Volontariato medico in Africa: una cura per la demotivazione?

Sandro Spinsanti

VOLONTARIATO MEDICO IN AFRICA: UNA CURA PER LA DEMOTIVAZIONE?

in Attive

anno XXIX, n. 2, ottobre 2012, pp. 18-19

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La cura non richiede solo testa e mani, ma anche cuore

"Fare il medico in passato era fonte di maggiore soddisfazione”: me lo dichiara un medico che ha la possibilità di fare confronti in famiglia. Mi esibisce, a riprova, una pergamena che ha trovato tra le carte di suo nonno, che era medico all’inizio del Novecento. È intestata all’illustre medico che “con rara perizia, con sapienti cure, con amore di padre per ben due volte strappò alla morte” il paziente, che gli dedica la pergamena “grato, a perenne riconoscenza”. “Oggi”, continua il medico dei nostri giorni, “questo affidamento, questa gratitudine non li trovo più. Per questo ogni tanto mi prendo un periodo di aspettativa dal mio ospedale a vado a fare il medico in Africa con qualche organizzazione di cooperazione sociale. Là mi sento veramente medico e ritrovo ciò che la professione non mi dà più in Italia”.

La confidenza lascia un retrogusto dolceamaro. Sì, certo: fa piacere sentire da un medico ortopedico che investe tempo ed energie, gratuitamente, per andare a operare sfortunate persone che mai potrebbero avere, altrimenti, prestazioni sanitarie di alte qualità. Vuol dire che la fonte della generosità, da cui sgorga la cura, non si è essiccata. Rattrista, però, che quel prezioso senso di autostima, legato all’esercizio di una professione filantropica per eccellenza, sia nutrito dal volontariato in Africa, piuttosto che dalla pratica quotidiana della medicina in patria. È come se l’orgoglio e la soddisfazione di esercitare una professione rivolta a ristabilire la salute richiedesse una specie di vacanza dal clima abituale di frustrazione in qui tanti sanitari sono ormai precipitati. Dichiarano di sentirsi stretti tra due fuochi: da una parte

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le richieste amministrative che sembrano conoscere solo il linguaggio dei tagli, delle liste di attesa, del budget da rispettare, delle restrizioni del personale; dall’altra il risentimento dei cittadini, che alzano sempre più la posta delle loro pretese e hanno sostituito l’antico rispetto per il medico con una diffidenza generalizzata. E basta poco per tradursi in ostilità, denunce, richieste di risarcimenti. Senza nessuna tolleranza per gli esiti incerti ai quali anche la professione esercitata con il maggior scrupolo espone chi pratica l’arte della guarigione. E ancor meno per gli errori. Anzi, diventano sempre più aggressivi gli studi legali che incitano a denunciare danni, veri o presunti, con la promessa di ripartire con i loro clienti gli eventuali proventi delle azioni giudiziarie.

Forse non ci rendiamo conto di quale danno procuriamo a tutti noi continuando a picconare il rapporto che tradizionalmente legava i malati a coloro che forniscono le cure. Medici e infermieri demotivati o al limite costretti a compensare con azioni di volontariato l’amarezza che accumulano giorno per giorno ci cureranno male. Perché la cura non richiede solo testa e mani, ma anche cuore.

E se i medici si sentono assediati dai malati, in un clima di ostilità e diffidenza, saranno portati a difendere se stessi, invece di canalizzare le loro energie nella lotta contro le malattie, in alleanza con i malati.

L’Africa è grande, i suoi bisogni sanitari sono immensi.

È una bella notizia che ci siano medici che allargano la loro sfera di attività fino ad accogliere quelle domande di aiuto. Ma ci piacerebbe che anche a casa nostra potessero mietere la giusta soddisfazione e la riconoscenza delle persone curate.