggettivi, validi per tutti, ma deve assumere i punti di riferimento soggettivi dell’individuo. Ciò che vale per tutti e per ciascuno si scontra necessariamente con l’articolazione soggettiva che ognuno fa delle proprie differenze.

Che cosa ha fatto la bioetica americana per rispondere a questa situazione? Non ha elaborato un’etica universale, quasi fosse un surrogato della morale religiosa. Nella nostra società non è venuta meno solo la forza compaginante delle religioni, ma anche l’illusione illuminista di trovare nella ragione un discorso che valga per tutti e per ciascuno nella società a un livello minimo. Dobbiamo arrivare a un altro modo di approcciare i problemi e di proporre norme. L’apporto della bioetica americana è stato quello di elaborare una lingua franca pensata in modo da valere per tutti. È la lingua dei princìpi.

Riprodotto in termini molto semplici, l’approccio dei princìpi può essere ricondotto al seguente ragionamento: ognuno di noi ha una comunità morale di

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appartenenza, di tipo religioso o di tipo laico, che si struttura condividendo determinati valori; ognuno di noi ha delle preferenze individuali, delle opzioni, delle scelte di vita che nascono da una certa gerarchia di valori. Senza annullare tutte queste differenze, possiamo tuttavia trovare un accordo nella società su alcuni princìpi fondamentali che devono essere rispettati.

quattro principi con i quali le nostre scelte si devono confrontare sono: il principio della beneficità (purtroppo il termine inglese “beneficence” è stato tradotto infelicemente in italiano come principio della beneficenza; in italiano suscita sempre molta ilarità quando si dice che i medici devono agire secondo il principio della beneficenza...; in realtà questo principio coincide con quello che conosciamo dalla tradizione dell’etica medica: fare il bene del malato), il principio della non malefìcità (ovvero di non procurare un danno al malato), il principio dell’autonomia, il principio della giustizia.

Questi principi fondamentali formano un quadro analitico generale, un linguaggio morale comune in una società pluralista. Anche se non sono facilmente traducibili in regole operative. I principi valgono “prima facie”, cioè valgono a meno della dimostrazione del contrario. Il principio è vincolante, a meno che non entri in conflitto con un altro principio.

Questo approccio dei princìpi ha avuto molto successo, ma ha creato anche una certa delusione. Perché questi princìpi, che suonano molto chiari e convincenti finché li enunciamo in astratto, ci abbandonano quando di fatto entriamo nelle decisioni concrete, quando ci troviamo, come medici o come malati, di fronte a delle alternative. Il sistema dei princìpi, dopo aver contribuito alla diffusione e alla popolarità di immagine della bioetica come discorso pubblico, specialmente nei paesi anglosassoni, è stato rimesso in discussione dagli studiosi della disciplina.

Raanan Gillon, uno studioso inglese, pur difendendo e proponendo la validità dei principi per regolare le nostre scelte in medicina, ha proposto un’immagine molto interessante, che forse si avvicina un po’ di più a quello che facciamo tutti in realtà. A suo avviso, i princìpi non vanno presi come degli assoluti, nel senso che un solo principio ― come “fare il bene del paziente”, oppure rispettare “l’autonomia del paziente” ― ci risolva tutti i problemi. All’illusione che ci sia una specie di regole prescrittive, che una volta formulate ci dicono cosa bisogna fare ora, in questo momento, o qualcosa come un algoritmo dal quale ricavare il comportamento che si addice alla situazione, noi dobbiamo sostituire l’immagine del giocoliere.

Un bravo giocoliere è tanto più abile quante più palle sa tenere per aria per un periodo più lungo di tempo. Nella bioetica che si affida ai principi ― afferma

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Raanan Gillon ― non possiamo scegliere un solo principio (per esempio: fare il bene del malato; oppure affidarsi, come in genere preferisce la bioetica americana che è molto individualista, alla volontà del malato, cosicché l’unica condizione da rispettare sia la sua decisione, sulla base del “consenso informato”) e attenerci a questo solo principio. Piuttosto dobbiamo tenere, come un giocoliere, in movimento più palle ― più princìpi ― tutti quanti insieme; sapendo già in anticipo ― commenta in maniera realistica lo studioso inglese ― che succederà prima o poi che una palla cada a terra e tutti quelli che sono attorno additeranno la palla caduta, non quelle che siamo riusciti a tenere in movimento. Tutti diranno: “Ah, ecco, hai infranto il principio dell'autonomia del paziente, hai infranto il principio della giustizia”, senza considerare quali e quante acrobazie abbiamo fatto per salvare il maggior numero di valori in gioco...

Per quanto interessante possa essere questo approccio teorico, dichiaro che la mia preferenza va alla teorizzazione dei princìpi proposta dallo studioso spagnolo Diego Gracia, di cui le edizioni San Paolo hanno tradotto in italiano un’opera magistrale: Fondamenti di bioetica (1993). Gracia sostiene che è pienamente difendibile la tesi che questi quattro principi possono essere considerati come il sunto di tutta la storia culturale dell’occidente relativamente all’etica medica. Tuttavia non dobbiamo pensarli come posti sullo stesso piano e neppure ― secondo l’immagine di Raanan Gillon ― dobbiamo cercare di giocarli tutti quanti contemporaneamente, ma è necessario stabilire tra loro una gerarchia. Ci sono dei princìpi che configurano un dovere più fondamentale e irrinunciabile.

Il primo dovere è quello, che si impone sopra tutti in medicina, di non recare detrimento al paziente. Si tratta del primum non nocere, già identificato dall’etica ippocratica. Il non fare il male a una persona è un principio non negoziabile, che per di più è sottratto alla disposizione del soggetto stesso. Ciò vuol dire che, anche se un paziente pienamente capace di intendere e di volere chiedesse qualche cosa che alla valutazione della sensibilità morale della società risulta un male, siamo autorizzati a non concederlo. Il male non si deve fare neppure a chi lo chiede.

Ugualmente non negoziabile è l’altro principio fondamentale, quello della giustizia. Anche questo non dipende dalla volontà delle persone. La richiesta fondamentale della giustizia è che tutti nella nostra società debbano essere trattati con uguale considerazione e rispetto. Non c’è una vita che vale di più o una vita che vale di meno. A questo principio arriviamo sia attraverso la definizione di persona, sia attraverso la via kantiana del rispetto dell’individuo, che va trattato come fine, non come mezzo.

Diverso invece è il secondo livello regolato dai principi dell’autonomia e

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della beneficità. L’autonomia della persona richiede che siano rispettati i valori e le preferenze di ognuno. E la beneficità, cioè fare il bene del malato, dipende da quello che il malato, o la singola persona, valuta come il proprio bere.

La non-maleficità e la giustizia sono principi assoluti, che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. In questa accentuazione possiamo individuare l’apporto dell’Europa, che ha una coscienza infelice nei confronti di quello che è riuscita a perpetrare conculcando queste fondamentali esigenze di rispetto dell’umanità. Infliggendo deliberatamente il male, violando l’integrità personale e la giustizia (pensiamo soltanto ai campi di sterminio nazisti), l’Europa è scesa sotto il minimo morale. Il non procurare danno agli altri e dare a tutti uguale considerazione e rispetto sono i “minima moralia” (Th. W. Adorno), sotto i quali non c’è etica, anche se tutta la società, per ipotesi, fosse d’accordo. Questa prospettiva rende inaccettabile un contrattualismo in cui basta cercare il bene della maggior parte delle persone, se ciò è ottenuto ai danni di qualcuno o non attribuendo a qualche attore sociale uguale considerazione e rispetto.

La beneficità, invece, tutelata dall’autonomia, è la ricerca del massimo morale. La non maleficità e la giustizia sono il minimo morale al di sotto del quale ogni società non deve scendere; anche se vi scendesse col consenso di tutti, sarebbe una società immorale. L’autonomia e la beneficità domandano, invece, quali massimi morali, che siano stabiliti con il contributo della persona.

Ciò implica che un’etica medica, che si presenti in versione aggiornata di una bioetica tutta rivolta alla difesa del minimo morale (per esempio, della difesa a oltranza di un’etica della sacralità della vita) non è sufficiente. Volenti o nolenti, siamo entrati in un’epoca in cui nelle nostre scelte dobbiamo fare i conti con il massimo morale, ovvero con quello che, soggettivamente, ciascun soggetto morale coniuga con la ricerca della felicità o del bene, con la vita morale, così come emerge dai valori e dalle preferenze individuali.

Da questa impostazione voglio trarre solo una conseguenza, relativa alla pratica del “consenso informato”. C’è un modo molto discutibile di lasciar entrare nel mondo della medicina ciò che è maggiormente caratteristico dell’èra della modernità, dei diritti e dell’autonomia dell’individuo, ed è l’uso burocratico del consenso informato, ridotto a un modulo da far firmare al paziente prima di un intervento diagnostico o terapeutico. L’accento qui cade sul consenso, visto soprattutto come una pratica finalizzata all’autotutela del professionista nei confronti di possibili sequele di tipo giuridico e giudiziario. Una “liberatoria” ― in parole povere ― da ottenere dal paziente.

Ma non è questo il centro di gravità delle nuova medicina. Il baricentro è l’informazione, non il consenso (anche perché sappiamo benissimo che il

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consenso un medico lo può ottenere in tante maniere; anche senza pensare a mezzi scorretti, come l’estorsione o la circonvenzione, il medico può sempre far pesare in maniera inappropriata la propria autorità sulla paura del paziente!). Non è il consenso, ma l’informazione che rende possibile la partecipazione attiva del paziente nelle decisioni che lo riguardano, cosicché possa strutturare le sue scelte secondo i propri valori.

Dobbiamo procedere oltre e affermare che neppure l’informazione sarà il primo atto. La nuova medicina ― simile in questo alla buona medicina di ieri e di sempre ― comincia dall’ascolto. L’informazione, infatti, non può essere data in maniera indiscriminata e impersonale. Bisogna cominciare con lo stabilire chi è la persona che deve essere informata, qual è il suo mondo morale, come articola la ricerca della felicità, quali sono le sue preferenze, qual è la buona vita e la buona morte per questo singolo individuo. Siamo così costretti a passare al di là del pluralismo delle culture, per confrontarci con l’unicità degli individui.

All’inizio di ogni buona pratica medica c’è un ascolto differenziato che, con una leggera forzatura, potremmo ricondurre alla domanda: “Tu a che tribù appartieni?”. Perché all’interno di un’omogeneità culturale dobbiamo riconoscere tante tribù, che articolano diversamente i propri linguaggi morali. Alla medicina di oggi domandiamo ben più della tolleranza che nasce dal riconoscimento del pluralismo delle culture: domandiamo la capacità di modellarsi sulle diverse sfaccettature dei mondi morali che nascono dai diversi modi di concepire la vita, il dolore, il ruolo della famiglia, lo spazio riservato alla scienza medica e quello proprio della religione o delle ideologie personali.

L’intercultura: da sfida a risorsa

L’intercultura sta ponendo problemi nuovi alla nostra società. Tra questi dobbiamo considerare anche l’impatto che la presenza contemporanea di diverse culture ha sull’impianto bioetico che abbiamo appena descritto. Oltre alla definizione della base etica in base alla quale fare le nostre scelte, dovremo affrontare la formazione necessaria per affrontare le esigenze di città multiculturali e fare del pluralismo culturale un’opportunità. Si segnalano iniziative pionieristiche in questo ambito, come l’attivazione di corso di laurea in “Scienze e tecniche dell’interculturalità” presso la facoltà di lettere e filosofia dell’università di Trieste, con il conferimento di un “dottorato in interculturalità”.

La formazione interessa in modo particolare la sanità. Il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 menziona esplicitamente, tra le “azioni” per la tutela dei soggetti deboli, “la formazione degli operatori sanitari

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finalizzata ad approcci interculturali nella tutela della salute”. Non si tratta di introdurre la medicina delle migrazioni come una nuova branca della medicina, e tanto meno come una nuova specializzazione. La medicina che si sviluppa prendendo sul serio l’interculturalità è fondamentalmente la medicina delle relazioni: reagendo alla tendenza a spostare il piano diagnostico verso l’oggettivazione strumentale, come predilige l’organicismo, la medicina deve imparare a integrare gli scenari e i contesti socio-culturali, nonché le risorse individuali e collettive del paziente. Il gruppo di appartenenza, con la sua cultura, diventa la principale risorsa.

Più che dilungarci in considerazioni teoriche, sarà opportuno attingere all’esperienza concreta di chi eroga i servizi sanitari in contesti interculturali. Una ricerca molto istruttiva, diretta dall’antropologo culturale Vincenzo Padiglione, è stata svolta a Roma, tra 11 strutture del territorio, comprendenti centri di ascolto, di orientamento e prima accoglienza, servizi di assistenza sanitaria e di consulenza specialistica (Padiglione et. al., 1999). Obiettivo della ricerca era quello di individuare i modelli di comprensione delle situazioni problematiche e delle fenomenologie sociali legate all’avvento della società multietnica. In particolare, si voleva verificare se le esperienze professionali legate a tali fenomenologie influiscono sulla costruzione di una competenza interculturale negli operatori socio-sanitari coinvolti in questo tipo di esperienze.

La ricerca ha portato all’individuazione di tre modelli caratteristici che contraddistinguono l’atteggiamento degli operatori, denominati rispettivamente differenzialista, universalista e di dialogo interculturale. Il modello differenzialista presuppone che il fenomeno dell’immigrazione possa essere affrontato come se esistessero problemi “etnospecifici” per “specifiche etnopersone”, quasi che le differenze d’origine fossero stabilmente “iscritte nella pelle” degli immigrati. Esaltare la specificità delle esigenze culturali si traduce nella pratica di una maggiore attenzione agli elementi immediatamente tangibili che marcano l’appartenenza culturale, primo fra tutti la lingua.

La seconda prospettiva da cui si può guardare l’intercultura è quella del fronte universalista. Essa parte dall’idea che sia possibile cogliere nelle persone immigrate, a prescindere dalla loro provenienza, delle caratteristiche invarianti, come se fossero tratti di personalità comuni a tutti i popoli. In questa prospettiva si ritiene inutile ricercare prodotti mentali a latitudini differenti, in quanto le emozioni, i comportamenti e gli affetti sono ritenuti fondamentalmente simili, almeno nei processi di base caratterizzanti. In questa direzione va letta una certa tendenza a credere che un modello di intervento possa risultare “universalmente efficace”.

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La terza prospettiva per leggere i fenomeni e i problemi legati all’intercultura è denominata dalla ricerca in questione dialogo interculturale. Questa posizione considera il tema dell’incontro tra culture ponendo attenzione alla conoscenza interculturale reciproca che si viene a creare nell’incontro stesso tra l’utente immigrato e l’operatore a cui si rivolge, partendo da un rapporto che rispetta le differenze culturali e accetta le diversità dei linguaggi in cui i due partecipanti alla relazione sono portatori, le osserva e le negozia nello svolgersi della relazione. L’attenzione privilegiata alla relazione tra l’utente e il contesto di inserimento consente agli operatori di svincolarsi da un tipo di intervento che cerca di dare semplicemente una risposta a un bisogno concreto, stimolando invece un atteggiamento attivo negli utenti per affrontare i loro problemi.

È interessante confrontare la ricerca svolta nel territorio romano con la rilettura critica di Marco Mazzetti (Padiglione et al., 1999, pp. 154-158). Mentre la ricerca individua tre “stili” nell’impostazione di un servizio sanitario interculturale, Mazzetti, sulla base di numerose osservazioni maturate soprattutto nell’ambito dei servizi agli immigrati gestiti dalla Caritas, mette in evidenza tre “fasi”, che attraverserebbero i servizi nel corso del tempo. Le tre fasi sono chiamate, dell’“esotismo”, dello “scetticismo” e del “criticismo sanitario”. A fronte degli atteggiamenti che mutano negli operatori, si registrano anche trasformazioni nel modo in cui gli immigrati si avvicinano ai servizi. Una tabella, proposta da Mazzetti, illustra sinotticamente i cambiamenti negli operatori e in coloro che ricevono i servizi:

Il confronto tra le due tipologie ― da una parte i tre modelli differenzialista, universalista e dialogo interculturale proposti da Padiglione, dall’altro le tre fasi dell’esotismo, dello scetticismo e del criticismo sanitario suggerite da Mazzetti ― lascia aperto un interessante ambito di ulteriore ricerca. Si tratta di verificare se gli atteggiamenti degli operatori esposti sul fronte dell’intercultura si modificano col tempo (cambiamenti diacronici), oppure se sono sincronicamente presenti, a seconda del modello dominante nel singolo servizio.

Da questa rilettura delle esperienze possiamo trarre un’indicazione preziosa per caratterizzare la medicina interculturale: essa non ha a che fare un paziente “straniero”, pietrificato nella sua diversità; né con un paziente “omologato”, da trattare come isoculturale. La medicina interculturale mette in relazione delle persone in cammino, in atto di riformulare continuamente la propria identità. Non è soltanto l’immigrato, infatti, a rischio di perdere la propria identità e sottoposto allo stress di riformularne una nuova: anche l’identità professionale del medico, con il suo bagaglio di certezze, è sottoposta a un’analoga spinta al cambiamento.

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Medico

Paziente

1° Fase

Esotismo

“Sindrome di Salgari”

“Sindrome da General Hospital”

2° Fase

Scetticismo

“questo non ha niente”

“mi fa solo perdere tempo”

“questo medico non vale molto”

“mi curano male

perché sono straniero”

3° Fase

Criticismo

- superare i pregiudizi

- considerare la diade

medico/paziente

- accettare i limiti del medico

e della medicina

- comprendere cosa sia

realisticamente possibile avere

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